25 settembre: se la Destra “fascista” appare più unita della sinistra “progressista”

La caduta del Governo Draghi ha aperto la strada alle prime elezioni della storia repubblicana che si svolgeranno in autunno.

Viste le urgenze che avremmo dovuto affrontare le elezioni sono una vera e propria iattura per la tenuta economica e sociale del Paese, soprattutto perché esiste il rischio (a mio avviso molto concreto) che risulterà particolarmente complicato formare una maggioranza di Governo in grado di dare al Paese quella stabilità di cui avrebbe bisogno per poter tornare ad avere un ruolo da protagonista nel mondo occidentale. Non possiamo sapere con anticipo come andranno le prossime elezioni (non pretendiamo di avere la palla di vetro), possiamo limitare la nostra analisi sul risultato elettorale all’ipotesi che vincerà il centrodestra.

Detto questo però dai primi giorni di campagna elettorale possiamo già trarre alcune conclusioni, una su tutte: il centrodestra appare essere molto più compatto del centrosinistra. Alla coalizione Salvini-Berlusconi-Meloni è bastato un incontro per decidere la modalità con cui la coalizione sceglierà il prossimo leader. Si tratta di un’idea piuttosto semplice, che potremmo definire banale: sarà il partito della coalizione che prende più voti ad indicare quale leader di partito dovrà provare a formare un Governo.

Un modo questo per evitare guerre fratricide per decidere chi dovrebbe guidare la coalizione prima del voto.

In un sistema che progressivamente sta tornando al modello parlamentare della Prima Repubblica, dove a farla da padrone erano i partiti (anche se in questa fase politica i partiti appaiono particolarmente deboli con qualche rara eccezione) la scelta di indicare il nome del Presidente del Consiglio sulla base dei voti ai partiti appare la sola scelta logica, una scelta che avrebbe dovuto fare anche il centrosinistra.

Invece, il fronte progressista non solo non è stato in grado di trovare ancora un accordo sulla composizione delle prossime liste, ma non è stato ancora nemmeno capace di costruire una sorta di patto di Governo sulla base di un progetto comune per governare il Paese: ci si limita ed evocare l’Agenda Draghi sperando che questi possa tornare in campo dopo le elezioni. Un po’ lo stesso errore commesso da Pierluigi Bersani nel 2013 quando l’intera campagna elettorale del Partito Democratico venne incentrata sulla prosecuzione dell’agenda Monti, il quale nel frattempo era entrato in politica e non aveva nessuna intenzione di allearsi con il Partito Democratico.

Ora, questa situazione rischia di ripetersi, con l’aggravante che il centrosinistra non ha nemmeno stabilito un perimetro ben definito che stabilisce chi sono gli alleati di Governo e soprattutto perché bisogna essere alleati.

Non basta unirsi per sconfiggere la Meloni, serve un’idea seria su come bisogna ricostruire il Paese, su come vadano distribuiti i fondi del PNRR e di come si debba far fronte al crescente malessere sociale di diverse frange di popolazione.

L’ipotesi di un fronte progressista che unisca Partito Democratico – Azione e Articolo Uno sarebbe un progetto di governo che avrebbe un senso logico, ma per essere attuato ha bisogno che tutti i leader dei partiti coinvolti mettano da parte velleità di supremazia e divisioni personali e si uniscano per far fronte alle emergenze del Paese.

Spiace per Bersani (che ancora sogna di imbarcare Conte) ma un progetto simile non può assolutamente imbarcare il Movimento Cinque Stelle, non tanto per una questione di vendetta per aver fatto cadere il Governo Draghi, dimostrando di essere ancora troppo spesso degli alieni nella politica italiana.

Nella gestione della crisi Conte ha dimostrato di non essere ancora particolarmente avvezzo ai meccanismi della politica.

La crisi di Governo da lui innescata per una questione di principio gli è sostanzialmente scoppiata in mano, isolandolo completamente dalla scena politica italiana ed alienandogli la possibilità di essere l’eventuale ala sinistra di una possibile alleanza di Governo con il Partito Democratico.

Conte sembra non aver capito la gravità della situazione e non solo: il Movimento Cinque Stelle sta attraversando una fase piuttosto delicata della sua storia politica.

Il dibattito sul vincolo dei due mandati sembra non aver fine e sebbene Conte spinga per una deroga Beppe Grillo sembra non avere nessuna intenzione di cedere su quello che è uno dei punti fondamentali dello Statuto del Movimento.

Nessuno sembra considerare che proprio il vincolo è stato uno dei motivi fondamentali a spingere alcuni esponenti di spicco del Movimento ad abbandonare il Movimento stesso .

Questo li rende inaffidabili per una eventuale alleanza di Governo che deve progettare un piano politico della durata di una intera legislatura.

Discorso diverso, ma per molti versi simili deve essere fatto per Italia Viva.

Il partito di Matteo Renzi, a differenza dei Cinque Stelle sa bene come muoversi nelle stanze del potere, ma questo lo rende ancora più pericoloso per la stabilità di un eventuale Governo.

Inoltre, i punti di contatto tra Italia Viva ed una eventuale coalizione di sinistra e progressista, intenzionata a lavorare ad un progetto socialdemocratico, sono quasi nulli.

Italia Viva – per come si è mossa negli ultimi anni -. spesso è stata molto più vicina al centrodestra che non al centrosinistra.

Possiamo considerare questi due partiti le “ali estreme di una eventuale coalizione di centrosinistra” e questo basterebbe ad escluderla da un progetto unitario come quello che avrebbe in mente il segretario del Partito Democratico Enrico Letta.

Una coalizione troppo larga sarebbe rischiosa perché sarebbe unita solo della logica dello stare uniti “contro i sovranisti” (qualunque cosa questo voglia dire).

Se il centrosinistra vuole competere alle elezioni è invece fondamentale costruire un progetto di Governo che metta al centro della propria azione politica diritti e lotta alla povertà.

Due anni di pandemia hanno fiaccato il Paese, hanno aumentato la povertà ed hanno aumentato il tasso di disoccupazione a livelli molto più alti rispetto a due anni fa.

Bisogna puntare su un nuovo patto con i cittadini che impedisca la vittoria della Destra non perché populista ma perché le sue proposte puntano a smembrare quel poco di stato sociale che abbiamo ancora in piedi in Italia.

Nel caso si dovesse perdere, inoltre, non bisogna fare il solito psicodramma cercando un capro espiatorio per la sconfitta ma bisogna rimboccarsi le maniche coerentemente con la propria storia e fare un’opposizione credibile, ideologica e coerente con le proprie idee di società.

Mattarella bis. Chi vince, chi perde

Le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica si sono di fatto concluse con un nulla di fatto: alla fine del Grande Gioco il Parlamento non è stato in grado di trovare un nome condiviso, un candidato decente in grado di prendere il posto di Mattarella.

Eppure queste elezioni hanno comunque dato dei segnali politici interessanti per capire quali sono gli equilibri dentro le forze politiche in Parlamento in vista delle elezioni del prossimo anno.

Una nota a margine, prima di dare le pagelle va fatta: quella che abbiamo vissuto più che una crisi parlamentare è stata una vera e propria crisi politica, dove i leader di partiti non solo hanno perso la loro capacità di attrattiva sulle masse ma hanno anche perso il controllo dei loro partiti sempre più in difficoltà.

Matteo Salvini

Partiamo dal grande sconfitto.

Matteo Salvini. Avrebbe dovuto essere il king maker dell’elezione del Presidente della Repubblica.

Questa elezione sarebbe dovuta essere per Salvini il battesimo del fuoco che lo legittimava come capo indiscusso del centrodestra, il primo che riusciva a far eleggere un Presidente alla destra.

Invece questa elezione è stata la sua Caporetto. Una sconfitta peggiore di quella subita da Bersani nel 2013, quella dei famosi 101 franchi tiratori.

Andiamo però con ordine: inizialmente Salvini decide di giocare di rimessa. Nelle settimane precedenti le elezioni ha cercato in tutti i modi di smarcarsi dalla pesante autocandidatura di Silvio Berlusconi.

Nel corso delle elezioni è riuscito a dire tutto ed il contrario di tutto.

Prima presenta la rosa di nomi composta da Moratti, Pera e Nordio. I nomi a prova di bomba del centrodestra, tre nomi che avrebbero dovuto avere il consenso del centrosinistra perché “non hanno tessere di partito e perché sono nomi al di là di ogni sospetto” una conferenza stampa fantozziana, dove ad un certo punto a proposito di Pera dice “mica è da tutti scrivere un libro con Benedetto XVI”.

Peccato che poi si lascia abbindolare dal centrosinistra che boccia i nomi costringendo Salvini ad iniziare un disperato inseguimento per cercare un nome che potesse piacere al centrosinistra.

Cerca di far virare i suoi su Casini, ci ripensa, poi ritorna su Casini e crea confusione nella sua stessa coalizione.

Alla richiesta di nome super partes propone Elisabetta Casellati – cercando una sponda con Renzi che però lo lascia appeso – puntando sul fatto che non “si possa dire di no al Presidente del Senato”. Risultato, la Casellati viene bruciata non ottenendo nemmeno i voti della Lega. In poco meno di due giorni riesce a distruggere il fragile equilibrio del centrodestra, perdere consensi nel suo partito e portare alle quasi dimissioni di Giorgetti dal Governo.

Distruttivo: Voto 3

Giorgia Meloni

Di certo nemmeno Giorgia Nazionale può cantare vittoria.

La sua speranza era quella di mandare Mario Draghi al Colle per tornare al voto il prima possibile e la rielezione di Mattarella non è di certo una vittoria.

Nonostante il nome proposto da Fratelli d’Italia non avesse nessuna chance di vittoria (Nordio) è stato utile per dare un segnale importante alla coalizione di centrodestra: Fratelli d’Italia è apparso l’unico partito coeso e con una strategia.

La loro idea era quella di mandare Draghi al Colle per andare al voto anticipato, visto che non era possibile tanto valeva restare all’opposizione e votare per un proprio candidato.

Tattica: Voto 6,5

Enrico Letta

Il segretario del PD sapeva solo due cose quando tutto è iniziato: non aveva i numeri del Parlamento e doveva evitare i franchi tiratori nel suo partito.

Decide allora di adottare la strategia migliore: tirare i remi in barca ed aspettare che fossero gli altri a fare proposte e bruciare candidati nella migliore tradizione democristiana.

Con i suoi no e le sue non risposte manda fa saltare i nervi a Salvini che va letteralmente in tilt, fa saltare il banco dell’asse Conte-Salvini per il nome della Belloni, fino a portare tutto il Parlamento dove voleva lui: ovvero scegliere un nome tra Draghi e Mattarella.

Alla fine viene eletto il secondo, Letta esprime soddisfazione anche se non era il suo candidato ideale (visto che anche lui come la Meloni avrebbe preferito andare al voto anticipato per non logorare troppo il partito

Democristiano: Voto 7-

Luigi di Maio

Se proprio si dovesse cercare un vincitore nelle giornate convulse che abbiamo vissuto, il vincitore è proprio lui.

Il ragazzo di Pomigliano d’Arco, quello che venne usato come figurina da Beppe Grillo nel 2013, che parlava del partito di Bibbiano e che tutti prendevano in giro perché aveva fatto il bibitaro a San Paolo negli anni in cui è stato in Parlamento ha studiato ed ha capito benissimo come funzionano i meccanismi del potere.

Di Maio aveva in mente tre obiettivi: prendere il posto di Draghi come Presidente del Consiglio, lasciare tutto com’è e liberarsi della morsa di Conte e Grillo per riprendersi il movimento.

Di tutti quelli menzionati sinora è il solo che sarebbe caduto in piedi in qualunque caso.

Resta in silenzio per buona parte delle elezioni, lasciando a Conte la patata bollente di parlare con la stampa, salvo poi affossarlo con un colpo di teatro quando boccia il nome della Belloni dicendo “Elisabetta è una sorella, ma non la voto”.

Doroteo: Voto 9.

Giuseppe Conte

Forse perché non troppo avvezzo ai giochi di potere in una situazione simile, forse perché troppo buono ed ingenuo, fatto che sta che l’ex Avvocato degli Italiani viene asfaltato su tutta la linea.

Va detto che in molti casi ha fatto tutto da solo: sino a pochi giorni prima delle elezioni sostiene Mattarella, poi inizia a spingere per un candidato donna, chiunque esso sia.

Cerca di liberarsi del duo Di Maio-Letta che trama alle sue spalle cercando di stringere un accordo sulla Belloni con Salvini ma viene sconfessato dalla stesso di Maio che lo lascia con il cerino in mano, perde completamente contatto con la realtà e con il suo stesso partito ed è costretto ad accettare obtorto collo la rielezione di Mattarella.

Ingenuo: Voto 4

Matteo Renzi

La sua strategia era semplice: far eleggere Pierferdinando Casini.

Il fatto è gioca la sua partita come un consumato giocatore di poker che ha in mano un full mentre ha una coppia di due.

Va detto che ci prova sino alla fine, tessendo trame, cercando un asse che vada da destra a sinistra sperando di conquistare consensi per il suo candidato senza farlo sapere troppo in giro. Depista i giornalisti parlando della cessione di Vlahovic alla Juventus e tiene la bocca cucita su qualunque nome possibile per la presidenza.

Quando si accorge che non ha chance lo molla in maniera cinica e fa convergere i voti su Mattarella per intestarsi almeno una parte della vittoria degli altri.

Ha il merito di essere il primo ad affossare il nome della Belloni e costringe tutti gli altri a seguirlo sulla stessa strada che avrebbe portato in maniera inevitabile alla rielezione di Mattarella.

Cinico: Voto 7,5

Anna Maria Casellati

Cade nella trappola di credere che Salvini abbia i voti per eleggerla e rimane spiazzata quando si rende conto non solo di non avere i voti della sinistra (come era ovvio) ma di non avere nemmeno quelli del centrodestra.

Commette il grave errore di restare al suo posto mentre nello spoglio facendosi inquadrare più volte mentre manda messaggi al cellulare, incurante di tutto quello che le succede attorno.

Non contenta, al momento dello spoglio con il suo nome, compie l’errore di restare seduta al suo posto mentre avviene lo spoglio, costringendo Salvini a difenderla con parole improbabili.

Disperata: Voto 5

Altri attori

Pierferdinando Casini

Il Grande Sconfitto.

Come ogni elezione che si rispetti entra da papa e ne esce cardinale ma ha il merito di uscirne a testa alta.

Per tutta la durata delle elezioni non rilascia una dichiarazione che sia una, posta sui social una sua foto da giovane parlando di “passione politica” e tesse trame con gli altri parlamentari cercando di conquistarsi il più ampio consenso possibile, sapendo benissimo che la sua potesse essere una battaglia persa. Non si espone al carrozzone mediatico e quando viene eletto Mattarella evita accuratamente gli schizzi di fango prodigandosi in complimenti per la scelta dei partiti e nei complimenti al Presidente rieletto.

Vero Democristiano: Voto 7,5

Mario Draghi

Anche lui, entra da papa e ne esce cardinale se non vescovo.

Dopo aver lanciato la sua personale opa alla carica di Presidente della Repubblica con il discorso di fine anno e convinto che tutti i partiti lo eleggeranno al Colle rischia di restare con il cerino in mano, senza la Presidenza e soprattutto con un governo spaccato.

Per quanto rispetto a Mario Monti (recentissimo predecessore Presidente di un Consiglio di un Governo tecnico) Mario Draghi è indubbiamente più “politico” ma in questo frangente dimostra di non avere la minima idea della politica.

Incapace di leggere gli equilibri su cui si regge il Parlamento, analizzare le forze in campo, si lancia in una improponibile autocandidatura visto il momento che si trova a vivere l’Italia.

Si salva in corner chiamando personalmente Mattarella implorandolo di accettare un secondo mandato.

Egocentrico: Voto 6,5

Sergio Mattarella

Il vero convitato di pietra di queste elezioni presidenziali.

Il nome che aleggia per tutta l’elezione in ogni angolo del Parlamento.

Cerca in tutti i modi di evitare di essere tirato in ballo, parla ogni volta dei rischi costituzionali in caso di rielezione ed apre alla sua rielezione solo nel caso in cui ci fosse una larga maggioranza sul suo nome.

Scompare dai radar per tutti e cinque i giorni, non rilascia dichiarazioni, diventa un fantasma.

Ricompare solo per accettare il mandato presidenziale per la seconda volta dopo essere risultato il Presidente eletto con più voti nella storia repubblicana.

Accetta l’incarico esordendo con una frase che secondo me entrerà nella storia: “Avevo altri piani, ma mi metto al servizio delle istituzioni” dimostrando di essere un buon servitore delle istituzioni da una parte e dall’altra lasciando comunque intendere che serve una profonda riorganizzazione dei partiti, che comunque non tocca a lui.

Vero mattatore: Voto 10

Silvio Berlusconi

Altro convitato di pietra alle elezioni del Presidente, a differenza di Mattarella, si muove come un caterpillar giocandosi tutte le carte a disposizione per essere eletto Presidente.

Sconfessato prima ancora della sua elezione dai suoi stessi alleati prova sino alla fine a giocare una partita che era già persa in partenza e si fa male.

Quando si rende conto che non ha nessuna possibilità prova a minare il centrodestra dall’interno spingendo i suoi a votare per Mattarella quando tutto il centrodestra vota per Casellati (i 49 voti per Mattarella sono quasi tutti di Forza Italia).

Politicamente forse è finito ma riesce comunque con un colpo di coda a non consegnare il centrodestra a Salvini e Meloni e non è detto che alle prossime elezioni non avrà comunque voce in capitolo pur essendo di fatto fuori dai giochi.

Stratega: Voto 5,5.

2022, l’anno che verrà (idee per un socialismo moderno)

Gli eventi da cui voglio partire per il solito articolo di prospettive per il 2022 sono due: la prima, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, conferenza in cui il Presidente del Consiglio de facto decide di buttare là la sua nomina a prossimo Presidente della Repubblica.

Quella definizione di “nonno d’Italia al servizio delle istituzioni” sembra essere quasi un richiamo ad altri nonni d’Italia: Sandro Pertini, Francesco Cossiga (il nonno esuberante è un po’ matto), Oscar Eugenio Scalfaro (il nonno severo), Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Questa dichiarazione, se unita al fatto che lo stesso Mario Draghi sostiene che la attuale maggioranza possa andare avanti anche senza di lui (magari trovando una figura altrettanto autorevole per guidare il Governo sino alla fine della legislatura, un nome su tutti quello di Marta Cartabia, attuale Ministro della Giustizia e già membro della Corte Costituzionale), possiamo ipotizzare uno scenario in cui Draghi viene eletto Presidente della Repubblica e nomina il Presidente del Consiglio.

Siamo di fronte a quella che potrebbe essere una svolta epocale nel modo di intendere la politica italiana, una svolta che allo stesso tempo rischia di creare un pericoloso “corto circuito costituzionale” dove il Presidente della Repubblica viene nominato dal Parlamento che presiede e decide il suo successore senza passare dalle urne.

Si arriverebbe insomma ad un semi-presidenzialismo senza elezione diretta del Presidente e senza elezione del Parlamento. Semmai dovesse verificarsi uno scenario simile servirebbero alle due presidenze due figure di alto spessore costituzionale e politico in grado di guidare una svolta che deve necessariamente passare da una riforma costituzionale.

Arrivare al semi-presidenzialismo sarebbe una svolta per un Paese come l’Italia, da anni ingessato in un sistema come quello parlamentare spesso ancorato ad una visione della politica di impronta gattopardesca dove “tutto cambia per non cambiare niente”.

E qui arriviamo al secondo evento della settimana: la vittoria di Boric, candidato socialista alle elezioni in Cile.

Ora, la domanda che ci si potrebbe porre è: che correlazione esiste tra i due eventi? Apparentemente nessuna, ma se cerchiamo di dare una lettura “alternativa” a questa notizia possiamo cercare di stilare una lista di buoni propositi per la sinistra italiana.

La vittoria in Cile di un candidato socialista dimostra senza alcuna ombra di dubbio che le idee socialiste non sono morte ma anzi possono ancora convincere una larga parte di popolazione a votare per una parte politica che a quei principi si richiama.

Prenda lezione il Partito Democratico: accanto alle battaglie sociali (giustissime) bisogna portare avanti anche quelle battaglie politiche ed economiche che sono alla base della costruzione di uno stato ispirato da principi socialisti: redistribuzione della ricchezza, diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto alla salute, diritto alla libertà di scelta, tutte battaglie che negli ultimi anni sembrano essere state abbandonate dal Partito Democratico impegnato nel tentativo di “umanizzare la globalizzazione”.

Va ammesso – come già sostiene Massimo D’Alema – che la globalizzazione non può essere umanizzata, non si tratta di un processo economico a favore delle masse, ma si tratta di un sistema economico fondato sull’individualismo, sul processo di homo homini lupus.

La sinistra deve recuperare il senso della collettività, rimettere il “noi” al centro della politica dopo che per anni ha portato avanti battaglie incentrate sul concetto di “io”.

La sinistra deve ritrovare la sua strada, ripartire da quella che definisco essere la “trilogia dei Maestri della sinistra”: Gaetano Azzariti, Mariana Mazzuccato e Thomas Piketty.

Si riparta da questi tre pensatori per rimettere al centro un forte pensiero ideologico, in grado di giustificare le scelte politiche e conquistare voti.

Si riparta da alcune idee base, dalla ricostruzione del pensiero socialista, invece che continuare con la sua distruzione perché si cerca di inseguire la destra per occupare il centro.

Per il nuovo anno insomma, si lavori alla costruzione sì della nuova Italia, ma anche di una nuova sinistra che possa assumere la guida di quel processo di transizione del Paese, una sinistra che riparta da una delle idee più semplici della politica, che poi è una delle idee più belle del socialismo: “indietro non resti nessuno”.

Buone Feste e Hasta la victoria, Siempre!

Il Partito democratico, ovvero la politica delle occasioni perdute e le prospettive per cambiare

La attuale crisi politica in corso è solo l’ultima di una serie politiche che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni.

Dal Governo Monti in poi (2011-2013) abbiamo vissuto a fasi alterne una crisi di governo dietro l’altra e la sensazione costante di una profonda instabilità politica.

Complice una serie di legge elettorali (prima il cosiddetto Porcellum e poi il Rosatellum in funzione oggi) abbiamo vissuto come cittadini la politica nella più totale delle incertezze.

In questo profondo guado di crisi continue abbiamo diversi protagonisti in negativo, ma la mia attenzione oggi vorrebbe soffermarsi su uno di questi interlocutori: quel Partito Democratico nato nel 2007 con la narrazione del “partito a vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria e terminato in maniera ingloriosa nell’ultima esperienza a fare da ruota di scorta al Movimento Cinque Stelle (quello stesso Movimento Cinque Stelle che sino ad un anno fa accusava il PD di essere il “partito di Bibbiano”).

La lenta e progressiva (ed a mio avviso ancora non completata) trasformazione del Partito Democratico da “partito delle istituzioni” in “partito populista” ha portato ad un generale crollo della politica in Italia, da un lato aprendo la strada proprio al Movimento Cinque Stelle e dall’altra parte spalancando le porte al sovranismo della Lega di Matteo Salvini da una parte e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

In questo articolo cercheremo di suddividere la fase storica del Partito Democratico in tre momenti, tre occasioni perse per poter davvero cambiare la politica.

Il primo momento su cui ci dobbiamo soffermare è la nascita stessa del Partito Democratico, nato su spinta di Walter Veltroni a seguito della crisi di Governo dell’ultimo Governo Prodi del 2008.

Sin dalla sua nascita il Partito Democratico avrebbe dovuto avere due obiettivi: completare il processo di costruzione di una “sinistra istituzionale” da una parte e dall’altra completare il processo di superamento della fase “post-comunista” iniziato con il Congresso del 1992 e la nascita del Partito Democratico della Sinistra.

Ricordo ancora che in quei giorni militavo nei Democratici di Sinistra e mentre si apprestava il Congresso rispondevo alla domanda che molti miei amici mi ponevano (la domanda era “è davvero necessario?”) spiegando quali erano le ragioni di una simile scelta politica e quello che volevamo fare e che cosa proponevamo.

Un partito che fosse di sinistra, ma che allo stesso tempo fosse in grado di aprirsi ai movimenti ed alle realtà locali, come Arci, Anpi, associazioni varie di cittadini e tutte quelle realtà che si muovevano al di fuori della realtà politica dei partiti.

Il Partito avrebbe dovuto essere il punto di raccordo tra la società che stava cambiando e le istituzioni che invece faticavano ad accettare e comprendere quel cambiamento.

Un partito plurale, aperto alle novità, difensore di ogni forma di diversità sia essa di sesso, religione, colore di pelle ceto sociale. Allo stesso tempo il partito avrebbe dovuto portare avanti una battaglia per abolire il precariato dal mondo del lavoro (in seguito si sarebbe parlato di redistribuzione della ricchezza) e tutela dei lavoratori, pensando però allo stesso tempo di allargare le forme di tutela anche e soprattutto alla piccola e media impresa che sino a quel momento non era stato mai considerato “parte del mondo del lavoro”.

Il progetto iniziale del Partito Democratico era dunque quella vecchia idea di “superare” il conflitto tra capitale e lavoro e di conseguenza costruire una sinistra che potesse essere parte del cambiamento della globalizzazione allora al suo massimo. L’idea di per sé non era sbagliata, l’errore è stato considerare che si potesse fare “superando le ideologie” senza rendersi conto che senza ideologia non fosse possibile cambiare le cose. Lo stesso liberismo di per sé è un’ideologia, non si può parlare di fase post ideologica facendo riferimento ad una singola ideologia.

Questo il primo errore. Il secondo (commesso sempre nella fase iniziale del partito) è stato pensare di poter cambiare le istituzioni dall’interno, o meglio ancora di poterlo fare da soli.

La vocazione maggioritaria delle elezioni del 2008 si è scontrato con la coalizione di centrodestra (che pur avendo dato vita al Popolo delle Libertà rimaneva una coalizione di Governo contro un singolo partito). Il risultato fu comunque degno di nota: al suo primo mandato il PD ottenne il 34% dei voti, una buona iniezione di fiducia per un partito alla prima prova elettorale.

L’idea di Pierluigi Bersani era piuttosto semplice: riportare indietro le lancette del partito, mettendo in piedi un progetto più vicino alla socialdemocrazia classica che non al kennedysmo di ispirazione veltroniana (tutto in salsa italiana) cercando allo stesso tempo di tenere in piedi il rapporto con la parte cattolica, rapporto che stava seriamente iniziando a logorarsi.

Quando è riuscito a rimettere in piedi il partito Bersani ha deciso di fare il passo successivo: la foto di Vasto, quella con Nichi Vendola e Antonio di Pietro avrebbe dovuto essere l’architrave su cui ricostruire un progetto di centrosinistra in vista delle prossime elezioni. Insomma, abbandonata ogni vocazione maggioritaria il Partito decideva di tornare alle alleanze (sebbene ristrette). Eravamo a cavallo della caduta del Governo Berlusconi e molti a sinistra sognavano la “spallata” a Berlusconi, sognavano finalmente di poter sconfiggere politicamente il nemico di sempre e tornare al Governo con un centrosinistra unito.

Seconda occasione perduta: al momento di decidere se andare al voto anticipato o sostenere il Governo tecnico proposto da Napolitano il PD decise di sostenere il Governo Monti. Certo, si disse che all’epoca fosse necessario ma questa rimane forse una delle pagine più strane della storia del Partito Democratico: l’appoggio acritico a molti dei provvedimenti del Governo Monti portò ad un progressivo allontanamento delle masse popolari dal partito (e soprattutto delle masse di lavoratori) che lentamente iniziarono a migrare verso altri lidi. Allo stesso tempo, il lento logorio a cui era soggetto il PD non faceva che rafforzare Berlusconi che riuscì a far passare sé stesso prima come vittima di una congiura di Palazzo poi come Salvatore della Patria dalla macelleria sociale del Governo Monti.

Risultato? Alle elezioni in Partito Democratico crolla a pochi metri dal traguardo prendendo il 21% così come il PDL e soprattutto come il Movimento Cinque Stelle. A questo punto Bersani entra nel pallone: convinto di poter governare con i Cinque Stelle in una patetica (quanto inutile) diretta streaming viene preso in giro tutto il tempo da Beppe Grillo che non ha nessuna intenzione di andare a governare. Del resto il Movimento Cinque Stelle era al suo primo mandato elettorale, nessuno dei parlamentari entrati aveva un minimo di esperienza di un’aula parlamentare e piuttosto difficilmente Grillo sarebbe riuscito a controllare i suoi se si fossero alleati con il Partito Democratico.

Le elezioni del 2013 coincidono anche con la scadenza del mandato del Presidente della Repubblica eletto, Giorgio Napolitano e il Partito Democratico ha di nuovo il mandato per poter rinnovare il Paese.

Quando si doveva decidere il nome per il Presidente della Repubblica, il primo nome che venne fatto fu quello di Franco Marini, un nome che non era destinato a scaldare la platea e che infatti non passò (lo stesso Segretario del PD Matteo Renzi lo bocciò subito). Il secondo nome fu quello di Romano Prodi (Anche questo bocciato). Niente male, due delle figure più importanti del Partito Democratico bocciati in poco meno di una votazione.

Tutto mentre Bersani aveva in mano l’arma per stanare i Cinque Stelle ed allo stesso tempo dare quel segnale di innovazione politica che aveva promesso in campagna elettorale, bastava un nome: Stefano Rodotà. Ma quel nome non venne fatto e si decise di rieleggere Napolitano.

La terza occasione persa era stata poco prima di questo evento, un anno prima per la precisione. Il Partito Democratico aveva presentato due candidati alle primarie di primo livello: l’astro nascente del Partito Matteo Renzi e Pierluigi Bersani. Le idee di Renzi nelle primarie del 2012 erano innovative, si parlava di riforma del mercato del lavoro (non di Jobs Act, quello arriverà dopo), si parlava di scuola, si parlava di riformare la politica. Certo, la parola “rottamazione” non piaceva, ma era una rottura, un segnale importante per una politica immobile su posizioni antiche e vecchie.

Sappiamo come è finita l’esperienza di Renzi al Governo: il Jobs Act, la frantumazione del PD e la scissione, la mancanza di una classe dirigente all’altezza ha completato l’opera di distruzione del partito democratico iniziata probabilmente sin dalla sua nascita.

L’idea di costruire una forza liberal-democratica ormai è completamente fallita e nemmeno Matteo Renzi sembra essere in grado di rimettere in moto quel progetto, quel sogno.

Che fare allora? Dobbiamo rassegnarci a dover votare per altri anni per il meno peggio? Oppure dobbiamo impegnarci tutti per ricostruire il Paese partendo proprio dal ridare dignità alla politica?

Per rimettere in modo il Paese abbiamo bisogno di ridare vita ad un progetto politico che rimetta al centro il sogno italiano, quel sogno italiano degli anni del boom, quel sogno italiano che era nelle intenzioni di chi, nell’Ottocento sognava di ricostruire una nazione che per anni era stata calpestata e divisa.

Non abbiamo più tempo, non avremo altre occasioni per costruire qualcosa di nuovo in Italia, non avremo più tempo per ridare dignità ad un popolo che la sta sempre più perdendo.

La politica deve essere al servizio dei bisogni del cittadino, e non il cittadino al servizio della politica.

Possiamo uscire dalla crisi, questo articolo è un appello ai volenterosi, a tutti coloro che hanno voglia e visione per cambiare davvero le cose, cercherò di usare queste pagine per scrivere altre linee guida, altri progetti e altre idee. Anche se resterò da solo, anche se riuscirò a cambiare solo una sola persona, una sola visione, io continuerò a battermi, perché credo ancora nell’Italia e negli italiani.

Dio benedica l’Italia.

Leopolda 10, qualche considerazione

Matteo Renzi alla Leopolda

Domenica si è conclusa a Firenze la decima edizione della Leopolda, la kermesse politica che dieci anni fa ha lanciato un giovanissimo Matteo Renzi a diventare uno dei protagonisti politici (nel bene e nel male) degli ultimi anni.

A margine della manifestazione, spesso e volentieri definita “fucina di idee” si sono sempre mossi politici, personaggi noti e meno noti dello spettacolo, che hanno messo in campo la propria esperienza nella prospettiva di costruire qualcosa (questo sempre a quanto dicono gli organizzatori).

Innanzi tutto ci tengo a precisare una cosa: questo articolo non vuole essere polemico nei confronti di nessuno (alla manifestazioni ho potuto vedere le foto di diversi amici con cui ho condiviso un pezzo di strada) e le mie considerazioni sono da prendere come una pura analisi basata su un fattore politico ideologico, non personale.

Questa edizione della Leopolda è stata per molti versi diversa dalle altre, visto che ha sancito la nascita ufficiale di Italia Viva, il partito che Matteo Renzi aveva un testa da un po’ di tempo, almeno da quando alla fine del referendum del 4 dicembre il PD iniziò ad andargli un po’ troppo stretto.

Simbolo di Italia Viva

Con la nascita di Italia Viva possiamo affermare in maniera definitiva che Matteo Renzi ha abbandonato l’equivoco di fondo della sua segreteria nel Partito Democratico (e quindi della sua visione politica) dichiarando finalmente di non essere di sinistra (semmai ci fossero ancora dei dubbi).

Non voglio entrare nel merito della polemica con il Partito Democratico, ma vorrei limitarmi ad una serie di notazioni su quello che è emerso dalla visione politica di Italia Viva.

Innanzi tutto possiamo dire che il partito si richiama in maniera aperta ai valori espressi da Forza Italia e da Silvio Berlusconi (lo stesso Renzi ha ammesso che è sua intenzione andare a conquistare i voti dai delusi di Forza Italia – da cui nascono i vari ammiccamenti agli elettori di Berlusconi proprio in sede leopoldiana) e quindi un campo di valori che si allontana di molto da quelli che dovrebbero essere i valori della sinistra propriamente detti.

Già durante la sua esperienza di Governo molti dei provvedimenti portati a casa (per quanto giusti) nascono da una forma mentis più vicina a quella dei partiti conservatori anglosassoni che non (ad esempio) ad un partito laburista comunque legato ad un modello di società marxista. Al massimo possiamo dire che il modello di partito che ha in mente Matteo Renzi è un modello “all’americana” comunque lontano da quella che è una visione ed una prospettiva “di sinistra”.

Un modello di “partito liquido”, come lo voleva Veltroni, ed un modello di partito che nasce da quel “superamento delle ideologie” che ha fatto tanto male alle sinistre, soprattutto perché a loro si contrappone un modello di destra che tutto è tranne che “post ideologica” ma che anzi, proprio delle ideologie sembra essere sempre più intenzionata a costruire il suo consenso elettorale.

Staremo a vedere come costruirà il consenso e come si comporterà in vista delle prossime elezioni (quindi quali saranno le alleanze e con chi sarà intenzionato a dialogare) perché sulla base di questo sarà possibile capire i margini di dialogo che con una simile forza possono esistere.

La nascita del partito di Renzi potrebbe essere la prima vera opportunità per il Partito Democratico di “aprire” a sinistra (non solo ai Cinque Stelle ma anche a tutte quelle forze che dal 2008 ad oggi sono state lasciate fuori dal Parlamento con una serie di leggi elettorali volte a creare una sorta di oligarchia partitica), cercando di essere parte di un progetto che non guarda al centro ma inizia a rispondere (nuovamente) a quei cittadini che naturalmente formano il bacino elettorale della sinistra e del centrosinistra, ma su questo avremo ancora modo di tornare.

Riprendere la “Politica”

La scissione di Matteo Renzi che lo ha portato fuori dal Partito Democratico (e che ha fatto seguito a quella di qualche tempo fa di Carlo Calenda che anche lui ha lasciato il Partito Democratico) mi porta a fare qualche considerazione di carattere generale su quanto sta accadendo in Italia.

Per avere un quadro più o meno consapevole della situazione forse sarebbe il caso di partire dalla crisi di Governo di questa estate, quella in cui Matteo Salvini (Segretario della Lega ed al momento della caduta anche Ministro degli Interni) decide di staccare la spina a quel Governo formato da Movimento Cinque Stelle e Lega che ha retto poco meno di un anno.

La giustificazione che è stata addotta da Salvini per giustificare il fatto di aver fatto saltare il banco del Governo è stato “troppi no da parte del Movimento Cinque Stelle”, a questo punto Matteo Renzi apre uno spiraglio per trattare con i Cinque Stelle, formare un nuovo Governo con il Partito Democratico che fino al giorno prima diceva “mai con i Cinque Stelle” (per i quali peraltro il Partito Democratico era il Partito di Bibbiano) mentre Renzi twittava a tutto spiano #senzadime.

Dopo la formazione del Governo (avvenuta secondo molti grazie alla lungimiranza di Renzi) lo stesso Renzi decide (dopo aver incassato nel suo Governo ministri e sottosegretari) di andarsene dal PD portandosi via tutti per dare vita ad u partito che somiglia molto ad una operazione di palazzo che si chiamerà “Italia Viva”.

Non ci avete capito nulla?

Bene, perché è tutto perfettamente normale.

In un contesto politico in cui la politica è stata completamente privata di qualunque forma di ideologia è più che normale non capire che cosa sta succedendo perché tutto appare confuso, difficile da capire e da spiegare perché senza senso e perché correlato solo ad un continuo scambio di posti e di poltrone per mantenere il potere.

Sono appassionato di politica, lo sono da circa vent’anni e per un lungo periodo della mia vita sono stato anche militante (ed in qualche caso ho avuto anche incarichi di dirigenza all’interno di partiti) di diversi partiti, sempre alla costante ricerca di un posto dove poter portare avanti quelle che ritengo essere le mie battaglie per la costruzione di un “posto migliore”, non solo in Italia ma in Europa, nel mondo.

Sono state tante le persone che nel corso della mia azione politica mi hanno accompagnato (molte delle quali sono diventati amici) e molti altri sono quelli che si sono allontanati.

Eppure nella fase attuale, con tutta la passione che mi ha spinto, non vedo possibilità di crescita per il Paese ma solo la costante corsa al posto migliore a scapito di quelli che sono gli interessi del Paese. Non voglio entrare troppo nel dettaglio dei singoli partiti o movimenti ma fare una considerazione che potrebbe essere utile per ripartire: quella che stiamo vivendo non è politica, almeno io non la percepisco come tale.

Lo scopo della politica (e quindi di una classe dirigente) dovrebbe essere quella di perseguire il bene della collettività tutelando quelli che allo stesso tempo sono i diritti del singolo individuo costruendo quindi una società il più efficiente possibile e capace di rispondere alle esigenze dei singoli.

Prima ancora di avere un politico o della scelta di un leader dunque è necessario che la politica rimetta al centro di tutto l’individuo, inteso come essere umano in generale, dando avvio ad un nuovo Rinascimento che possa essere in grado di smuovere le coscienze collettive e lavorare davvero per quelli che sono gli interessi di tutta la nazione.

Idee, proposte, progetti, tutto quello che può essere alla base della crescita economica, sociale ed individuale, deve essere preso in considerazione da quella che dovrebbe essere la “nuova classe politica”, una classe capace di formare coalizioni non per “battere le destre” ma per “costruire nuovamente l’Italia”, ridare al Paese la propria coscienza smarrita, il proprio posto nel mondo.

Perché questo sia possibile è necessario “formare” le classi dirigenti, dando vita ad un progetto di ampio respiro che non guardi solo a destra o a sinistra ma sia capace di intercettare quelle che sono le necessità oggettive del Paese.

Rimettiamo dunque la politica al centro di tutto, fondiamo un nuovo Umanesimo e restituiamo alla politica quel ruolo nobile che le spetta.

Pensare ad un nuovo modo di “stare in campo” è la strada che abbiamo da percorrere per poter tornare a crescere e competere, compito della classe politica deve essere quello di guidare i processi della società in cambiamento senza tralasciare nessuno, senza lasciare nessuno indietro.

Torneremo ancora su questi aspetti (lo ho già fatto in altri post) perché ritengo sia fondamentale che la politica abbia la sua dignità per tornare a fare gli interessi del popolo, cercherò di elaborare tanto un processo ideologico quanto un programma sperando che qualcuno possa cogliere lo spunto alla costruzione di qualcosa di nuovo.

Laurea o formazione politica?

Come ogni formazione di un nuovo Governo riemerge la polemica solita sul fatto che ci sono molti ministri “non laureati”. Oltre al caso di Luigi di Maio – promosso agli Esteri – viene citato il caso di Teresa Bellanova, Ministro per l’Agricoltura non laureato e proprio per questo bersaglio delle critiche di una parte della dirigenza politica.

L’ennesimo episodio di “contestazione alla mancata laurea” mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti storici della questione del rapporto che intercorre o quantomeno deve intercorrere tra la laurea e la politica.

Per comprendere e per spiegare esattamente quello che vorrei dire però è necessario partire da una piccola parentesi storica: ovvero, il ruolo che nella “Prima Repubblica” (utilizzo questo termine per identificare il periodo che va dal 1945 al 1991 circa, segnato dalla presenza dei partiti definiti “di massa”) hanno avuto le scuole di formazione politica all’interno dei partiti.

Quando si parla di “scuole di partito” si tende a parlare di un fenomeno culturale ben preciso, che non veniva utilizzato solo per fare propaganda politica ma anche e soprattutto per fornire alle persone meno abbienti gli strumenti per poter essere cittadini indipendenti.

Nelle scuole di partito non veniva insegnata solo la dottrina politica ma spesso si insegnava anche a leggere e scrivere, visto il tasso di analfabeti piuttosto alto (soprattutto al Sud Italia) e visto che non tutti potevano permettersi di andare a scuola regolarmente o permettersi di studiare.

Le scuole di formazione, dunque, non avevano solo una funzione “ideologica” ma anche e soprattutto una funzione “sociale” molto forte.

Ma la “scuola di partito” non aveva solo questa funzione, ne aveva anche un’altra molto più pratica: formare i dirigenti del partito e gli amministratori che avrebbero dovuto amministrare la “Cosa Pubblica”, visto che non tutte le lauree sono adatte alla carriera politica (e del resto sarebbe anti costituzionale limitare la possibilità di lavoro solo ad alcune lauree) da qui la necessità che emergeva di affiancare alla carriera accademica quella più “pragmatica” della scuola di partito.

Inoltre molto spesso chi non era laureato nella Prima Repubblica non lo era perché era iscritto all’università ma era già impegnato nella vita di partito (come avvenne ad esempio a Bettino Craxi – primo Ministro degli Esteri a non essere laureato – oppure a Massimo d’Alema, anche lui prima Presidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nel Governo Prodi II).

Se ci soffermiamo sulla questione della “funzione sociale” della scuola di partito possiamo dire che questa era possibile in un sistema dove i partiti ed i politici avevano ancora a mente la loro funzione sociale prima che politica e quindi avevano interesse ad avere anche un elettorato consapevole che sapesse esattamente che cosa o perché votasse, anche se non si trattava solo di questo (l’aspetto dell’istruzione in Italia spero sarà uno dei prossimi argomenti da affrontare, poiché qui sarebbe un argomento troppo vasto e porterebbe a delle conclusioni completamente sballate rispetto al tema principale).

La questione del rapporto tra laurea e politica è emersa quando la crisi del mondo del lavoro ha creato una condizione per cui ci siamo trovati con una massa di laureati iper specializzati che però non riuscivano a trovare prospettive di lavoro.

Se a questo uniamo la funzione “puramente utilitaristica” assunta dalla politica sin dall’avvento di Berlusconi nel 1994 (politica che quindi ha completamente abbandonato la sua funzione sociale) è facile comprendere come e perché si sia venuta a creare una simile discrasia di idee: la laurea viene visto come sinonimo di preparazione sufficiente per fare politica, come se la politica fosse un posto di lavoro come un altro e non un incarico conferito ai cittadini dallo Stato.

Qui subentra però un altro ordine di problema: quale laurea bisogna prendere per poter fare politica?

A rigor di logica le lauree che sono più vicine a fornire gli strumenti per poter governare un Paese con cognizione sono le lauree di scienze dell’amministrazione (Economia, Scienze Politiche e Giurisprudenza) e quelle più strettamente tecniche per quello che riguarda gli altri incarichi, per cui: Ingegneria, Medicina e via dicendo a seconda dei Ministeri che si devono coprire.

Questa scelta tuttavia rischierebbe di escludere – ad esempio i laureati in Materie Umanistiche (che potrebbero occupare solo la casella del Ministero dei Beni Culturali ad esempio) – perché per assurdo non utili all’aspetto pratico della Pubblica Amministrazione.

Dovremmo pensare ad un corso di laurea in Pubblica Amministrazione per chi vuole occuparsi di politica?

Oppure è sufficiente che i singoli partiti rimettano al centro della propria azione politica anche e soprattutto la formazione delle classi dirigenti e degli amministratori?

La questione rimane aperta e sarebbe un buon modo per “restituire” alla politica il proprio ruolo istituzionale, ripensando alla possibilità di tornare ad un cursus honorum prima di intraprendere la carriera parlamentare.

Un lavoro che si potrebbe anche presentare difficile ma che può essere una strada possibile per restituire – appunto – alla politica la propria dignità.

Qualche consiglio per fare “davvero” un Governo del cambiamento

La storia di quest’estate è storia recente: la crisi voluta da Salvini, l’accordo tra Partito Democratico e Cinque Stelle e la possibilità di formare un nuovo Governo senza andare al voto anticipato.

Tralasciamo tutti i commenti che riguardano le modalità con cui si è formato il Governo (anche perché la Costituzione è stata applicata più o meno alla lettera, per quanto possa non piacere) e soffermiamoci un attimo su quello che questo Governo deve (o dovrebbe) fare.

Innanzi tutto ci sono le questioni economiche che riguardano l’approvazione della legge in bilancio: evitare che venga aumentata l’IVA (riducendo ancora di più in questo modo i consumi già bassi degli italiani) è la prima cosa.

La seconda è quella di rivedere il reddito di cittadinanza: come misura economica di “contrasto alla povertà” potrebbe anche essere sufficiente (e dico potrebbe visti i problemi che si sono verificati nel reperire tutti i fondi necessari e la complessità delle richieste per ottenerlo) ma non basta. Per fare in modo che l’Italia esca davvero dalla crisi e possa dire di riprendersi tanto al livello economico quanto al livello salariale bisogna intervenire innanzi tutto sul mercato del lavoro.

Andando per punti cerchiamo di capire come potrebbe intervenire il Governo per essere davvero governo del cambiamento, partendo proprio dal mercato del lavoro.

LAVORO

Il mercato del lavoro in questi ultimi anni in Italia è sempre rimasto più o meno fermo.

Nonostante un consistente calo della disoccupazione (che si attesta nel mese di luglio al 9,9% secondo i dati Istat) le condizioni di vita medie tendono a migliorare.

Questo perché i salari sono ancora bassi non solo rispetto al resto d’Europa ma anche rispetto al costo della vita medio in Italia.

Ragionando per numeri, possiamo ipotizzare che il salario medio (tranne qualche eccezione) vari dai 700 ai 1200 euro (ipotizzando il secondo come stipendio massimo). Ragionando sempre per numeri: un affitto in media sta tra i 500 ed i 700 euro mensili (l’acquisto di una casa non lo prendiamo in considerazione dato che si tratta di una condizione ancora più complessa e che alla nostra analisi aggiungerebbe altre variabili), quindi ipotizzare una vita autonoma con salari così bassi diventa una vera e propria impresa.

Inoltre, un compenso adeguato potrebbe essere anche un buon incentivo per lavorare meglio per un lavoratore e di conseguenza un salario più alto consentirebbe di aumentare la produttività.

Ovviamente per aumentare i salari (e di conseguenza andare incontro ai lavoratori) è necessario intervenire anche a favore di chi il lavoro lo dà (quindi gli imprenditori) abbassando i costi proprio sul lavoro, consentendo quindi di investire sul salario, un modo per farlo potrebbe essere una riduzione delle tasse (non sono un economista per cui non mi azzardo in ipotesi improbabili su come fare, le mie restano delle idee) in modo che i soldi possano essere reinvestiti sulla qualità di vita del lavoratore.

Il Governo dovrebbe quindi farsi garante di un dialogo tra le imprese e sindacati nel tentativo di migliorare le condizioni del lavoratore a partire proprio dall’aumento del salario minimo.

Un altro aspetto da tenere in conto nel mercato del lavoro è cercare di contrastare con ogni mezzo possibile il lavoro nero, vera piaga che impedisce la crescita economica del Paese (aspetto che peraltro è strettamente correlato all’immigrazione che affronteremo più avanti) e aumentare i diritti del lavoratore che ormai sembra avere solo obblighi nei confronti del proprio datore di lavoro e nessun diritto.

IMMIGRAZIONE

Uno dei temi più spinosi degli ultimi anni in Italia.

Nel corso degli anni ho cercato di affrontare il fenomeno (anche su questo blog) cercando da un lato di essere il più obiettivo possibile e dall’altro cercando di ipotizzare scenari di una soluzione possibile per un fenomeno che non può essere controllato né tanto meno fermato.

Prima di ipotizzare una soluzione vorrei però fare una breve introduzione su quella che credo sia l’immigrazione: se prendiamo l’immigrazione non come fenomeno sociale ma come fenomeno “naturale” possiamo dire che l’essere umano è per natura un essere soggetto alle migrazioni come qualunque altro animale.

Detto questo, in un sistema di società complesso come quello attuale le migrazioni non avvengono solo per motivi “naturali” (come avveniva in precedenza) ma soprattutto per motivi politici, nella maggior parte dei casi legati alla condizione economica o sociale di quelli che emigrano. Le migrazioni possono quindi essere di vario genere: dovute ai cambiamenti climatici, alle condizioni di impossibilità a professare la propria religione, la propria cultura o il proprio orientamento sessuale, tutti elementi che sono in palese violazione al concetto di “società aperta” su cui si basa invece buona parte del pensiero occidentale.

Regolamentare i flussi migratori non vuol dire affondare i barconi o impedire alle navi delle ONG di attraccare nei nostri porti ma significa cercare una soluzione (nel nostro caso condivisa da tutta Europa) perché l’immigrazione venga percepita come una risorsa e non come una sorta di “male necessario”.

Perché questo si realizzi è necessario lavorare su almeno due fronti, uno “politico” ed uno “culturale”: quello “politico” deve trovare la strada per consentire che i flussi vengano gestiti non da un solo Paese ma da tutti i Paesi appartenenti all’Unione Europea non in base ad una ripartizione fatta a tavolino ma sulla base della necessità delle persone, mettendo al centro quindi l’individuo non le questioni politiche. Il secondo aspetto si collega con un altro punto che dovrebbe essere approfondito, ovvero la costruzione di un’identità europea.

Perché questo aspetto si possa realizzare però è necessario innanzi tutto che l’Europa prenda consapevolezza non solo del proprio ruolo economico ma anche e soprattutto del proprio ruolo “sociale” della formazione dell’individuo.

Dire “siamo europei” non può essere solo una parola priva di significato, deve essere uno stimolo per elaborare e costruire un processo di identificazione sempre più univoco in quelli che sono i valori europei in cui tutti i cittadini si riconoscono (anche qui, per affrontare il discorso servirebbe molto più spazio e conto di poterlo fare quanto prima) quindi tornando al ruolo del Governo nella gestione dei flussi migratori: almeno per quelli che sono intenzioni a restare in Italia (e sono pochi) sarebbe necessario pensare ancora prima che ad un alloggio e ad un lavoro ad un periodo di formazione sui principi e sui valori della Repubblica italiana a cui si devono adeguare prima di diventare cittadini italiani. Ovviamente questo aspetto deve essere accompagnato dalla possibilità di avere un lavoro stabile e retribuito che consenta uno stile di vita dignitoso (come prescritto dalla Costituzione) ma questo dovrebbe già essere stato risolto dal “salario minimo” quindi non ci sono problemi.

AMBIENTE

Un altro aspetto che ritengo debba essere al centro dell’azione di un Governo del cambiamento (se davvero vuole essere tale) è quello che riguarda la “questione ambientale”.

Ormai è sempre più evidente che la Terra non sia più in grado di tollerare il grado di sfruttamento a cui la stiamo sottoponendo: il continuo aumento della vendita di automobili (solo in Italia se ne posseggono almeno due a famiglia), la continua produzione di plastica ed altri materiali inquinanti e la completa mancanza di una strategia “ambientale” sta letteralmente mettendo in ginocchio sia l’Italia che il resto del mondo.

Stiamo distruggendo la Terra e non ce ne stiamo rendendo conto. Vivere in equilibrio con quello che ci circonda sarebbe la vera rivoluzione da compiere. Una rivoluzione ambientale dunque, che sarebbe da portare avanti con una lungimirante strategia di investimento delle energie rinnovabili. L’Italia potrebbe in questo essere un polo di avanguardia se solo ci fosse la volontà di farlo e soprattutto se solo l’Italia decidesse di investire risorse nella ricerca appunto delle rinnovabili.

Investire nell’eolico, nel idroelettrico o nel riciclo consapevole (e quindi attraverso una raccolta differenziata che diventi parte integrante della vita delle città) l’Italia potrebbe davvero essere un polo di attrattiva anche (perché no?) per l’investimento di capitali dall’estero che siano interessati al benessere dell’Italia e non solo a sfruttarne terreno, persone e risorse.

RICERCA

L’ultimo punto che mi preme sottolineare è la ricerca: un Governo del cambiamento dovrebbe pensare seriamente a come reperire fondi per aumentare la ricerca, sia scientifica che umanistica.

Pensare dunque ad una riforma dell’intero sistema universitario (e scolastico), una riforma però che migliori la qualità della didattica e della ricerca anche attraverso la possibilità delle scuole (e delle università) di poter avere fondi da privati in grado di finanziare progetti di ricerca.

In questo modo l’università resterebbe pubblica (con un Stato a fare da garante impedendo che i privati possano aumentare le tasse impedendo di fatto il libero accesso a tutti) ma allo stesso tempo avrebbe modo di avere una disponibilità di fondi da parte dei privati per finanziare progetti di ricerca.

Sulla ricerca vorrei soffermarmi ancora – e sicuramente lo faremo più avanti – per ora credo che come “auspici” per il Governo del cambiamento questi possano bastare.

Ovviamente sono tutti punti che devono essere approfonditi e sviluppati meglio, le mie sono abbozzi di idee di un povero “scemo del villaggio” (per citare il titolo di una canzone dei Ratti della Sabina) ma la speranza che qualcosa si possa realizzare resta, perché l’Italia merita di crescere con Governi capaci, consapevoli interessati non solo alla poltrona ma anche e soprattutto a quello che è il bene dei cittadini.

Il ritorno alla “Forma Partito” per superare la “personalizzazione della politica”

Nell’ultimo Ventennio abbiamo assistito in maniera più o meno omogenea da parte di tutti i partiti che compongono l’arco costituzionale del Parlamento italiano ad un fenomeno che è stato definito dalla politologia “personalizzazione della politica”.

Un fenomeno che potremmo far risalire al 1994, quando Berlusconi diede vita al primo partito personale della storia d’Italia: Forza Italia. Finita l’era delle grandi ideologia la forma del “partito personale” divenne quasi una necessità per superare la ideologie e le differenze tra i partiti che, finita l’era delle ideologie, avevano necessità di spingere l’elettorato a votare su basi completamente diverse: quello appunto del “leader carismatico” e la “personalizzazione della politica”.

Alla base del voto non vi era più la strategia del partito bensì la figura del Leader carismatico, la guida del popolo che assumeva pieno controllo della campagna elettorale incentrando sempre più il dibattito politico sulla sua figura e non più sui programmi e sul voto ideologico.

Da Berlusconi a Renzi esiste una continuità non programmatica ma ideologica sulla struttura della forma partito, sebbene tra i due vi siano delle sostanziali differenze legate soprattutto alla tradizione dei partiti di cui sono espressione.

Da una parte abbiamo Silvio Berlusconi, incarnazione della logica del partito personale, che potremmo anche definire “partito azienda”, dove il leader non solo esprime la linea di partito ma si circonda anche di personaggi a lui fedeli ed affini per portare avanti una linea di Governo più o meno coerente su quanto proposto su un programma elettorale nato non dalla mediazione delle posizioni ma dalla volontà del leader. Il programma elettorale insomma diventa non più frutto di mediazione tra le varie componenenti di un partito ma espressione del leader che lo sottopone poi alla visione della Segreteria ma solo per “presa visione” se mi passate il termine.

Leggermente diversa la condizione del Partito Democratico e di Matteo Renzi, il quale comunque è stato eletto da una comunità di iscritti alla Segreteria del partito e come tale è più che legittimato a governare e dettare la linea al partito.

Le contestazioni che gli vengono mosse di una eccessiva personalizzazione lasciano il tempo che trovano perché prima di lui anche Bersani aveva creato un partito che potremmo definire ad personam dove i suoi uomini occupavano i posti chiave negli incarichi di partito e così era stato anche con Veltroni (differenti i casi di Franceschini ed Epifani , segretari pro tempore in attesa del Congresso che avrebbe nominato il nuovo Segretario).

Il procedimento che ha portato alla personalizzazione della politica si può facilmente spiegare come il tentativo di superare la fine delle ideologie a partire dal 1992, un fenomeno che potremmo definire deideologizzazione dei percorsi della politica.

Il referendum del 4 dicembre, con la sconfitta della proposta di Riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi di fatto ha riportato indietro la politica italiana riproponendo un modello di democrazia incentrata sui partiti e non più sulla persona.

Alla luce di questo risultato è necessario prendere atto di questo cambio di passo e riformulare un modello che rimetta al centro dell’azione politica non più la figura del leader ma la forma partito , dove il partito assuma una struttura composta da quadri e dirigenti formati ed in grado di portare avanti non le proposte del leader ma quelle del partito che ritorna al centro dell’azione politica.

Perchè questo sia possibile è necessario ricostruire quel tessuto di formazione politica che per anni era stato al centro delle strutture dei partiti della Prima Repubblica.

Pensare ad un partito non più liquido, come era stato concepito dal 1994 in poi da Berlusconi, ma un partito solido formato da militanti che si sono formati sul territorio e che sono in grado di rispondere a quelle che sono le istanze di una politica e di un elettorato che sempre più ha bisogno di risposte immediate alle sue richieste ed ai suoi bisogni.

Perché questo avvenga è necessario ripensare ai metodi di gestione della politica, rimettere al centro competenze, formazione e azione politica.

Torneremo ancora a parlare di proposte sulla formazione partito e sulla struttura delle scuole di formazione di cui a mio avviso dovrebbero dotarsi i partiti, per ora prendiamo atto che il sistema maggioritario non funziona più e quindi bisogna rimettere al centro dell’azione politica i partiti e non più le persone.