Elezioni, analisi di una sconfitta annunciata (?)

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Ho deciso di iniziare questo articolo con una foto ironica.

Una foto che spiega bene lo sconforto di un elettorato che domenica alle urne non sapeva che cosa votare semplicemente perché non aveva idea di quale fosse la scelta migliore per sè stesso.

Certo, ci sono stati quelli che hanno votato senza pensare, per ideologia o per “amore incondizionato” nei confronti del candidato di turno ma ci sono anche quelli che una volta dentro l’urna hanno iniziato a sudare freddo perché davvero non avevano idea di che cosa barrare sulla scheda elettorale.

Anche l’elettorato normalmente di sinistra questa volta ha avuto difficoltà a capire perché votare anche secondo la logica del voto utile.

Risultato?
La sinistra arriva al minimo storico dai tempi del PCI, scendendo sotto quella che era stata definita la soglia psicologica del 20%  e prende poco più della LEGA che alle scorse elezioni aveva preso il 4% e che con la “cura Salvini” riesce ad arrivare al 17%.

Una sconfitta simile avrebbe dovuto essere analizzato da subito, il partito avrebbe dovuto ammettere le proprie colpe nella gestione della campagna elettorale e comprendere cosa abbia creato uno scollamento tale tra elettorato e classe dirigente da portare ad una simile disfatta.

Mi sono già occupato di quelle che possiamo definire le “colpe” della sinistra, chiedendo praticamente ad ogni tornata elettorale che venisse fatta una approfondita analisi su quanto succedeva nella società civile.

La prima reazione della “sinistra di Governo” – se la vogliamo contrapporre a quella antagonista – è stata quella di dare la colpa agli elettori che hanno votato Cinque Stelle perché ignoranti e Lega perché razzisti. Ma è davvero così o questo rifiuto del voto a sinistra ha radici più profonde?

Cercare di capire che cosa ha portato alla sconfitta del PD è uno dei punti nodali da affrontare per capire cosa fare da domani. Con questo articolo vorrei cercare di dare qualche spunto di riflessione (più a me stesso che ad altri) e cercare di offrire magari qualche spunto di riflessione anche  a sinistra.

Partiamo da un aspetto che potrebbe essere marginale ma che in realtà non lo è: perché l’elettorato vota a sinistra? Quali sono quei valori e quelle idee che un elettore fa sue quando vota a sinistra?

LAVORO Le politiche che la sinistra governista ha portato avanti sul lavoro in questi anni sono state poche e spesso contradditorie. Le riforme della sinistra sul mercato del lavoro partono dal PACCHETTO TREU, quello che di fatto ha dato il via alla precarizzazione del mercato del lavoro per arrivare sino al JOBS ACT, una riforma che funziona, che ha anche creato dei posti dei lavoro, ma lo ha fatto in una concezione di un mercato del lavoro comunque precarizzato. Certo, meglio lavorare tre mesi che stare a casa a non fare niente, ma non sarebbe meglio fare in modo che lavorino tutti, secondo il vecchio slogan lavorare tutti lavorare meno? Inoltre sono anni che i sindacati ed i movimenti vari chiedono una regolarizzazione dei salari attraverso un adegueamento del salario alle condizioni di vita perché sono aumentati i costi e diventa sempre più difficile per una famiglia di quella che un tempo era la media borghesia far quadrare i bilanci.

Analizzare punto per punto quello che è il programma della sinistra sarebbe solo un esercizio di pura accademia per cui mi limito a fare alcune considerazioni generali, cercando di capire che cosa sia successo in sede di elezione.

La sinistra ha perso contatto con la realtà. Lentamente, nel corso degli anni il progetto di una sinistra di Governo si è sempre più trasformato nell’idea di una sinistra al servizio dei potentati economici e delle lobbie elementi che di fatto hanno snaturato il rapporto di fiducia nell’elettorato classico della sinistra.

Non è un caso che molti militanti del Partito Democratico esprimessero disagio sulla questione delle banche e del salvataggio di Banca Etruria. Il disagio non era tanto legato allo scandalo che fosse implicato il padre della Boschi, ma era qualcosa di molto più profondo: il disagio di un popolo che vedeva il proprio partito abbandonare i propri valori in nome di altri che di solito venivano legati alla destra. A questo andrebbe poi aggiunta quella incapacità di comprendere il disagio bollandolo come “veterocomunista” e dando sostanzialmente dei cretini a tutti quelli che non avrebbero votato PD.

Cretinismo, populimo e razzismo

Si può pensare di analizzare il voto di domenica dicendo “hanno vinto i populisti”? Assolutamente no, si tratta di una analisi parziale, fuorviante ed ipocrita.

Quella volontà di scaricare tutta la colpa non sulle classi dirigenti ma su un elettorato che non ha risposto agli stimoli della bellisima campagna elettorale fatta dalla dirigenza di sinistra.

Chi la scelto di votare Lega o Movimento Cinque Stelle non lo ha fatto solamente perchè razzista o perché cretino (nel caso dei Cinque Stelle subentra anche la sottile ironia del fancazzismo: voto Movimento Cinque Stelle perché voglio il reddito di cittadinanza) ma semplicemente perché non aveva altro modo per esprimere il proprio disagio. Certo, avrebbe potuto farlo votando per Potere al Popolo ma il punto ora è un altro.

Le crisi migratorie e la difficoltà a vedere i risultati della tanto decantata ripresa economica hanno di fatto consegnato il Paese a quelle forze che hanno fatto una campagna impostata sulla demagogia, rispondendo però alle richieste di un elettorato smarrito e deluso da quanto avveniva attorno a lui.

Insomma, una sinistra che ha completamente smarrito il senso della propria esistenza e che ha difficoltà a comprendere che cosa sia realmente successo al voto.

Una classe dirigente frastornata, che pensava di avere in mano il Paese e che invece ha avuto un brutale risveglio.

Diventa a questo punto costruire una nuova connessione con il proprio elettorato, ma a questo punto la domanda è: qualcuno è in grado di farlo, almeno all’interno del PD?

 

Quando la politica diventa “populistica”, degenerazioni di una classe dirigente

La politica è una scienza, e come tale dovrebbe essere trattata ed affrontata.

Compito di una classe dirigente dovrebbe essere quella di “dirigere”, prendendo anche decisioni scomode da far digerire all’elettorato perché sono quelle decisioni che un domani avranno un impatto sulla crescita del Paese e sulle future generazioni.

Negli ultimi vent’anni abbiamo invece assistito ad una lunga serie di personaggi politici che hanno via via assecondato gli umori del popolo elevandoli a valori della politica, degenerando il concetto stesso di politica.

Per prendere un esempio pratico possiamo prendere il caso eclatante della legge del Governo Letta che elimina il finanziamento pubblico ai partiti, legge che può essere considerata anche sostanzialmente giusta ma che non tiene conto di una serie di elementi che al “popolo” non sono stati chiarificati.

Innanzi tutto la politica avrebbe dovuto spiegare un particolare rispondendo ad una domanda: che cosa comporta l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti? 

RISPOSTA: Comporta che i processi decisionali saranno decisi dai privati e dalle multinazionali che decidono di “investire” in un partito.

Facciamo un esempio concreto: mettiamo che una banca decida di investire 50 mila euro per finanziare la campagna di un candidato di centrosinistra, perché porti avanti determinate politiche che avvantaggino il sistema bancario nella gestione della crisi, concedendo alle banche delle leggi che elimino i vincoli che le banche hanno nell’erogazione dei prestiti: il partito di Governo sarebbe costretto in questo modo a dover fare quello che la banca chiede, pena il mancato finanziamento al prossimo turno elettorale.

Altro esempio: una casa farmaceutica decide di finanziare il partito a condizione che faccia una legge che elimini la sanità pubblica e privatizzi consegnando a quelle multinazionali il potere decisionali sulla sanità delle persone in base al costo dell’assicurazione sanitaria.

Abolire il finanziamento pubblico e poi pretendere che non siano i privati a condizionare le politiche e le elezioni è una cosa puramente utopica, perché la politica e le campagne elettorali hanno dei costi perché possa essere svolta in modo corretto.

Certo, il finanziamento deve essere regolamentato, non può essere finanziamento selvaggio e si poteva pensare ad una riduzione del finanziamento pubblico con una percentuale (regolamentata e giustificata) di finanziamento privato, di modo che la politica possa comunque non dipendere per intero dal privato ma possa godere di una certa autonomia.

Altro elemento che in questi mesi tiene banco è la questione immigrazione: la vox populi dice “basta mandiamoli tutti a casa?” e la classe dirigente cosa fa? Si accoda alla voce del popolo dibattendo in televisione tutti i giorni sulla questione immigrazione senza riuscire a trovare una soluzione condivisa in grado di conciliare gli elementi di integrazione accoglienza (sull’immigrazione tuttavia non vorrei soffermarmi più di tanto perché vorrei affrontare l’argomento in modo più dettagliato nel prossimo articolo ma qui mi preme sottolineare come la politica non abbia capacità di elaborare soluzioni cedendo alle varie voci del popolo), pensando ad una soluzione ottimale per quelle che sono le problematiche di un sistema complesso come quelle dell’immigrazione.

Gli esempi che si possono fare sono tanti, troppi per essere tutti elencati, però la sostanza non cambia: la classe dirigente avrebbe il compito di risolvere i problemi che altrimenti il popolo non potrebbe risolvere e per questo “delega” alla politica.

Perché questo avvenga è necessario un rigore morale ed una preparazione politica, anche a prendere decisioni impopolari per il bene del popolo, anche andando contro quelle che sono le voci del popolo stesso, spiegando le motivazioni che quelle decisioni comporteranno sullo sviluppo futuro.

Perché questo sia possibile è oltretutto necessaria una capacità dialettica e di mediazione che al momento sembra essere assente dalla nostra politica.

Ritornare alla politica “per la gente” vuol dire assumersi anche al responsabilità di fare leggi che spesso il “popolo” potrebbe non capire ma che alle lunghe potrebbe accettare, quando si rende conto che hanno un beneficio sebbene non immediato.

Una volta fatto questo avremo di nuovo una politica “alta” che ha recuperato la sua funzione originale di “scienza di corretta amministrazione di una città” come era nella sua originale accezione greca e come era intesa da chi faceva politica nella polis. Senza questa consapevolezza la politica invece sarà destinata a non riuscire a risolvere i problemi del Paese ma sarà invece destinata a vegetare nel gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare niente”. politic