La caduta del Governo Draghi ha aperto la strada alle prime elezioni della storia repubblicana che si svolgeranno in autunno.
Viste le urgenze che avremmo dovuto affrontare le elezioni sono una vera e propria iattura per la tenuta economica e sociale del Paese, soprattutto perché esiste il rischio (a mio avviso molto concreto) che risulterà particolarmente complicato formare una maggioranza di Governo in grado di dare al Paese quella stabilità di cui avrebbe bisogno per poter tornare ad avere un ruolo da protagonista nel mondo occidentale. Non possiamo sapere con anticipo come andranno le prossime elezioni (non pretendiamo di avere la palla di vetro), possiamo limitare la nostra analisi sul risultato elettorale all’ipotesi che vincerà il centrodestra.
Detto questo però dai primi giorni di campagna elettorale possiamo già trarre alcune conclusioni, una su tutte: il centrodestra appare essere molto più compatto del centrosinistra. Alla coalizione Salvini-Berlusconi-Meloni è bastato un incontro per decidere la modalità con cui la coalizione sceglierà il prossimo leader. Si tratta di un’idea piuttosto semplice, che potremmo definire banale: sarà il partito della coalizione che prende più voti ad indicare quale leader di partito dovrà provare a formare un Governo.
Un modo questo per evitare guerre fratricide per decidere chi dovrebbe guidare la coalizione prima del voto.
In un sistema che progressivamente sta tornando al modello parlamentare della Prima Repubblica, dove a farla da padrone erano i partiti (anche se in questa fase politica i partiti appaiono particolarmente deboli con qualche rara eccezione) la scelta di indicare il nome del Presidente del Consiglio sulla base dei voti ai partiti appare la sola scelta logica, una scelta che avrebbe dovuto fare anche il centrosinistra.
Invece, il fronte progressista non solo non è stato in grado di trovare ancora un accordo sulla composizione delle prossime liste, ma non è stato ancora nemmeno capace di costruire una sorta di patto di Governo sulla base di un progetto comune per governare il Paese: ci si limita ed evocare l’Agenda Draghi sperando che questi possa tornare in campo dopo le elezioni. Un po’ lo stesso errore commesso da Pierluigi Bersani nel 2013 quando l’intera campagna elettorale del Partito Democratico venne incentrata sulla prosecuzione dell’agenda Monti, il quale nel frattempo era entrato in politica e non aveva nessuna intenzione di allearsi con il Partito Democratico.
Ora, questa situazione rischia di ripetersi, con l’aggravante che il centrosinistra non ha nemmeno stabilito un perimetro ben definito che stabilisce chi sono gli alleati di Governo e soprattutto perché bisogna essere alleati.
Non basta unirsi per sconfiggere la Meloni, serve un’idea seria su come bisogna ricostruire il Paese, su come vadano distribuiti i fondi del PNRR e di come si debba far fronte al crescente malessere sociale di diverse frange di popolazione.
L’ipotesi di un fronte progressista che unisca Partito Democratico – Azione e Articolo Uno sarebbe un progetto di governo che avrebbe un senso logico, ma per essere attuato ha bisogno che tutti i leader dei partiti coinvolti mettano da parte velleità di supremazia e divisioni personali e si uniscano per far fronte alle emergenze del Paese.
Spiace per Bersani (che ancora sogna di imbarcare Conte) ma un progetto simile non può assolutamente imbarcare il Movimento Cinque Stelle, non tanto per una questione di vendetta per aver fatto cadere il Governo Draghi, dimostrando di essere ancora troppo spesso degli alieni nella politica italiana.
Nella gestione della crisi Conte ha dimostrato di non essere ancora particolarmente avvezzo ai meccanismi della politica.
La crisi di Governo da lui innescata per una questione di principio gli è sostanzialmente scoppiata in mano, isolandolo completamente dalla scena politica italiana ed alienandogli la possibilità di essere l’eventuale ala sinistra di una possibile alleanza di Governo con il Partito Democratico.
Conte sembra non aver capito la gravità della situazione e non solo: il Movimento Cinque Stelle sta attraversando una fase piuttosto delicata della sua storia politica.
Il dibattito sul vincolo dei due mandati sembra non aver fine e sebbene Conte spinga per una deroga Beppe Grillo sembra non avere nessuna intenzione di cedere su quello che è uno dei punti fondamentali dello Statuto del Movimento.
Nessuno sembra considerare che proprio il vincolo è stato uno dei motivi fondamentali a spingere alcuni esponenti di spicco del Movimento ad abbandonare il Movimento stesso .
Questo li rende inaffidabili per una eventuale alleanza di Governo che deve progettare un piano politico della durata di una intera legislatura.
Discorso diverso, ma per molti versi simili deve essere fatto per Italia Viva.
Il partito di Matteo Renzi, a differenza dei Cinque Stelle sa bene come muoversi nelle stanze del potere, ma questo lo rende ancora più pericoloso per la stabilità di un eventuale Governo.
Inoltre, i punti di contatto tra Italia Viva ed una eventuale coalizione di sinistra e progressista, intenzionata a lavorare ad un progetto socialdemocratico, sono quasi nulli.
Italia Viva – per come si è mossa negli ultimi anni -. spesso è stata molto più vicina al centrodestra che non al centrosinistra.
Possiamo considerare questi due partiti le “ali estreme di una eventuale coalizione di centrosinistra” e questo basterebbe ad escluderla da un progetto unitario come quello che avrebbe in mente il segretario del Partito Democratico Enrico Letta.
Una coalizione troppo larga sarebbe rischiosa perché sarebbe unita solo della logica dello stare uniti “contro i sovranisti” (qualunque cosa questo voglia dire).
Se il centrosinistra vuole competere alle elezioni è invece fondamentale costruire un progetto di Governo che metta al centro della propria azione politica diritti e lotta alla povertà.
Due anni di pandemia hanno fiaccato il Paese, hanno aumentato la povertà ed hanno aumentato il tasso di disoccupazione a livelli molto più alti rispetto a due anni fa.
Bisogna puntare su un nuovo patto con i cittadini che impedisca la vittoria della Destra non perché populista ma perché le sue proposte puntano a smembrare quel poco di stato sociale che abbiamo ancora in piedi in Italia.
Nel caso si dovesse perdere, inoltre, non bisogna fare il solito psicodramma cercando un capro espiatorio per la sconfitta ma bisogna rimboccarsi le maniche coerentemente con la propria storia e fare un’opposizione credibile, ideologica e coerente con le proprie idee di società.