Recuperare il messaggio di Marx (ed essere attuali)

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Sono anni che la sinistra si scervella su come si possa “superare Marx”, su come si possa conciliare una qualche ideologia di sinistra con un capitalismo sempre più turbo e sempre meno vicino ai bisogni delle persone.

Sembra quasi che il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica abbia dimostrato non solo il fallimento dell’esperimento sovietico, ma abbia dimostrato che l’intero impianto marxista fosse destinato al fallimento.

La fine del sogno sovietico e la conseguente impossibilità di “superamento della fase capitalista della storia” ha portato la sinistra in tutta Europa ad abbandonare le idee marxiste per andare ad abbracciare una dottrina liberista nella speranza di dare vita ad un “liberismo dal volto umano”.

Inutile dire come questo esperimento si sia nel corso del tempo dimostrato essere un fallimento su tutta la linea: il sistema liberista – impostato interamente su una visione individualista della società – ha di fatto portato alla nascita di storture sempre più evidenti nella società ed ad un sostanziale aumento delle differenze di classe, dove classi più ricche sono diventate sempre più ricche mentre quelle che un tempo erano le classi povere sono diventate più povere. Non solo, la crescita esponenziale dei costi della vita ha fatto sì che quella che un tempo era considerata “classe media” venisse con il passare del tempo assimilata ai “poveri” aumentando di fatto il conflitto di classe invece che risolverlo.

Sebbene oggi posso comprendere sia oggettivamente difficile parlare di “padroni” e di “proletariato” bisogna ammettere che quello che Marx alla fine dell’Ottocento definiva “lotta di classe” è tutt’altro che risolto, anzi per molti versi è stato esteso a quelle classi sociali che un tempo erano definite intellighenzia ed avevano il compito di produrre il sapere di una società.

Oggi stiamo assistendo ad una precarizzazione del mondo del lavoro sempre più evidente, un percorso iniziato nel lontano 2001, quando si iniziò a parlare anche in Italia di “flessibilità nel mondo del lavoro”. Flessibilità che è stata in breve trasformata in “precariato”. Inoltre abbiamo visto un aumento sostanziale di quello che possiamo definire “conflitto di classe” o “conflitti di classe”, dove per conflitti dobbiamo intendere tutte le forme di discriminazione e sfruttamento portate avanti da una società capitalista come quella attuale.

Le differenze di razza, colore, orientamento sessuale e spesso religione sono sempre più spesso alimentate da un sistema che crea povertà e creando povertà aumenta anche il conflitto sociale dando vita ad una vera e propria guerra tra poveri con la complicità delle classi dirigenti che quella guerra tra poveri cercano di alimentarla soffiando sul fuoco delle differenze.

Le lotte da portare avanti sono tante, molte diverse tra loro, ma hanno tutte necessariamente lo stesso obiettivo: superare un sistema perverso dove il 99% della popolazione resta soggetto alle decisioni del 1%. 

Perché questo sistema possa essere superato è necessario recuperare il messaggio lanciato da Marx nel 1848, quando parlava della costruzione di una società fondata sulla giustizia sociale e sulla completa assenza delle differenze di classe.

Per quanto ci sia stata la volontà di far passare il messaggio marxista come “antico” e superato dalla società attuale in realtà possiamo affermare che mai come oggi la lezioni (anzi “le lezioni”) di Marx in materia economica, monetaria e finanziaria si sono rivelate tanto esatte.

Recuperare Marx non significa – come molti credono – riportare indietro le lancette dell’orologio dicendo cose impossibili da attuare o “antiche” come dicono molti, facendo leva su un anticapitalismo che ripropone modelli di società superati dall’evoluzione della società umana e storica, tutt’altro.

L’ideologia marxista propone un modello di società basato sull’uguaglianza sostanziale a partire dalle condizioni lavorative, stabilite quelle tutte le altre differenze (derivanti dalla razza, dalla religione, dall’orientamento sessuale) sono destinate a sparire perché le condizioni lavorative sono identiche per tutti ed annullano quelle che sono le differenze di classe. Questo passaggio ovviamente nel pensiero marxista rimane una pura teoria, per essere tradotto in prassi è necessario che tutte le comunità in lotta per i loro diritti si uniscano per “superare la fase capitalista della società” e proprio in questa fase allora che il marxismo torna ad essere attuale. 

Perché questo sia possibile però è necessario tornare alla domanda che si poneva Lenin all’alba della Rivoluzione d’Ottobre, quando chiedeva (con il titolo della sua stessa opera) Che Fare? , ovvero: come fare in modo che quelle che sono le richieste e le prospettive del marxismo possono essere applicate ad una società in trasformazione come quella capitalista attuale? La domanda, che veniva posta nel 1917 rimane in parte ancora senza risposta non solo perché quel percorso elaborato da Lenin non si è mai realizzato ma anche perché in parte quel progetto rimasto abortito rimane – pur con tutte le sue criticità – un progetto ancora valido per pensare ad un superamento del capitalismo o almeno ad un suo miglioramento, per andare nella direzione di una società senza classi (avremo modo nel corso dei prossimi giorni di analizzare anche il pensiero di Lenin, per ora fermiamoci a Marx ed alle sue teorie).

Per questo ho deciso di cercare di ospitare su queste pagine (con il tempo dovuto per preparare delle sintesi adeguate ed accessibili a tutti) una serie di articoli sul marxismo, cercando insieme di spiegare quali sono le implicazioni del recupero del pensiero marxista oggi e quali possono essere le cose che andrebbero migliorate o quantomeno aggiornate al sistema attuale.

Per questa seconda parte parleremo anche di quei pensatori che dopo Marx hanno cercato di applicare le sue teorie ai mutamenti della società in cui vivevano – da Rosa Luxemburg a Herbert Marcuse – cercando di capire come il pensiero marxista sia evoluto nel corso degli anni e come pensiamo possa evolvere ancora.

 

I numeri arabi, cosa sono e come sono arrivati a noi

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In questi giorni sui social è possibile che abbiate visto un post con la seguente scritta: ” vogliono introdurre i numeri arabi nelle scuole, voi siete d’accordo?” e ci sono commenti ironici su quanto le persone siano ignoranti, ma la domanda è: sappiamo davvero da dove vengono i numeri arabi? Quelli che chiamiamo numeri arabi sono davvero arabi? Perché si decise che era meglio di quelli romani?

Seguiamo le tracce dei numeri arabi…

Quelli che vengono chiamati comunemente numeri arabi sono i numeri che usiamo nella vita di tutti i giorni: 0, 1,2,4,5,6,7,8,9 e sono dette per l’appunto “cifre arabe”, anche se quello su cui noi oggi basiamo i nostri calcoli è un sistema detto “metrico decimale” che è un miglioramento dei numeri arabi.

nota l evoluzione del 2 da || e del 3 da |||

Le cifre arabe comunque non sono giunte a noi nel modo in cui le scriviamo, ma sono un’evoluzione dei numeri brahmi indiani , i quali dopo innumerevoli trascrizioni per mano di popoli diversi sono arrivati ad essere scritti da noi nel modo in cui li conosciamo.

Ma andiamo con ordine: partiamo dalla storia dei numeri arabi.

Abbiamo visto che né i numeri arabi né il relativo sistema di calcolo che li accompagna è stato inventato dagli arabi, bensì si tratta di un’invenzione indiana che si sviluppa tra il 400 a.C ed il 500 d.C.

Sono chiamati arabi perché la loro diffusione avvenne proprio grazie ad alcuni astronomi arabi. 

Tutto ebbe inizio intorno al 650 a.C: un vescovo siriano accenna in un proprio manoscritto ad alcuni simboli con cui il popolo indiano riesce a scrivere ogni numero e fare di conto molto più velocemente di quanto non succeda con i numeri romani.

Durante il califfato di Al-Mamun, nel 772 d.C giunse nella città di Bagdad una delegazione di matematici indiani che portò al Califfo un’opera dove veniva spiegato per filo e per segno come attraverso dieci segni potesse essere possibile scrivere qualsiasi numero e svolgere facilmente i calcoli (l’opera in questione è il Siddantha).

A tale opera attinse l’astronomo arabo Al Khwarizmi, responsabile della biblioteca del Califfo ed autore di numerose opere di astronomia, aritmetica ed algebra.

 

Sessualità a Roma antica, qualche curiosità

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Perché iniziare questo viaggio nella storia parlando di un argomento come la sessualità nell’Antica Roma?

Avremmo potuto iniziare parlando di qualche personaggio storico (come Cesare o chiunque altro) invece abbiamo deciso di dedicarci ad un argomento particolarmente scomodo come la sessualità.

Innanzi tutto per affrontare un simile argomento dobbiamo innanzi tutto “ripulire” la nostra mente da ogni idea di sessualità che abbiamo oggi, sia essa aperta o chiusa.

Sì, perché i romani (così come per i Greci del resto) i confini di omosessualità eterosessualità erano molto meno netti di quello che possiamo pensare noi oggi.

Basti pensare che la lingua latina non ha una traduzione equivalente per definire l’omosessualità né l’eterosessualità come natura sessuale dell’individuo. Non esisterebbe dunque nessuna distinzione tra gay ed etero.

La sessualità era determinata principalmente da quelli che potremmo definire “manierismi comportamentali”, sia maschili che passivi, in ruoli sia maschili che femminili.

La società romana era una società patriarcale e come tale il maschio era considerato “autorità primaria” enfatizzata dal concetto di mascolinità attiva come premessa di potere e status.

Gli uomini erano liberi di avere rapporti sessuali con altri uomini, ma anche in questo caso bisogna fare particolare attenzione a quello che si dice.

Esisteva un ferreo regolamento che regolamentava i rapporti sessuali tra uomini ed era scritto in quella legge conosciuta con il nome di Lex Scantinia.

Questa legge – secondo gli storici – è stata creata per penalizzare qualsiasi cittadino maschio di alto rango che ha assunto volontariamente un ruolo passivo nel comportamento sessuale.

In campo militare l’omosessualità era considerata una grave violazione alla disciplina militare (come ad esempio riporta lo storico greco Polibio raccontando come l’omosessualità potesse essere punita con il fustuarium – bastonatura a morte).

Contrariamente a quanto si possa pensare (e sono in molti a pensarlo) lo stupro era una pratica condannata dalla legge romana, così come era fortemente condannato lo stupro di minori. Per prevenire tale rischio i ragazzi indossavano un indumento detto toga praetexta, un marchio di stato “inviolabile” ed una bolla per allontanare gli sguardi degli uomini.

Una menzione a parte va fatta per i matrimoni omosessuali, sebbene durante i primi anni imperiali pare fosse una pratica comune.

Marco Valerio Marziale sostiene che il matrimonio tra uomini “è qualcosa che accade di rado, anche se non lo disapprovano”.

Agli inizi del III secolo ad esempio a contrarre matrimonio con un uomo fu l’imperatore Elagabalo (Marco Aurelio Antonino Augusto 218-222 D.C) a contrarre matrimonio con un atleta di nome Zoticus.

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Con il modificarsi dell’identità religiosa dell’impero sono iniziate a cambiare anche le abitudini sessuali dei romani. Gli de pagani politeisti, come Giove o Marte, vennero progressivamente sostituiti dalla religione monoteistica del cristianesimo e la sua influenza si diffuse in tutto il mondo classico.

Entro il quarto secolo dC iniziarono i primi divieti legali contro la pratica del matrimonio omosessuale veniva criminalizzata come parte del Codice Teodosiano. Nell’anno 290 gli imperatori cristiani, Valentiniano II, Teodosio I ed Arcadio dichiararono l’omosessualità illegale in tutto l’Impero e venne istituita la condanna al rogo.

Sotto l’imperatore Giustiniano I fu decretato che qualsiasi forma di comportamento omosessuale fosse contraria alla natura e bandita attraverso l’Impero d’Oriente.

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Quanto scritto in questo articolo non vuole entrare nel dibattito (ancora oggi presente sui giornali e e nelle parole dei ministri) sull’omosessualità e sui matrimoni, ma prendere semplicemente atto di come siano mutate le condizioni antropologiche del rapporto con l’omosessualità con il cambiare anche le abitudini “antropologiche” dei romani.

Le mutate condizioni religiose hanno portato necessariamente ad un cambio di paradigma anche della morale e del modo di pensare della società.

Quello che oggi viene percepito come “problema” nella Roma antica era una pratica normalmente accettata anche se abbiamo visto a determinate condizioni.

 

Curiosità storiche

Lo so, su queste pagine principalmente si è parlato di politica, di economia e di attualità e decidere di punto in bianco di parlare di storia potrebbe “spiazzare”.

Ma prima di essere una persona che si interessa di politica (e nei limiti delle sue possibilità prova anche ad occuparsene) sono uno storico ed un insegnante di latino ed allo stesso tempo sono un appassionato di archeologia quindi ho pensato “perché non usare queste pagine per raccontare ogni tanto qualche cosa che riguarda il mio campo di lavoro?” così eccoci qui.

Doverosa una premessa: nel corso di queste lezioni di storia potrei decidere di affrontare diversi argomenti, dalla fine dei Templari al Fascismo passando per la storia dell’Impero Romano cercando sempre e comunque di mantenere un distacco che potremmo definire storico nel raccontare gli eventi, lasciando a voi lettori di trarre le vostre conclusioni. Dunque iniziamo… seguite ancora questo blog e seguite il tag #curiositàstoriche e #storia potreste entrare in mondo affascinante e scoprire cose che sino a ieri ignoravate… pronti?

Articolo Due della Costituzione, uno degli articoli fondamentali e meno conosciuti

Dopo l’articolo 1 della Costituzione passiamo ad analizzare nel dettaglio il secondo articolo, cosa dice l’articolo 2 della Costituzione?

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”

Cosa ci dice dunque l’articolo due della Costituzione?

Possiamo dire che senza ombra di dubbio è uno dei più importanti della Costituzione Italiana. Con questo articolo la Repubblica Italiana riconosce e garantisce i diritti dell’uomo, violati nel corso della storia mondiale ed italiana durante il fascismo (soppressione delle libertà individuali e leggi razziali).

Il secondo articolo della Costituzione può essere considerato una ovvia continuazione del primo.

In discontinuità con la prassi affermatasi durante il fascismo assegna il primato all’individuo rispetto allo Stato: i diritti del cittadino sono prima di tutto riconosciuti, quindi preesistono allo Stato e solo in seguito vengono garantiti.

Si riparte dal fondamento del costituzionalismo liberale,  il quale afferma l’esistenza di diritti innati del cittadino, che lo stato deve limitarsi a riconoscere e regolare (non si tratta quindi di una concessione da parte dello Stato come era ad esempio nello Statuto Albertino).

L’articolo due dunque, riconosce e ribadisce il valore del singolo individuo, in modo che questi possa sviluppare la propria personalità, attraverso l’affermazione delle proprie scelte, facendo valere i propri diritti  ed adempiendo ai propri doveri: questo principio viene definito “personalista” è stato alla base della rinascita della “democrazia” dopo la “dittatura”; è senza dubbio il principio più profondo della nostra costituzione, quello che afferma ed assegna a ciascuno di noi la responsabilità delle nostre scelte.

La Costituzione riconosce e garantisce il valore della persona sia individualmente, sia in gruppo (ove si legge “nelle formazioni dove si volge la sua personalità” quindi la famiglia, le associazioni e gli stessi partiti politici). Rispetto all’individuo ed alle formazioni sociali, lo stato deve limitarsi a creare una cornice dentro cui ognuno potesse fare le proprie scelte.

Bisogna ricordare che il principio personalista ha ben poco a che vedere con il processo di individualizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.

Una società fondata sui diritti individuali non è assolutamente una società invidualista dove ciascuno pensa unicamente a sé stesso.

Al contrario, i diritti individuali costituiscono quella leva necessaria per l’emancipazione di ognuno di noi all’interno di una comune cornice di libertà e di opportunità. Infatti all’individuo non solo vengono garantiti i diritti, ma viene richiesto l’adempimento dei doveri, definiti dalla Costituzione come doveri di “solidarietà politica, economica e sociale”. Dunque, secondo la nostra Costituzione NON ESISTONO DIRITTI SENZA DOVERI né viceversa: la libertà di ognuno è volta al miglioramento della società nel suo complesso.

  Questo articolo ricopre una particolare importanza (anche se spesso viene sottovalutato a scapito del primo) perché rende possibile l’inclusione di diritti considerati “nuovi” che non erano stati previsti od introdotti nella Costituzione. Pensiamo ad esempio al diritto dell’abitazione, alla tutela dell’ambiente, al riconoscimento della vita del nascituro, alle esigenze legate alla procreazione, alla privacy, alla disposizione della propria vita e quindi alla negazione dell’accanimento terapeutico.

  Un articolo dunque “variabile” come variano i diritti individuali. Solo a titolo di esempio potremmo citare il “diritto di accesso alla rete” come diritto emergente con l’evolversi della tecnica inteso come mezzo di emancipazione ed espressione personale di ciascuno di noi.

Avrete notato che l’analisi di questo articolo è meno lunga e molto meno controversa dell’articolo uno, ma comunque ricopre un’importanza fondamentale per la vita del cittadino ed il resto della nostra Costituzione, che vedremo nelle prossime settimane.

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Quando la politica diventa “populistica”, degenerazioni di una classe dirigente

La politica è una scienza, e come tale dovrebbe essere trattata ed affrontata.

Compito di una classe dirigente dovrebbe essere quella di “dirigere”, prendendo anche decisioni scomode da far digerire all’elettorato perché sono quelle decisioni che un domani avranno un impatto sulla crescita del Paese e sulle future generazioni.

Negli ultimi vent’anni abbiamo invece assistito ad una lunga serie di personaggi politici che hanno via via assecondato gli umori del popolo elevandoli a valori della politica, degenerando il concetto stesso di politica.

Per prendere un esempio pratico possiamo prendere il caso eclatante della legge del Governo Letta che elimina il finanziamento pubblico ai partiti, legge che può essere considerata anche sostanzialmente giusta ma che non tiene conto di una serie di elementi che al “popolo” non sono stati chiarificati.

Innanzi tutto la politica avrebbe dovuto spiegare un particolare rispondendo ad una domanda: che cosa comporta l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti? 

RISPOSTA: Comporta che i processi decisionali saranno decisi dai privati e dalle multinazionali che decidono di “investire” in un partito.

Facciamo un esempio concreto: mettiamo che una banca decida di investire 50 mila euro per finanziare la campagna di un candidato di centrosinistra, perché porti avanti determinate politiche che avvantaggino il sistema bancario nella gestione della crisi, concedendo alle banche delle leggi che elimino i vincoli che le banche hanno nell’erogazione dei prestiti: il partito di Governo sarebbe costretto in questo modo a dover fare quello che la banca chiede, pena il mancato finanziamento al prossimo turno elettorale.

Altro esempio: una casa farmaceutica decide di finanziare il partito a condizione che faccia una legge che elimini la sanità pubblica e privatizzi consegnando a quelle multinazionali il potere decisionali sulla sanità delle persone in base al costo dell’assicurazione sanitaria.

Abolire il finanziamento pubblico e poi pretendere che non siano i privati a condizionare le politiche e le elezioni è una cosa puramente utopica, perché la politica e le campagne elettorali hanno dei costi perché possa essere svolta in modo corretto.

Certo, il finanziamento deve essere regolamentato, non può essere finanziamento selvaggio e si poteva pensare ad una riduzione del finanziamento pubblico con una percentuale (regolamentata e giustificata) di finanziamento privato, di modo che la politica possa comunque non dipendere per intero dal privato ma possa godere di una certa autonomia.

Altro elemento che in questi mesi tiene banco è la questione immigrazione: la vox populi dice “basta mandiamoli tutti a casa?” e la classe dirigente cosa fa? Si accoda alla voce del popolo dibattendo in televisione tutti i giorni sulla questione immigrazione senza riuscire a trovare una soluzione condivisa in grado di conciliare gli elementi di integrazione accoglienza (sull’immigrazione tuttavia non vorrei soffermarmi più di tanto perché vorrei affrontare l’argomento in modo più dettagliato nel prossimo articolo ma qui mi preme sottolineare come la politica non abbia capacità di elaborare soluzioni cedendo alle varie voci del popolo), pensando ad una soluzione ottimale per quelle che sono le problematiche di un sistema complesso come quelle dell’immigrazione.

Gli esempi che si possono fare sono tanti, troppi per essere tutti elencati, però la sostanza non cambia: la classe dirigente avrebbe il compito di risolvere i problemi che altrimenti il popolo non potrebbe risolvere e per questo “delega” alla politica.

Perché questo avvenga è necessario un rigore morale ed una preparazione politica, anche a prendere decisioni impopolari per il bene del popolo, anche andando contro quelle che sono le voci del popolo stesso, spiegando le motivazioni che quelle decisioni comporteranno sullo sviluppo futuro.

Perché questo sia possibile è oltretutto necessaria una capacità dialettica e di mediazione che al momento sembra essere assente dalla nostra politica.

Ritornare alla politica “per la gente” vuol dire assumersi anche al responsabilità di fare leggi che spesso il “popolo” potrebbe non capire ma che alle lunghe potrebbe accettare, quando si rende conto che hanno un beneficio sebbene non immediato.

Una volta fatto questo avremo di nuovo una politica “alta” che ha recuperato la sua funzione originale di “scienza di corretta amministrazione di una città” come era nella sua originale accezione greca e come era intesa da chi faceva politica nella polis. Senza questa consapevolezza la politica invece sarà destinata a non riuscire a risolvere i problemi del Paese ma sarà invece destinata a vegetare nel gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare niente”. politic

Lo Ius Soli spiegato in breve

L’argomento politico che tiene banco negli ultimi giorni è quello sulla discussione che si tiene in Parlamento sullo Ius Soli,  ma di cosa si tratta esattamente?

Ovviamente da giorni in televisione si scontrano favorevoli e contrari che non fanno altro che confondere il cittadino impedendogli di fondo di avere una propria opinione su quella che potrebbe essere una legge che creerebbe un momento epocale nel discorso dell’integrazione italiana: i figli degli immigrati che hanno completato un ciclo di studi in Italia, si sono formati nelle nostre scuole e rispettano le nostre leggi sono comunque,  indipendentemente dalla loro origine, da considerarsi a tutti gli effetti italiani, ma proviamo ad andare con ordine, rispondendo prima ad una domanda: da dove nasce il concetto di ius soli?

La parola deriva dal latino e letteralmente vuol dire diritto del suolo ed in diritto si contrappone al concetto di ius sanguinis (diritto di sangue).

Oltre agli Stati Uniti ci sono anche diversi paesi europei che concedono lo ius soli e sono: Grecia, Portogallo, Gran Bretagna, Francia, Irlanda Finlandia.

Molti fanno risalire il concetto di Ius Soli al Diritto Romano, ai tempi dell’Impero, il che non è vero (lo stesso Massimo Cacciari qualche giorno fa è incappato nell’errore durante un dibattito televisivo).

La genesi della legge denominata Ius Soli può essere riscontrata nel dibattito dottrinale che e giurisprudenziale sui diritti sovrani dei Principi nel XVI e XVIII secolo.

In particolare William Blackstone, giurista britannico del Settecento, tende a far risalire il concetto di ius soli  direttamente al sistema medievale del vassallaggio: in effetti il rapporto che lega il cittadino allo Stato che lo ospita è per molti aspetti simile a quello che nel Medioevo legava il Vassallo al proprio Re.

Detto questo, trovo che sia una cosa piuttosto normale che se qualcuno sia nato in un determinato territorio e ne ha studiato la tradizione e rispetta le leggi ne possa essere considerato ufficialmente cittadino.

Tra lo Ius Soli e lo Ius Sanguinis (diritto per discendenza) trovo molto più sensato il primo, soprattutto perché il secondo caso se estremizzato può portare a stragi e stermini in nome della Purezza della Razza.

Arte e cultura per salvare l’Italia

L’Italia, da sempre è la meta turistica per eccellenza.

Nel’Ottocento era un privilegio per pochi poter viaggiare in Italia, ma tutti i grandi intellettuali che definivano tali dovevano fare tappa nel nostro Paese per poter completare il loro processo formativo.

GOETHE , per esempio, scrisse un bellissimo Viaggio in Italia in cui raccontava le bellezze che aveva visto nel nostro Paese e Keats si fece addirittura seppellire in Italia nel cimitero anglicano. Altri hanno percorso le strade italiane, raccontandone meraviglie e scrivendo romanzi (come non pensare alla Certosa di Parma di StendhalLa marchesa di Sansevero di Alexandre Dumas) ambientati per l’appunto in Italia.

Eppure da anni l’Italia non sembra riuscire  sfruttare il patrimonio artistico-culturale di cui dispone il Paese, lasciando spesso incompiuti, lavori di restauro, opera e borghi spesso e volentieri abbandonati al loro destino senza che nessun ente comunale o nazionale intervenga nella gestione e nella cura di questo patrimonio artistico valorizzandolo per quello che è: una risorsa del Paese e della nazione.

Va detto che la consapevolezza delle ricchezze del nostro Paese manca da sempre, da quando l’Italia venne definita “un’espressione geografica su una cartina” da Metternich, il cancelliere prussiano che mise in evidenza come l’Italia non fosse una nazione con uno spirito identitario forte ma fosse solo una serie di popoli in costante lotta tra loro.

Questo concetto è rimasto a fondo radicato nello spirito italiano ed impedisce di valorizzare al meglio quello che è un patrimonio identitario e culturale di una nazione come potrebbe la Germania oggi o come lo sono la Francia o la stessa Spagna, pur dilaniata dalle pulsioni secessioniste di Catalogna e Paesi Baschi.

Tornando all’Italia, possiamo citare il caso di Pompei su tutti: il sito archeologico più visitato al mondo abbandonato per anni a sé stesso senza una promozione turistica adeguata e soprattutto senza controlli o restauri in grado di promuovere quello che senza dubbio è uno dei gioielli della storia italiana, che è stato anche teatro (musicalmente parlando) di due concerti storici: quello dei Pink Floyd e dei Dream Theater.

Nel 2015 Pompei è stata visitata da 2.978.884 turisti  rimanendo uno dei siti archeologici con il maggior numero di visite dal 2000 ad oggi  non scendendo praticamente mai sotto i DUE MILIONI DI VISITE NEL CORSO DEGLI ULTIMI QUINDICI ANNI, tutto questo nonostante le difficoltà patite negli ultimi anni.

Valorizzare questo patrimonio, non solo con il mantenimento, ma anche con il lavoro di promozione e di costruzione di infrastrutture che renda questo posto, come tanti altri accessibile ed appetibile per chi vuole visitarlo e conoscere la sua bellezza è una delle missioni che si deve porre questo e qualunque altro governo in Italia.

Ho citato il caso di Pompei perché si tratta forse di quello più “tristemente noto” alle cronache, con i crolli e lo stato di abbandono che lo ha portato alle cronache di tutti i giornali del mondo, ma come Pompei ci sono tanti altri siti turistici e non abbandonati e dimenticati che invece potrebbero essere sfruttati per far conoscere meglio l’Italia nel mondo.

Vorrei creare uno spazio su questo sito per poter costruire una vera e propria mappatura di quelli che sono i siti di maggior interesse dell’Italia, pensando insieme a come questi siti potrebbero essere valorizzati e quale possa essere in questo contesto il ruolo dello Stato e del Ministro Franceschini.

L’idea è quella di far conoscere siti italiani, mettendo in contatto enti e società che i occupano della valorizzazione del territorio per permettere all’Italia non solo di ripartire ma di tornare ad essere “centro nevralgico della cultura del mondo” come lo era stato nel periodo che va dal Quattrocento al Seicento soprattutto.

Io nel mio piccolo, aprirò una sezione in cui cercherò di parlare di capolavori artistici, architettonici ed artistici italiani, perché questo patrimonio venga conosciuto ed apprezzato prima di tutto da noi, perché senza la conoscenza del proprio passato nessuna nazione è in grado di costruire il proprio futuro.