Perché Matteo Salvini rischia di continuare a vincere se la sinistra non cambia sé stessa

Matteo Salvini, Segretario della Lega per Salvini

Tra poco meno di una settimana sapremo se a governare l’Emilia Romagna per i prossimi anni sarà ancora il Partito Democratico o se quella che viene definita la “Regione Rossa” per eccellenza passerà ad essere amministrata dalla Lega di Matteo Salvini.

Secondo molti analisti e giornalisti una sconfitta della sinistra potrebbe essere un colpo mortale anche al governo PD-Cinque Stelle (non lo chiamerò giallo- rosso perché di rosso ha davvero molto poco) ma potrebbe essere anche un colpo notevole alle ambizioni di rinnovamento della sinistra di governo che il Partito Democratico vorrebbe incarnare.

In questo contesto elettorale qualche mese fa è entrato a gamba tesa il “Movimento delle Sardine” nato per “contestare il linguaggio e la politica di Salvini” un movimento che in qualche modo ha suscitato l’entusiasmo di molti (soprattutto a sinistra) perché vedono nel movimento una sorta di risveglio della coscienza civile.

Eppure, nonostante questo, la vittoria della Lega in Emilia non sarebbe poi una possibilità tanto remota.

Partiamo proprio da quella che potrebbe essere la “spinta propulsiva” del Movimento delle Sardine.

Nato come movimento di contestazione a Salvini (dando perlomeno in Emilia precise indicazioni di voto verso Bonaccini) per molti versi manca di quella che si potrebbe definire una “prospettiva più ampia” proponendo delle reali alternative ad anni di politiche sbagliate nel Paese.

Indubbiamente, il fatto che il Partito Democratico voglia dialogare con loro segna una nota di apertura da parte del PD ad aprirsi alla società civile, apertura che però rischia di non bastare. Abbiamo analizzato più volte (a costo di risultare noiosi) quelli che a nostro avviso sono i difetti della sinistra negli ultimi anni per cui non penso sia il caso di tornarci, quello che però possiamo ribadire è che senza una (necessaria) sterzata nella rotta la sinistra in Italia continuerà ad essere fallimentare rispetto ad una destra che riesce a rispondere a quelle che sono le esigenze momentanee del Paese.

Va ripensato il modo stesso di fare politica, come giustamente ha detto Fabrizio Barca, è necessario che un partito che si definisce di sinistra torni ad essere dalla parte degli ultimi, avendo però in mente una chiara visione di quelle che sono le necessità di una popolazione ormai vessata da anni di politiche di austerity imposte dall’Europa e da scelte economico – politiche che hanno portato all’impoverimento del cittadino medio, creando una sorta di estensione della proletarizzazione nel mondo del lavoro.

La completa mancanza di una regolamentazione in quelle che sono le politiche del lavoro degli ultimi anni hanno portato ad un “superamento in negativo” di quella che un tempo era chiamata proletarizzazione della società, attraverso il processo della precarizzazione dei posti di lavoro, problema che il tanto esaltato Jobs Act non ha eliminato, ma lo ha semplicemente regolamentato (togliendo peraltro quelle poche tutele che ancora erano rimaste ai lavoratori).

A questo possiamo anche aggiungere che nel corso degli anni la sinistra ha pensato di poter regolamentare i processi della globalizzazione, pensando di poter costruire una sorta di “liberalizzazione dal volto umano” pensando di essere in questo modo in grado di regolamentare i processi della globalizzazione. Questa strada ha condotto alla nascita di una sorta di “Terza Via” all’italiana (incarnata da Matteo Renzi) il quale ha imposto al Partito Democratico una serie di politiche che potremmo senza esitazione definire provenienti dalla Scuola di Chicago (dove per la prima volta vennero teorizzate le idee liberiste).

Tornare a contare vuol dire ripensare (da parte della sinistra) il modo di pensare la politica e l’economia, pensando ad un sistema che riporti lo Stato al centro dell’economia costruendo quel sistema ipotizzato molto bene da Mariana Mazzuccato nel suo libro Lo Stato Innovatore dove si ipotizza che lo stato stesso possa assumere un ruolo imprenditoriale nella costruzione di un sistema economico basato su principi più equi. Non si tratta di negare il capitalismo o proporne il superamento, ma di ipotizzare un sistema dove alcuni elementi che potremmo definire “socialisti” sono alla base di una regolamentazione di un mercato che se lasciato solo porta all’acutizzarsi delle differenze sociali.

Se la sinistra vuole tornare a vincere, dunque, deve ripartire innanzi tutto dall’elaborare una nuova forma di pensiero, senza scadere da un lato nel suo superamento a destra e dall’altro nella visione di una società nostalgica di un partito (quello comunista) proponendo soluzioni non applicabili o quanto meno di difficile realizzazione.

La sinistra riparta da quelli che sono i suoi pensatori teorici: riparta da Marx, da Gramsci, dalla scuola di Francoforte, perché solo in questo modo sarà in grado di ricostruire un pensiero egemonico forte a sinistra, capace di contrastare Salvini sul suo stesso campo, quello ideologico.

In caso contrario sarà destinata ad essere sconfitta per molte altre elezioni.

Questo avviene non tanto perché gli elettori sono “cretini” (altro vizio che la sinistra radical chic si deve togliere) ma perché – nonostante ritenga Salvini un pessimo politico – in qualche modo riesce a rispondere (in maniera completamente sbagliata) a quelle che sono le esigenze di un elettorato che appare sempre più insofferente verso le imposizioni di un Parlamento, quello europeo, percepito come distante e come “nemico” da parte del popolo.

Prendiamo le politiche sull’immigrazione: a parte il fatto di considerare “razzisti” e “fascisti” tutti coloro che sollevano un logico problema di disagio sociale (l’immissione di immigrati in zone disagiate porta altro disagio) ha spinto parte della popolazione a votare per chi, in modo sbagliato, risponde alla loro domanda non solo di regolamentazione dei flussi migratori ma anche alla lotta ad una situazione di degrado che ormai sta sfuggendo di mano.

Pensare che si possa risolvere tutto ammassando chi entra in dei centri di accoglienza (che non sono in grado di accogliere più un numero di persone) e lasciare poi che queste persone letteralmente vegetino nelle strade, con il rischio concreto di finire dritte nelle braccia della malavita, significa non comprendere che la soluzione deve essere pensata in modo diverso. Ovviamente questo non presuppone (come invece vorrebbe Salvini) che a chi salva persone venga impedito di entrare nelle nostre coste (quindi no, non si può sparare agli immigrati) ma serve applicare una politica con i porti del Mediterraneo perché i flussi vengano se non fermati perlomeno regolamentati.

Questo ovviamente è solo uno degli aspetti del problema (quello relativo all’arrivo) ce ne sono poi anche altri che cercheremo di analizzare in seguito come ad esempio quello della regolamentazione (e quindi la piena entrata nel sistema italiano) e l’integrazione, due fenomeni strettamente connessi che devono essere analizzati in maniera più approfondita e separatamente.

Post Scriptum: Ovviamente in un solo articolo non possiamo analizzare tutte quelle che sono le politiche sbagliate della sinistra, ma si può iniziare a pensare seriamente alla costruzione di un “laboratorio di idee” capace di mettere insieme una proposta politica concreta e realmente di sinistra.

Elezioni, analisi di una sconfitta annunciata (?)

destra-sinistra-591141-660x368

Ho deciso di iniziare questo articolo con una foto ironica.

Una foto che spiega bene lo sconforto di un elettorato che domenica alle urne non sapeva che cosa votare semplicemente perché non aveva idea di quale fosse la scelta migliore per sè stesso.

Certo, ci sono stati quelli che hanno votato senza pensare, per ideologia o per “amore incondizionato” nei confronti del candidato di turno ma ci sono anche quelli che una volta dentro l’urna hanno iniziato a sudare freddo perché davvero non avevano idea di che cosa barrare sulla scheda elettorale.

Anche l’elettorato normalmente di sinistra questa volta ha avuto difficoltà a capire perché votare anche secondo la logica del voto utile.

Risultato?
La sinistra arriva al minimo storico dai tempi del PCI, scendendo sotto quella che era stata definita la soglia psicologica del 20%  e prende poco più della LEGA che alle scorse elezioni aveva preso il 4% e che con la “cura Salvini” riesce ad arrivare al 17%.

Una sconfitta simile avrebbe dovuto essere analizzato da subito, il partito avrebbe dovuto ammettere le proprie colpe nella gestione della campagna elettorale e comprendere cosa abbia creato uno scollamento tale tra elettorato e classe dirigente da portare ad una simile disfatta.

Mi sono già occupato di quelle che possiamo definire le “colpe” della sinistra, chiedendo praticamente ad ogni tornata elettorale che venisse fatta una approfondita analisi su quanto succedeva nella società civile.

La prima reazione della “sinistra di Governo” – se la vogliamo contrapporre a quella antagonista – è stata quella di dare la colpa agli elettori che hanno votato Cinque Stelle perché ignoranti e Lega perché razzisti. Ma è davvero così o questo rifiuto del voto a sinistra ha radici più profonde?

Cercare di capire che cosa ha portato alla sconfitta del PD è uno dei punti nodali da affrontare per capire cosa fare da domani. Con questo articolo vorrei cercare di dare qualche spunto di riflessione (più a me stesso che ad altri) e cercare di offrire magari qualche spunto di riflessione anche  a sinistra.

Partiamo da un aspetto che potrebbe essere marginale ma che in realtà non lo è: perché l’elettorato vota a sinistra? Quali sono quei valori e quelle idee che un elettore fa sue quando vota a sinistra?

LAVORO Le politiche che la sinistra governista ha portato avanti sul lavoro in questi anni sono state poche e spesso contradditorie. Le riforme della sinistra sul mercato del lavoro partono dal PACCHETTO TREU, quello che di fatto ha dato il via alla precarizzazione del mercato del lavoro per arrivare sino al JOBS ACT, una riforma che funziona, che ha anche creato dei posti dei lavoro, ma lo ha fatto in una concezione di un mercato del lavoro comunque precarizzato. Certo, meglio lavorare tre mesi che stare a casa a non fare niente, ma non sarebbe meglio fare in modo che lavorino tutti, secondo il vecchio slogan lavorare tutti lavorare meno? Inoltre sono anni che i sindacati ed i movimenti vari chiedono una regolarizzazione dei salari attraverso un adegueamento del salario alle condizioni di vita perché sono aumentati i costi e diventa sempre più difficile per una famiglia di quella che un tempo era la media borghesia far quadrare i bilanci.

Analizzare punto per punto quello che è il programma della sinistra sarebbe solo un esercizio di pura accademia per cui mi limito a fare alcune considerazioni generali, cercando di capire che cosa sia successo in sede di elezione.

La sinistra ha perso contatto con la realtà. Lentamente, nel corso degli anni il progetto di una sinistra di Governo si è sempre più trasformato nell’idea di una sinistra al servizio dei potentati economici e delle lobbie elementi che di fatto hanno snaturato il rapporto di fiducia nell’elettorato classico della sinistra.

Non è un caso che molti militanti del Partito Democratico esprimessero disagio sulla questione delle banche e del salvataggio di Banca Etruria. Il disagio non era tanto legato allo scandalo che fosse implicato il padre della Boschi, ma era qualcosa di molto più profondo: il disagio di un popolo che vedeva il proprio partito abbandonare i propri valori in nome di altri che di solito venivano legati alla destra. A questo andrebbe poi aggiunta quella incapacità di comprendere il disagio bollandolo come “veterocomunista” e dando sostanzialmente dei cretini a tutti quelli che non avrebbero votato PD.

Cretinismo, populimo e razzismo

Si può pensare di analizzare il voto di domenica dicendo “hanno vinto i populisti”? Assolutamente no, si tratta di una analisi parziale, fuorviante ed ipocrita.

Quella volontà di scaricare tutta la colpa non sulle classi dirigenti ma su un elettorato che non ha risposto agli stimoli della bellisima campagna elettorale fatta dalla dirigenza di sinistra.

Chi la scelto di votare Lega o Movimento Cinque Stelle non lo ha fatto solamente perchè razzista o perché cretino (nel caso dei Cinque Stelle subentra anche la sottile ironia del fancazzismo: voto Movimento Cinque Stelle perché voglio il reddito di cittadinanza) ma semplicemente perché non aveva altro modo per esprimere il proprio disagio. Certo, avrebbe potuto farlo votando per Potere al Popolo ma il punto ora è un altro.

Le crisi migratorie e la difficoltà a vedere i risultati della tanto decantata ripresa economica hanno di fatto consegnato il Paese a quelle forze che hanno fatto una campagna impostata sulla demagogia, rispondendo però alle richieste di un elettorato smarrito e deluso da quanto avveniva attorno a lui.

Insomma, una sinistra che ha completamente smarrito il senso della propria esistenza e che ha difficoltà a comprendere che cosa sia realmente successo al voto.

Una classe dirigente frastornata, che pensava di avere in mano il Paese e che invece ha avuto un brutale risveglio.

Diventa a questo punto costruire una nuova connessione con il proprio elettorato, ma a questo punto la domanda è: qualcuno è in grado di farlo, almeno all’interno del PD?

 

Lavoro e salario in Italia, prospettive per il 2018

Utilizziamo un vecchio slogan sindacale per parlare di lavoro, nello specifico per parlare di precariato e lavoratori dei call center.

Secondo i dati ISTAT nel mese di dicembre del 2017 la stima degli occupati è calata dello 0,3% (-66 mila posti di lavoro) tornando al livello di ottobre, mentre il tasso di occupazione scende al 58,0% (0,2% punti percentuali).

Rileviamo che il calo dell’occupazione nell’ultimo mese interessa tutte le componenti di genere e di tutte le classi di età eccetto la fascia che riguarda gli ultracinquantenni. Risultano in diminuzione i lavoratori dipendenti, sia permanenti sia a tempo determinato, mentre rimangono stabili gli indipendenti.

Nel trimestre ottobre-dicembre si registra un lieve incremento degli occupati rispetto al periodo precedente (+0,1%, +16 mila).

La stima delle persone in cerca di occupazione a dicembre diminuisce per il quinto mese consecutivo (-1,7, -47 mila).

La diminuzione della disoccupazione interessa donne e uomini e riguarda tutte le classi ad eccezione di quella 25-49 anni. Il tasso di disoccupazione si attesta attorno al 10,8% (-0,1% rispetto a novembre), mentre quello giovanile scende al 32,2% (-0,2%).

Cresce invece la stima degli inattivi tra i 15 ed i 64 anni e cresce dello 0,8% (+112 mila), interessando tutte le età e tutte le componenti di genere. Il tasso di inattività sale al 34,8% (+0,3 punti percentuali).

Eppure a queste notizie positive è strettamente correlata una negativa: secondo i dati del Trades Union Congress (TUC), il quale ha fatto una analisi partendo dai dati OCSE, è prevista in Italia una progressiva decrescita dei salari, ma vediamo nel dettaglio cosa dice l’analisi.

L’analisi riguarda il salario reale, ovvero la quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare con il suo stipendio, che si traduce con nel suo POTERE DI ACQUISTO.

Il salario reale viene calcolato sulla base del rapporto tra salario nominale (la quantità di moneta ricevuta come stipendio) e l’inflazione.

Questo calo ci sarà nonostante in Italia nel 2018 entrerà in vigore il nuovo contratto del pubblico impiego che prevede un aumento di stipendio di 85 euro lordi per tutti gli statali. L’aumento però rischia di non essere sufficiente per far fronte all’inflazione: i prezzi dei beni di servizio cresceranno ben più dei salari con la conseguente decrescita del valore salariale.

Il motivo di questo calo non è da attribuire all’ingresso nell’Unione Monetaria (anche in virtù del fatto che in altri Paesi dell’UE i salari sono destinati a crescere nel 2018). Secondo Luigi Marattin, consulente economico della Presidenza del Consiglio il problema è lo stretto legame tra i salari medi e la produttività del lavoro (ossia la quantità di cose che vengono prodotte in un Paese in un anno in rapporto al numero ed alle ore) con quest’ultima che dal 1996 è cresciuta solamente del 5,8%. A questo punto è necessario porsi una domanda: perché la produttività del lavoro non cresce in Italia?

Una risposta la fornisce NICOLA BORRI, economista della LUISS di Roma, che nel 2016 ha affrontato la questione in un’intervista rilasciata all’Ansa.

Secondo l’analisi di Borri si possono identificare due motivazioni che rallentano la produttività italiano: l’arretratezza della tecnologia e la totale o quasi mancanza di specializzazione del nostro Paese in settori – come ad esempio la moda ed il turismo – che risultano essere meno trainanti di altri più tradizionali come ad esempio la meccanica.

Dunque una soluzione potrebbe essere proprio questa: incrementare gli investimenti nel settore meccanico, chimico o manifatturiero dove gli effetti della tecnologia sono più evidenti, e fare in modo che facciano da traino per tutti quei settori che devono crescere.

Parallelamente è necessario migliorare la qualità del lavoro.

Perché questo sia possibile è innanzi tutto necessario ripartire dalla formazione universitaria – visto che tra i Paesi OCSE l’Italia risulta essere quello con la percentuale di laureati più bassa nella fascia d’età 25-64 anni.

Un suggerimento per il prossimo governo, che avrà il compito di riportare i salari medi ai livelli pre-crisi del 2008.

(I sull’aumento salariale sono presi dal sito Money.it mentre la prima parte è stata presa dal sito dell’Istat)

Fascisti 2.0 e la crisi dei sistemi liberali

I fatti di Macerata ed il seguito di eventi che questi hanno scatenato rendono necessaria una serie di considerazioni su quanto sta avvenendo in tutta Europa ma soprattutto in Italia.

Riassumiamo i dati per sommi capi: una ragazza tossicodipendente viene barbaramente uccisa ed il primo sospettato è un immigrato senza regolare di permesso di soggiorno (o meglio con permesso di soggiorno scaduto); non appena la storia esce tutto il centrodestra italiano inizia a puntare il dito contro le politiche di immigrazione del centrosinitra considerate troppo blande e permissive nei confronti degli immigrati; qualche tempo dopo LUCA TRAINI, candidato alle elezioni proprio con Lega sale in macchina e decide di sparare a tutti gli immigrati che incontra per strada rivendicando l’attentato come “vendetta per la morte di Pamela” lasciando intendere chiaramente che le sue convinzioni politiche sono fasciste (tanto che a casa gli viene trovato materiale propagandistico fascista).

A quel punto si è scatenata da parte di tutti i politici una rincorsa alla giustificazione, alla negazione dei fatti oggettivi, dicendo che si trattasse solo di uno squilibrato, che non si tratta di fascismo vero e proprio, che bisogna fare dei distinguo, sino ad arrivare a giustificare l’atto terroristico dando la colpa alla crisi ed al contesto sociale.

Partiamo dalla prima domanda, da cui poi cercheremo di sviluppare tutte le nostre analisi.

  1. ESISTE IN ITALIA UN PROBLEMA LEGATO AL FASCISMO DI RITORNO?

Indubbiamente sì.

Il ritorno delle ideologie e delle idee fasciste non può essere negato.

La galassia di forze che ruota attorno al sottobososco delle sigle dell’ultradestra è un universo vasto ed in costante aumento: Forza Nuova, CasaPound, Blocco Studentesco (il movimento studentesco che si definisce “fascista”) sono la conferma che abbiamo un problema con il ritorno delle idee fasciste, idee che sempre più persone immaginano come soluzione alla crisi dei sistemi liberali da cui l’Italia fa sempre più fatica ad uscire.

Il costante aumento della povertà in determinate zone del Paese, la costante e progressiva riduzione della ricchezza del Paese ed il costante impoverimento delle famiglie di quella che un tempo era la classe media, porta a cercare sostegno in quelle realtà di estrema destra che nel corso degli ultimi anni si sono impossessati delle periferie, rispondendo a quelle richieste di sostegno e di assistenzialismo che un tempo erano svolte dalla “sinistra” (almeno questa è la percezione popolare).

Complice una classe politica che ha smesso da tempo di dare risposte alle esigenze del Paese riemergono delle ideologie che nel diverso identificano il nemico da battere,  causa di tutti i mali.

Come avvenne al tempo dei Protocolli dei Savi di Sion, che vedevano negli ebrei la causa di tutti i mali (la famosa teoria del complotto pluto-giudaico-massonico di controllo del mondo) oggi la causa di tutti i mali viene vista negli immigrati, considerati “complici inconsapevoli” del progressivo impoverimento della società e della classe media.

In una campagna elettorale priva di contenuti politici, come rileva anche Marco Damilano nel suo ultimo editoriale sull’Espresso, il cittadino medio si rifugia nella sola ideologia che offre una risposta, quella fascista, che identifica un nemico – non più il capitale ma il diverso – e che offre “rassicurazione” su quelle che possono essere le soluzioni per uscire dalla crisi.

A questo andrebbe aggiunta la difficoltà della classe politica italiana a fare i conti con il passato: l’Italia non è mai uscita dalla Guerra Civile, sempre divisa tra “fascisti” ed “antifascisti” aveva trovato nella Prima Repubblica una sorta di equilibrio saltato con la fine di Democrazia Cristiana e Partito Comunista i due partiti che più di tutti hanno cercato una sorta di “normalizzazione della Guerra Civile”.

Il crollo delle ideologie ha portato quindi a cercare sostegno nella sola realtà ideologica presente sul territorio nazionale, forte anche delle proposte della Lega in materia di immigrazione e di una parte del centrodestra.

A questo bisogna aggiungere almeno un altro elemento: l’incapacità di una classe politica (soprattutto di centrodestra) incapace a prendere le distanze da posizioni fasciste come fece GIANFRANCO FINI quando definì il fascismo “il male assoluto”.

2. CHE FARE?

Utilizzo il titolo di uno dei testi fondamental del leninismo per cercare una soluzione a quelle che potrebbero essere delle proposte su come uscire dalla crisi.

a) Ammettere che esiste un problema “fascismo” in Italia

Negare l’evidenza potrebbe portare a conseguenze nefaste. Consentire l’ingresso in Parlamento di forze politiche che si richiamano esplicitamente al fascismo può essere per noi l’inizio della fine.

Il primo passa da fare è quindi quello di ammettere che esiste un problema correlato al fascismo ed affrontarlo soprattutto nelle scuole.

Utilizzo quello che disse Borsellino a proposito della mafia: “parlatene alla televisione, parlatene alla radio, parlatene nelle scuole, parlatene dove volete purché se ne parli”. Mettete in luce come determinate ideologie sono contrarie ai valori stessi dell’umanità, come non si possa parlare di razza e di supremazia di una razza nei confronti di un’altra, raccontate che cosa è stato il fascismo è stato, cosa ha prodotto e come lo ha prodotto.

La consapevolezza della storia è il primo passo per impedire che vengano ripetuti errori nel futuro: sappiamo cosa ha prodotto il fascismo, perché ripetere quell’esperienza?

Bisogna contrastare il fascismo senza SE e senza MA , indipendentemente dal credo politico, dalle idee in fatto di immigrazione e politiche sociali, mettendo da parte quelle che sono le questioni da campagna elettorale e combattere un fenomeno ancora marginale ma che rischia di ingrandirsi a dismisura.

Iniziamo a chiamare le cose con il loro nome: non sono quattro emarginati ma sono “fascisti” e come tali vanno perseguiti.

Quello di Traini, per tornare ai fatti di Macerata è un attentato di matrice razziale con l’aggravante di propoaganda fascista e come tale andrebbe perseguito e condannato.

3. CONVOCAZIONE DI UNA GRANDE MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA ED IN DIFESA DELLA DEMOCRAZIA

Una volta che tutte le forze hanno ammesso che esiste un problema correlato al fascismo è necessaria la convocazione di una GRANDE MANIFESTAZIONE DI TUTTE LE FORZE DEMOCRATICHE in difesa ai valori della libertà, della Costituzione e della democrazia. Non è una cosa banale, e la manifestazione deve essere aperta a tutte quelle forze politiche si definiscono “antifasciste”.

Fa un certo effetto vedere chi ha votato No al referendum, tutelando la Costituzione, difendere o accettare ideologie che sono nettamente contrarie ai principi della  Costituzione stessa.

Post scriptum

Ovviamente siamo in questo articolo rimasti nel campo puramente teorico, analizzando il rischio di un ritorno del fascismo in Italia (pertanto da scongiurare) ma l’analisi dovrebbe essere in realtà molto più profonda: sarebbe necessario che tutte le forze politiche tornassero ad occuparsi dei bisogni delle persone, tutelando gli interessi della cittadinanza invece che quelli del singolo, tornando a mettere le questioni politiche al centro della propria azione, eliminando quelli che sono personalismi e questioni di interesse privato a scapito di quello collettivo.

Avremo modo di riparlare anche di questo, cercando di elaborare strategie e soluzioni perché l’Italia possa uscire dalla crisi, ma per ora mi limito a chiedere questo: combattiamo con tutte le nostre forze tutte quelle ideologie contrarie alla democrazia, è il primo passo per evitare che ci siano “ritorni di fiamma”. 

“Spellacchio” qualche consiglio per i prossimi anni

nuovo-per-immagine-in-evidenza-sito-2-3

Negli ultimi giorni si è scatenato il dibattito sull’albero di Natale della Giunta Raggi a Piazza Venezia.

Tra coloro che lo difendono (perlopiù elettori del Movimento Cinque Stelle e grillini) e coloro che lo contestano (tutti gli altri) cerco di chiarire meglio la mia posizione.

Partiamo da un dato puramente estetico e soggettivo: l’albero è brutto, anche con tutte le luci. Visto di giorno da un senso di tristezza particolarmente profondo che i led riescono solo marginalmente a nascondere, così come la punta è sproporzionata rispetto a tutto il resto dell’albero, dando una profonda immagine di sciatteria di quella che invece dovrebbe essere la Capitale d’Italia.

La difesa ad oltranza di chi difende la Raggi (per un albero brutto oltretutto costato 48 mila euro!) è “quelli della Giunta Alemanno e Veltroni erano peggio e sono costati la stessa cifra”.

Ecco, iniziamo proprio da questa risposta: dire “quelli di prima erano peggio” non è una argomentazione valida per difendere una scelta molto meglio sarebbe rispondere “sì, abbiamo fatto una cretinata ma stiamo cercando di rimediare” oppure “sì, è brutto ma non abbiamo trovato niente di meglio”, di certo non sarebbero risposte consolanti ma sarebbero quantomeno più sensate.

L’albero di Natale è solo l’ennesimo episodio di sciatteria della Giunta Raggi, una scarsa considerazione del valore estetico dell’addobbo natalizio sulla scia del “eh, ma i problemi sono altri”.

Qui sorge il primo problema: l’albero è sito in Piazza Venezia, la piazza centrale di Roma,  quella che è lo snodo centrale per passaggio di turisti, dove si arriva sia da Via del Corso che da Via dei Fori Imperiali e di fronte all’Altare della Patria. Un albero di Natale in un posto simile dovrebbe colpire il turista, dovrebbe far respirare il clima del Natale, quasi far “sentire a casa” chi lo vede. Invece l’albero della Giunta Raggi da un profondo senso di sciatteria, per dirlo alla romana “famolo perché lo dovemo fa”, oltretutto i costi alti non fanno che aggiungere danno alla beffa.

Perché non si è pensato alla possibilità di aprire una gara d’appalto (come fatto ad esempio a Milano) dove si presentavano diversi progetti e si valutava il migliore? Se la paura è quella delle infiltrazioni allora la Giunta Raggi ha fallito la sua missione di lotta alla corruzione, perché la lotta alla corruzione si fa rendendo trasparenti le gare d’appalto e non stando fermi e non fare nulla.

Sarebbe bastato anche andare alla Fondazione Fendi e chiedere “ma che mi fate un albero di Natale?” trovando un accordo con una delle tante società di mode storiche di Roma (che già ha restaurato magistralmente la Fontana di Trevi) risparmiando in questo modo davvero i soldi dei contribuenti e facendo un’opera di reale abbellimento di Roma invece che mettere un albero di Natale tanto per metterlo.

Roma merita di meglio, lo dico sin dai tempi di Marino (che a questo punto confronto alla Raggi diventa un gigante della politica),  non può essere tutto relegato alla sciatteria ed al “e allora quelli di prima?” perché se i cittadini di Roma hanno votato per la Raggi lo hanno fatto per vedere un miglioramento nel modello di amministrazione romana e sinora miglioramenti se ne sono visti pochi: peggiorato il servizio pubblico, Atac sull’orlo del fallimento, alberi di Natale che prendono in giro un po’ in tutto il mondo, qualità della vita inferiore alla media, rifiuti ovunque (che alle volte pare di essere a Calcutta), buche e voragini ovunque (quando c’era Marino ricordo tutti i Cinque Stelle postare foto delle buche con l’immancabile “Marino Dimettiti”)  e altri disastri che sarebbe lungo da elencare.

Non è la prima volta che mi occupo di Roma e delle sue amministrazioni e torno a dire quello che dico da anni: Roma ha bisogno di un progetto e perché questo progetto si possa realizzare serve una giunta capace di realizzarlo, non basta dire “noi siamo diversi” per dimostrare la propria diversità e non basta nemmeno dire “però prima andava peggio”.

Utilizzando lo slogan di Donald Trump nelle scorse elezioni americane potremmo dire Make Rome great again non solo a parole ma anche e soprattutto nei fatti.

Niente deve essere lasciato al caso, nemmeno un albero di Natale soprattutto se è in quella che forse la Piazza più conosciuta al mondo dopo Piazza San Pietro e Piazza Navona. Roma non merita tanta sciatteria, ormai per quest’anno è andata, immagino che ci dovremo tenere Spellacchio ma vediamo gli altri anni di pensare a qualcosa di meglio,  partendo per tempo e non arrivando all’ultimo dicendo “scusate, ma non abbiamo trovato di meglio”.

Casa Pound, il fascismo e la condanna della violenza

casapound_italia1

L’aggressione di ieri ad Ostia ha suscitato (giustamente) l’indignazione di molti, ha sollevato diversi quesiti e dibattiti in nome della “libertà di espressione”.

Per molti versi sono gli stessi dibattiti che si sono sentiti in Italia da quando il fascismo è stato tramutato da dittatura in fenomeno culturale dovuto al disagio della popolazione.

Non so esattamente da dove nasca questa tendenza alla “tolleranza” per chi si dichiara chiaramente antidemocratico richiamandosi a presunti valori fascisti (nazionalismo di razza, razzismo, antisemitismo e propaganda antidemocratica) ma andrebbe ricordato che la democrazia va tutelata reprimendo fenomeni che possono portare alla crescita della dittatura. 

Per anni la “sinistra italiana” (intendendo in questo caso con il termine sinistra tutte le sue componenti e le sue varie sigle) si è ostinata a cercare in ogni espressione del proprio avversario un elemento “fascista” mentre il fascismo vero e proprio si stava riorganizzando occupando spazi sociali prima di appartenenza della sinistra e simboli anche essi appartenenti alla sinistra.

Ultimo è stato il Movimento Cinque Stelle, bollato più una volta come “fascista”.

Ora, ho detto più di una volta che ritengo il Movimento Cinque Stelle pericoloso per la tenuta democratica del nostro Paese perché connotati da un forte elemento “totalitario” ma di certo non li ritengo fascisti.

Casa Pound, così come Forza Nuova, invece sono delle forze dichiaratamente “fasciste”.

Richiamandosi ad alcuni valori tipici del fascismo (culto dei caduti, onore concesso a chi è morto in “battaglia”, vaghi richiami ed elementi nazionalisti sulla base dell’appartenenza di razza, giusto per citarne alcuni) di fatto pongono questi partiti nel novero di coloro che non possono essere accettati perché vietati dalla Costituzione.

Vero è che impedire a qualcuno di esprimere le proprie opinioni risulti a molti come una “violazione del principio di libertà” ma il principio della libertà non può essere assoluto, per tutelare quel principio è necessario che vengano estromessi tutti quelli elementi che possono comprometterne la stabilità e la sopravvivenza, come il fascismo.

Un progetto per la rinascita di Roma

Roma è in crisi, inutile negarlo ed inutile nascondersi dietro il dito delle “colpe delle amministrazioni precedenti” .

Vorrei partire dicendo che non è mia intenzione scrivere un post che attacchi la Raggi per la mala gestione della situazione romana, anche se ci tengo a dire una cosa: i Cinque Stelle dall’opposizione erano quelli che attaccavano Ignazio Marino bollandolo come “incapace” e sostenendo che loro avrebbero sicuramente fatto meglio, cosa che non sta avvenendo, anzi se possibile stanno facendo molto peggio.

Detto questo, prima di pensare a qualcosa di diverso per la situazione della Capitale sarebbe il caso di citare qualche dato, estrapolato dal dossier su Roma scritto dal Ministro Calenda per conto del Governo Gentiloni e consegnato sulla scrivania della Raggi di modo che si possa cooperare per far uscire Roma dalla crisi in cui è precipitata e da cui sembra non esserci via d’uscita.

Il primo dato da analizzare è la fuga da Roma delle grandi aziende: prima Sky, ora anche Unicredit hanno trasferito tutti i loro uffici (ed il personale) a Milano, che sempre più diventa la vera capitale italiana.

Questo, se aggiunto ai licenziamenti che hanno fatto seguito alla crisi di Alitalia è un segnale preoccupante per la tenuta economica ed al prestigio di Roma come “sede delle istituzioni”.

Nel documento possiamo leggere che sono state registrate 58 crisi aziendali nell’area di Roma e Provincia, con il coinvolgimento di oltre 23 mila lavoratori.

Dodicimila sono considerati “esuberi”, 3200 sono i licenziamenti effettuati,  2700 sono in solidarietà e 1600 sono in cassa integrazione (solo la crisi di Alitalia ha coinvolto 9000 dipendenti).

In questo elenco sono citati inoltre: 1600 esuberi di Almaviva, 200 di Esso, 600 esuberi di Securpol, i 619 del gruppo Carrefour ed in settecento cassaintegrati del gruppo Metronotte. 

Questo nonostante il tasso di occupazione sia salito a livelli pre-crisi: 62,9% all’inizio della crisi ed è tornato al 62,6% nel corso dello scorso anno.

A questo dato però va anche aggiunto che il livello di occupazione nella fascia di età tra i 24 ed i 34 anni nel 2008 era del 73,2% mentre oggi è sceso al 64% (Fonte Il Messaggero, Venerdì 22 settembre 2017).

Questo si spiega perché la riduzione del personale che ha fatto seguito all’abbandono da parte delle grandi aziende di Roma non è stata compensata dalla nascita di nuove società perché più piccole e perché non in grado di assumere dipendenti in modo da assorbire il colpo della disoccupazione aumentata.

Altro elemento preoccupante è quello relativo al turismo , da sempre considerato il fiore all’occhiello di Roma e da sempre vanto di sindaci che lo hanno sempre messo al centro dei loro programmi elettorali.

Nonostante le potenzialità Roma si posiziona al 4° posto  tra le mete turistiche più ambite dietro BERLINO con 27 milioni di pernottamenti rispetto ai 31 di Berlino, dietro LONDRA E PARIGI  rispettivamente con 67 e 43 milioni di pernottamenti, con un calo di entrate sul fronte turistico che provoca danni anche all’economia locale.

Interessante notare come, nonostante questi dati, Roma resti in testa alla preferenze in Italia per la visita dei Musei con il Pantheon saldamente al primo posto con 7,4 milioni di visitatori l’anno, davanti al Colosseo ed ai Fori Romani con (6,4 milioni di visitatori) mentre nelle prime dieci posizioni troviamo anche Castel Sant’Angelo al sesto posto con 1,6 milioni di visitatori, segnale che – nonostante le difficoltà – il “marchio” di Roma tira ancora.

Lo sviluppo economico di Roma risente di una tassazione sensibilmente più alta rispetto alla media nazionale, dato che le aliquote per chi produce sono più alte del 24% sono più alte rispetto a Milano mentre quelle sui dipendenti sono superiori del 40-57%, elemento che rende difficile assumere soprattutto le piccole e medie imprese che invece dovrebbero essere il tessuto sociale e produttivo della Capitale.

Poche, anzi pochissime sono anche le entrate dovute agli eventi, anche perché sono troppo poche per produrre introiti: appena 96 nel corso dello scorso anno rispetto ai 196 di Parigi, 186 di Vienna, 181 di Barcellona e 176 di Berlino.

Questo nonostante il turismo congressuale porta più entrate rispetto al turismo commerciale: chi raggiunge una conferenza ed un convegno spende in media 560 euro al giorno  rispetto ai 102 euro spesi da un turista tradizionale.

La mancanza di eventi può essere spiegata in diversi modi: mancano gli spazi per organizzare convegni e quelli che ci sono si trovano fuori dal Centro Storico e sono difficilmente raggiungibili con i mezzi pubblici, cosa che non avviene nelle altre città citate o perché più piccole (come nel caso di Vienna) o perché con un trasporto pubblico decisamente meglio organizzato (come nel caso di Parigi o Barcellona).

Bisogna fare in modo che questi dati, emessi da un documento ufficiale del Governo non restino lettera morta, fare in modo che diventino un punto di partenza necessario per la rinascita di Roma.

Pensare ad un piano di riqualifica del territorio della Capitale, facendo in modo che ritorni ad essere un polo di attrattiva come era sino a qualche anno fa deve essere scopo primario della attuale amministrazione.

Serve la collaborazione di tutti, a partire dalla Giunta per arrivare sino all’opposizione che deve cooperare per trovare una strada da percorrere per aiutare Roma ad uscire dalla crisi.

Cerchiamo di evidenziare i nodi più importanti da affrontare, nodi che allo stesso tempo sono anche quelli più difficili:

a) TRASPORTO PUBBLICO

b) RIFIUTI

c) SICUREZZA E DECORO URBANO

d) VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARTISTICO E CULTURALE

TRASPORTI 

Lasciamo da parte le polemiche strutturali sulla mala gestione di Atac e pensiamo a trovare una soluzione adeguata al problema del trasporto a Roma.

Innanzi tutto bisogna prendere atto che due linee di metropolitana sono davvero poche per una città come Roma, ne servirebbero almeno altre due come era in programma sin dai tempi della Amministrazione Rutelli. I lavori completati nel corso degli ultimi anni sono un punto di partenza per arrivare alla costruzione di una rete più vasta di trasporto su ferro, non possono essere un punto di arrivo.

Serve un maggiore collegamento con le zone centrali che metta in collegamento la periferia con il centro.

Il passo successivo dovrebbe essere quello di un progressivo abbandono del trasporto su gomma a vantaggio di un trasporto su rotaia come era in programma dalla giunta Marino (in quest’ottica andava la pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali e lo spostamento del capolinea della linea del 3 da Piazza Largo Argentina a Piazza Venezia/ Angolo Via delle Botteghe Oscure), il processo che poi non si è concretizzato va ripreso anche con una riqualificazione del personale ATAC.

Altra questione è quello degli esuberi: una società considerata sana non può avere più dipendenti del necessario, pena il tracollo.

I lavoratori in esubero andrebbero reimmessi in altri settori, come ad esempio quello della sicurezza delle stazioni, che andrebbe pertanto affidata a personale Atac  e non a società esterne che vincono gare di appalto, oppure il personale in esubero potrebbe anche essere riassunto con incarico diverso dalle società che gestiscono la sicurezza delle stazioni, in questo modo si potrebbero evitare licenziamenti e fare comunque in modo che l’Atac possa avere i conti a posto.

RIFIUTI

Esiste a Roma una questione rifiuti evidente.

La società che gestisce lo smaltimento dei rifiuti non è in grado di far fronte alle esigenze dello smaltimento dei rifiuti e questo provoca in danno di immagine notevole alla Capitale: a nessuno piace visitare il Colosseo con i rifiuti che escono dai cassonetti o vedere cassonetti che navigano le acque della Capitale quando piove, così come non piace a nessuno avere una città allagata per un nubifragio contenibile perché non si è provveduto alla ordinaria pulizia fognaria.

Si parla spesso in AMA di “mancanza di personale” ma in realtà quello che manca (oltre al personale su strada) è una reale capacità di utilizzo dei mezzi a disposizioni e di un sistema di smaltimento di rifiuti efficace ed efficiente come invece avviene in altre città.

Raccolta differenziata 

Una delle cose di cui si parla più spesso quando si parla di rifiuti a Roma è la raccolta differenziata.

Se ne parla spesso ed in tutte le salse eppure fatica a mettersi in moto, soprattutto quando si cerca di avviare la cosiddetta raccolta “porta a porta”.

La questione del mancato successo della raccolta sta nel fatto che oltre a mancare i mezzi manca anche l’educazione alla popolazione di come funzioni effettivamente la raccolta differenziata.

Non sono pochi i romani che sarebbero interessati a fare la raccolta differenziata ma non sanno come funziona.

Partire dall’educazione è il primo passo per costruire una raccolta differenziata efficace ed efficiente allo stesso tempo.

Il secondo passo è quello di pensare ad impianti di smaltimento dei rifiuti che funzionino e che possano permettere un regolare smaltimento dei rifiuti.

La chiusura della discarica di Malagrotta ha creato un evidente problema allo smaltimento dei rifiuti perché mancano completamente sia gli impianti di smaltimento che quelli di compostaggio dei rifiuti, il che causa problemi in fase di riciclaggio del rifiuto.

Non sono un tecnico per cui mi mantengo su linee generiche ma pensare ad un modello alternativo di smaltimento può diventare un punto di forza della Capitale e non restare solo uno slogan elettorale buono per le tornate elettorali.

SICUREZZA E DECORO URBANO

Questo punto se vogliamo è strettamente correlato al precedente anche se allo stesso tempo se ne discosta.

Partiamo dal decoro urbano: sembra una banalità, ma una città più pulita ed efficiente è anche una città più appetibile.

La città di Roma oggi come oggi è sporca: palazzi deturpati da scritte di adolescenti annoiati che si danno al vandalismo e mezzi pubblici che a dirla tutta cadono a pezzi dando una pessima immagine della città.

Servirebbe incrementare i controlli da parte delle Forze dell’Ordine, senza il timore di passare per “fascisti” (accusa che pare vada sempre di moda quando si parla di sicurezza), come aveva proposto ad esempio Roberto Giachetti  sostenendo nel corso della presentazione del suo programma che avrebbe chiesto al Ministero degli Interni di prorogare la durata della presenza dell’Esercito per le strade di Roma.

Altro discorso è quello che riguarda il decoro urbano: in parte fare in modo che la città funzioni al meglio spetta all’amministrazione ma anche i cittadini devono fare la loro parte.

Incrementare le sanzioni per chi deturpa il patrimonio della città non è una cosa di “destra o di sinistra” è una cosa intelligente,  le misure di sicurezza oltre che una forma di tutela sono anche una forma di educazione.

VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO ARTISTICO E CULTURALE

Quanti e quali sono i musei principali di Roma?

Sfido qualunque romano ad indicarmi almeno dieci musei di Roma, scommetto che non ci riuscirebbe quasi nessuno.

Eppure ci sono diversi musei che vale la pena visitare, sia se si è romani sia se si è turisti.

Mi viene in mente (tra quelli meno visitati) il MUSEO NAPOLEONICO al centro di Roma ed il MUSEO ETRUSCO di Valle Giulia, dove tra le altre cose si trova il famoso sarcofago degli sposi reperto unico e raro di arte etrusca.

Ovviamente non vanno dimenticati tra i musei di arte contemporanea la GNAM (Galleria Nazionale di Arte Moderna) ed il MAXXI  dove spesso e volentieri vengono fatte delle esposizioni e delle mostre davvero interessanti.

Valorizzare il proprio patrimonio artistico permetterebbe anche di valorizzare quelle periferie che spesso e volentieri sono abbandonate al loro destino senza che nessuna amministrazione se ne occupi.

Quelle periferie che in realtà sono parte del patrimonio archeologico di Roma e nascondono segreti che potrebbero essere scoperti per valorizzare anche le periferie.

Mi viene in mente ad esempio Villa Gordiani, la villa romana sulla Prenestina di proprietà dell’imperatore Gordiano che potrebbe essere meta di turismo tanto quanto altre zone di Roma molto più conosciute semplicemente perché sono state valorizzate nel corso degli anni.

Il lavoro che aspetta questa amministrazione, come anche le prossime che si susseguiranno non è poco e non è nemmeno semplice, ma è un punto di partenza, perché da qualche parte bisogna ripartire per tornare a fare Roma grande, ridare alla Capitale il ruolo ed il posto che le spetta nella storia, come sempre vi chiedo di contribuire con consigli e con suggerimenti su cosa e come si potrebbe migliorare la capitale, perché la storia si cambia insieme, solo ascoltando i cittadini si possono capire i problemi della città e ricostruire Roma, perché questo è quello che va fatto: rimettere Roma al centro della politica, della società e del mondo della cultura. 

campidoglio-1

Immigrazione: una politica tra “integrazione” ed “accoglienza”

 

Come al solito e come ogni estate si torna a parlare di immigrazione, contrapponendo sostanzialmente due visione: quella del “rimandiamoli a casa, sono tutti criminali” e quella “del poverini, se non li aiutiamo noi come fanno?”.

Ovviamente queste due posizioni sono estremamente semplificate perché la situazione sotto il sole è molto più complessa di così.

Intanto qualche dato: partiamo dagli stranieri regolari, ovvero quelli regolarmente residenti sul nostro territorio: secondo l’Istat gli immigrati residenti in Italia  sono 5.029.000 (dati aggiornati al 1 gennaio 2017) il dato è preciso perché calcolato sulla base delle persone registrate alle anagrafi comunali con una cittadinanza diversa da quella italiana.

Va fatto notare che in questo dato sono compresi tutti gli stranieri,  compresi quelli provenienti da altri paesi dell’Unione Europea. Mentre gli stranieri non comunitari, quelli che vengono percepiti come veri stranieri sono 3 milioni e 500 mila. A questi vanno aggiunti quelli che vengono definiti stranieri regolari ma non residenti, ovvero quelli che hanno un regolare permesso di soggiorno ma non sono iscritti all’anagrafe del Comune Italiano. Secondo i dati della Fondazione ISMU che si occupa di immigrazione si parla di 410 mila persone (dati del 1 gennaio 2016).  Quindi gli stranieri regolari in Italia sono circa  5, 4 milioni (su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti).

rifugiati politici (quindi il dato comprende anche quelli che fuggono dalle guerre) sono 118 mila.

Il dato dei 5,4 milioni non tiene conto di altre tre categorie di migranti:

  1.  I richiedenti asilo
  2. Quelli appena arrivati che non rientrano ancora nelle statistiche
  3.  I migranti irregolari,  quelli che vengono volgarmente chiamati “clandestini”.

In questo calcolo vanno poi menzionati i richiedenti asilo, anche se in questo caso non è tanto semplice stabilire il numero dei richiedenti asilo dato che conosciamo il numero delle richieste di asilo annue, ma non abbiamo dati su quante di queste richieste di asilo siano state effettivamente evase (visto che ci vuole un anno ed in alcuni casi due). Non si hanno dati su quante di queste richieste di asilo siano ancora tali oppure sono state modificate in qualcosa d’altro (rifugiati laddove si fosse avuta una risposta positiva, migranti irregolari per coloro che hanno ottenuto una risposta negativa). Una stima piuttosto attendibile parla comunque di 174 mila (dati Ministero dell’Interno aggiornati al 20 marzo 2017), non tutti sono richiedenti asilo, alcuni sono già rifugiati (e quindi rientrano nei dati forniti sopra) mentre altri sono immigrati irregolari  in attesa di espulsione. Per semplificare un poco la situazione ipotizziamo che quei 174 mila siano tutti richiedenti asilo; anche perché il dato potrebbe anche risultare credibile dato che nel 2016 ci sono state 123 mila domande di richiedenti asilo, altre 83 mila nel 2015, mentre oltre 18 mila sono arrivate nel 2017 (dati al 20 marzo). Si parla di un totale di 220 mila persone, di cui è da tenere in conto che una parte sia già fuori dal sistema o perché ha avuto un riscontro alla domanda oppure perché di loro spontanea volontà hanno lasciato il Paese.

Sommando questi 174 mila ai 5,4 milioni che abbiamo contato prima arriviamo al numero di 5,6 milioni.

I problemi arrivano quando si deve calcolare il numero di quelli che vengono definiti “clandestini”, quanti sono esattamente?

Qui è più difficile di fornire dati certi e spesso si tende a sovrastimare il numero degli immigrati irregolari.

Va detto che qui il dato è più difficile da ottenere per tutta una serie di motivi, pur esistendo un registro dei clandestini non tutti sono stati ancora registrati e quindi non possiamo avere un numero certificato, ma si possono fare solo delle stime.

La fondazione ISMU riporta l’ultimo dato utile al 1 gennaio 2016, parla di una stima pari a 435 mila immigrati irregolari presenti su territorio italiano, l’8% degli stranieri regolari.

Quindi, sommando questo dato ai 5,6 milioni che avevamo prima, arriviamo a contare circa 6 milioni di migranti, circa il 10% della popolazione italiana. 

Perché dedicare la prima parte di questo articolo solo riportando numeri? Lo so, molti di quelli che leggeranno questo articolo probabilmente al terzo numero citato si sono fermati, ma sono necessari per comprendere meglio il fenomeno e cercare di sviluppare un ragionamento che vada al di là delle due posizioni menzionate sopra e che possa in qualche modo cercare a come ovviare al problema, diversificando gli interventi e le soluzioni.

Allora, partiamo subito dicendo che l’Italia non è in grado di accogliere tutti i migranti che costantemente sbarcano sulle nostre coste, non si tratta di razzismo ma di buonsenso.

L’Italia non è la Francia, la Spagna o la Turchia (tralasciando commenti politici sulle politiche di immigrazione turche): non abbiamo i mezzi e non abbiamo le infrastrutture per poter gestire il flusso di migranti che sbarca sulle nostre coste. Questo nonostante negli ultimi 5 anni l’Europa abbia dato all’Italia per le politiche migratorie una cifra pari a 500 milioni di euro,  soldi che sono stati spesi poco e male (non mi soffermerò su questo aspetto ma rimando a L’Espresso che sul tema ha pubblicato un interessante articolo) motivo per cui l’Europa non è più molto propensa ad aiutare l’Italia nell’emergenza.

Detto questo però una soluzione va trovata semplicemente perché in caso contrario il Paese rischia di esplodere, in preda alle pulsioni razziste non della classe dirigente ma di una popolazione sempre più esasperata da una situazione che rischia di diventare sempre più degradante e di conseguenza sempre più pericolosa, perché la criminalità si sviluppa di norma laddove esiste il degrado.

Escludiamo dalla nostra analisi quelli che sono irregolari perché devono essere rimpatriati per cui è difficile pensare che si possa applicare per loro una politica di integrazione  dato che si parla di immigrati che devono essere espulsi.

Le politiche di integrazione devono essere indubbiamente migliorate: innanzi tutto vanno attivate dei corsi che consentano ai migranti di studiare ed apprendere la lingua italiana, condizione primaria e necessaria per l’integrazione; la lingua è il primo passo per l’integrazione, senza la lingua non esiste integrazione.

Secondo passo deve essere un corso di educazione civica, che possa insegnare ai migranti quelle che sono le leggi e le regole che devono rispettare una volta entrati sul nostro territorio, se quelle regole non vengono rispettate pagano con la legge così come pagano gli italiani (qui subentra il discorso della certezza della pena ma non è tempo e luogo per affrontare il discorso), e la pena per il crimine può essere anche il rimpatrio (ovviamente si parla di quei migranti regolari che possono essere rimpatriati).

Dopo tutti questi passaggi obbligatori, pena l’espulsione, è necessario che in tempo relativamente breve trovino un lavoro regolarmente pagato con cui si possano mantenere ed in caso di stipendio adeguato pagare anche le tasse su territorio italiano, contribuendo in questo modo al benessere del Paese.

Successivamente, quando saranno pienamente integrati potranno anche avere diritto di voto.

Si tratta di un procedimento particolarmente lungo ma necessario se lo scopo vuole essere quello di integrare per arrivare alla costruzione di una società pienamente multirazziale e pienamente integrata, che sia in grado di evitare fenomeni di razzismo e di ghettizzazione sugli immigrati, che potranno anche avere il telefono all’ultima moda (concesso evidentemente dallo Stato con quei soldi che dovrebbero essere usati per altro) ma che poi sono abbandonati a loro stessi,  senza conoscere la lingua, costretti a dormire in veri e propri ghetti e spesso portati a delinquere anche per mancanza di alternative.

Non si tratta di essere favorevoli perché “ci pagano le pensioni” (come ha detto qualcuno), intanto perché non è vero, poi perché questa frase li pone nella condizione non di essere cittadini ma di essere “numeri”, “forza lavoro” (il fatto che una cosa simile la abbia detto un esponente della sinistra la dice lunga sullo stato delle cose a sinistra), mentre invece sono “individui”.

Il primo passo è stato quello di regolamentare i figli degli immigrati che hanno compiuto un ciclo di studi in Italia, ora si tratta di regolamentare tutti quelli che, pur essendo perfettamente integrati nel sistema italiano non vengono ancora percepiti come italiani e quindi non hanno né diritti né doveri del cittadino italiano (per cui tecnicamente non possono nemmeno essere arrestati o processati nel nostro tribunale perché non soggetti alla legge italiana).

Chiudo con una piccola curiosità:  questa immagine compare spesso come risposta alla frase “aiutiamoli a casa loro”, forse sorprenderà sapere che i siriani che hanno chiesto asilo politico in Italia sono appena 2451, il Paese europeo che ne ha accolti di più è stata la Svizzera, che ne ospita 11.974. 

Il resto dei siriani che sono fuggiti dalla guerra non hanno mai abbandonato il Medio Oriente e sono circa 4 milioni quelli che sono emigrati verso Libano, Iraq, Giordania, Egitto e Turchia.

Ovviamente l’argomento è molto vasto e credo che ci torneremo molto spesso, cercando di affrontare l’argomento in modo costruttivo e propositivo, come sempre si cerca di fare su questa pagina, cercando anche di fare una storia di quelli che sono i flussi migratori, sperando possa servire per contribuire a vedere lo straniero non come un “nemico” e nemmeno come una “risorsa” ma come un “uomo”, un “individuo” così come lo siamo noi.

 

Senza Rete

photo

Sono mancato per un poco su queste pagine, vero?

Non so quanti mi leggessero, o quanti avessero la costanza di seguire le mie elucubrazioni mentali , ma in questi mesi che sono mancato avevo anche pensato di dare una evoluzione al mio blog, fare una pagina che parlasse più di me, di quello che sono, avrei voluto, ma sino a questo momento non ho potuto farlo.

Perché direte?

Perché ad agosto di quest’anno ho cambiato casa, sono andato a vivere al centro storico e prima di farlo avevo chiamato la società telefonica della Tim per sapere se era possibile avere la connessione internet.

Le prime risposte sono state rassicuranti,  era solo questione di giorni e poi avrei avuto la connessione.

Bene, da quel momento inizia un calvario che ancora oggi non ha fine.

La società telefonica della Tim dopo sette mesi di ripetuti contatti, richieste, promesse evase, appuntamenti non rispettati, telefonate  a prese in giro non solo non ha ancora installato la connessione ma non si capisce nemmeno se sono in grado di attaccarla.

Ma andiamo con ordine, partendo dal mese di settembre, quando tutta questa storia ha inizio.

LA RETE LA METTE SOLO TELECOM (?)

Tutto inizia quando inizio a girare per avere una connessione a casa.

Dopo aver contattato la Tim per chiedere se fosse possibile avere la rete e fissare un appuntamento con un tecnico con l’installazione ricevo nel mese di settembre una visita del tecnico che mi spiega in maniera piuttosto chiara che non è possibile mettere la rete perché la Tim non ha spazio nelle cabine in quel momento, quindi la mia unica alternativa sarebbe quella di contattare la Tim e chiedere la possibilità di avere una cabina dove poter collegare la rete oppure aspettare che si liberi la Rete.

Dopo la visita del tecnico inizio a sentire altri operatori telefonici: Fastweb, Libero, Vodafone, e tutti danno la stessa risposta: senza la Tim che mette la Rete non è possibile intervenire, perché la sola compagnia che ha il monopolio della messa in posa degli impianti è proprio la Telecom (o Tim) ed allora da qui il primo problema: se una sola compagnia ha in mano il monopolio dell’intero mercato delle infrastrutture, come può avere interesse a metterti l’impianto sapendo che io posso cambiare operatore? E non solo, chi mi dice che questo loro comportamento non serva per far scadere offerte vantaggiose della concorrenza? Ma questo tralasciamolo, limitiamoci a riportare i fatti.

Siamo a settembre, dunque.

A dicembre scopro che il solo modo per avere la connessione è fare richiesta alla Tim della cabina, lo comunico alla mia amministrazione di condominio che prontamente chiama il reparto tecnico della Tim per posizionare la cabina all’interno del palazzo condominiale.

Nel frattempo vengo contattato di nuovo dalla Tim (Ufficio commerciale) che mi consiglia di accettare l’offerta comunque per bloccarla nonostante non abbia ancora la rete (un pò come comprare il casco prima di comprare la moto in attesa che la moto arrivi), tanto ci vogliono massimo “due mesi” perché tutti i lavori vengano portati avanti, ed in effetti ci sono voluti due mesi, per mettere la cabina.

Nel mese di febbraio effettivamente avevo la cabina posizionata, pronta per essere posizionata e per essere utilizzata con la mia bellissima offerta Telecom: avrei finalmente potuto navigare, tornare a lavorare occupandomi di programmazione e social network , tralasciando quello che era l’aspetto ludico, perché ormai senza connessione non si vive, tanto che “la libertà di accesso alla Rete” viene tutelata da un comma dell’art. 21 della Costituzione come un “diritto dell’individuo”.

Ovviamente alla compagnia telefonica di bandiera di tutto questo non frega niente per cui ce ne freghiamo anche noi ed andiamo avanti con il racconto.

Dunque, dopo aver messo la cabina contatto il 187 (numero del servizio  clienti) e vengo rassicurato: entro il mese di marzo dovrei avere la connessione.

Siamo nel mese di aprile inoltrato (quasi a maggio) e non solo non si vede ancora la connessione ma non si vede all’orizzonte nemmeno la possibilità di averla nonostante le ripetute sollecitazioni da parte mia, rassicurazione da parte loro,  altri appuntamenti con tecnici mancati (addirittura più di una volta o sono stato costretto a chiamare io il Servizio Clienti per sapere che il loro appuntamento era saltato oppure venivo a sapere dell’appuntamento DOPO che questo era stato effettivamente fissato a mia insaputa).

Ovviamente la Tim ha messo a disposizione due numeri di telefono, uno quello della sede legale l’altro della sede amministrativa: due numeri inesistenti che rimandano al 187, ovviamente senza averti detto nulla.

In questi otto mesi non sono riuscito a parlare con  un tecnico, un dirigente, un contatto utile, mi sono trovato spesso a dover parlare con operatori di Call Center che non solo non conoscono la situazione ma in alcuni casi mi hanno anche chiamato per offrirmi di passare a Tim (!).

Perché succede questo?

MA perché la Tim ha subbalpaltato la gestione del servizio clienti a compagnie di call center che non sono in grado di risolvere i problemi ma che hanno il solo compito di “rabbonire” il cliente senza offrire alcuna soluzione.

Quindi io mi trovo costretto a spendere almeno 30/50 euro dal telefono perché sono costretto a lavorare dall’Hotspot del telefono cellulare (quello non Tim però, ed un giorno parleremo anche della telefonia in generale perché anche quello è un mondo tutto da scoprire).

Dunque tornando a noi: siamo al mese di aprile e da almeno due settimane la Tim continua a non fornire risposte alle mie richieste di attivazione della Rete ed ovviamente evitando accuratamente di ammettere le proprie responsabilità di quella che è una vera e propria presa in giro ai danni di chi vorrebbe tanto avere la connessione.

Probabile che alla fine ceda e cambi operatore,  ma non credo che nel momento in cui succeda se mi chiedono una rete buona possa dire “Passa a Telecom, sicuramente ti troverai bene”

 

Italia in recessione, per la terza volta

In questa torrida estate italiana, mentre tutta la politica sembra essere concentrata sui referendum e sul rimpallarsi offese su chi possa essere più conservatore e progressista di chi, l’economia italiana fa segnare ancora dati negativi: nella migliore delle ipotesi la crescita industriale sarebbe pari a zero, nella peggiore delle ipotesi andrebbe sotto segnando per l’ennesima volta un dato negativo a ridosso dell’estate e prima della ripresa dell’attività politica del Paese a settembre.

Secondo gli ultimi dati emersi dalla ricerca Istat il PIL rimane invariato, crescendo dello 0,7% rimanendo invariato rispetto allo scorso anno.

Va fatto notare che le previsioni di crescita del Prodotto Interno Lordo erano già piuttosto modeste ad inizio anno, visto che Confindustria ipotizzava una crescita di appena lo 0,15% mentre altri (molto più pessimisti) pensavano ad una crescita dello 0,2%.

Il Governo cerca di dare la colpa alla congiunzione internazionale, alla recessione europea, al Brexit ed al terrorismo, ma come “scusanti” non reggono.

Sebbene la crescita sia rallentata nell’intera eurozona raggiunge pur sempre un modesto 0,3% (poco ma meglio di zero verrebbe da dire) escludendo la Gran Bretagna che dopo il Brexit ha avuto una crescita pari allo 0,6%.

I sindacati iniziano ad essere sul piede di guerra, soprattutto la Cisl, che per bocca della sua segretaria Anna Maria Furlan chiede al Governo che investimenti pubblici vengano svincolati dai parametri rigidi applicati per far quadrare i conti del bilancio, chiedendo anche la riduzione delle tasse necessarie per far ripartire soprattutto le piccole e medie imprese e far crescere in questo modo i consumi drammaticamente bassi.

Riduzione che appare piuttosto complicata, visto che il debito pubblico ha raggiunto l’ennesimo livello record di 2.2248,8 miliardi di euro, aumentando di 7 miliardi rispetto al mese precedente e non consentendo al Governo di poter prendere misure economiche capaci di incentivare la crescita.

Insomma, appare lontano (Anzi lontanissimo) quel 1,2% che il Governo aveva promesso ad inizio anno parlando della crescita industriale del Paese.

Se a questo aggiungiamo che il 97% degli italiani (in termini numerici sono 9 italiani su 10!) sono più poveri dei loro genitori abbiamo di fronte un quadro davvero desolante per il futuro del Paese, ed è anche molto difficile ipotizzare una ripresa soprattutto perché con redditi così bassi non crescono i consumi ma perché sempre più famiglie sono costrette ad impoverirsi per mantenere i figli che non hanno lavoro e quando lo hanno sono costretti a lavorare con orari massacranti e redditi inferiori a quelli dei loro genitori.

Lo stipendio medio di un italiano è di 850/900 euro mensili (quando si guadagna “bene” va fatto notare) ed un affitto di una casa arriva a costare tra i 750/1000 euro, superando i mille abbondantemente quando si tratta di affitto nelle grosse città (a Roma per dire a 700 euro è difficile anche trovare un monolocale in periferia a questa cifra) ovvio che ci siano sempre più case vuote, le imprese chiudono, il denaro non circola ed il Paese non cresce.

La situazione di incertezza dell’economia italiana porta con sé tutta una serie di problemi per le giovani generazioni, costrette a rimandare il proprio futuro a data da destinarsi alzando di fatto il livello dell’età media italiana e abbassando la natalità del Paese, portando alla chiusura di scuole per mancanza di alunni, all’impoverimento ed alla precarizzazione degli insegnanti che non possono essere chiamati a lavorare nelle scuole per mancanza di studenti, ad un blocco drammatico del mercato immobiliare – con 500 euro mensili diventa difficile andare a vivere da soli e poter dire di essere “autonomi” – e costringendo un’intera generazione ad emigrare per sperare di trovare un lavoro – nella maggior parte dei casi non si tratta nemmeno del lavoro dei sogni ma di un “accontentarsi” di un lavoro qualunque che produca un reddito maggiore di quello che viene prodotto in Italia.

Va decisamente meglio a quelli che hanno delle lauree specialistiche, che spesso e volentieri riescono a trovare dei buoni posti di lavoro all’estero e che non tornano in Italia abbassando drammaticamente il livello della nostra classe dirigente (non solo quella politica ma anche quella imprenditoriale) e portando al paradosso di incarichi che anni ruotano attorno alle stesse persone ormai più vicine ai settant’anni che ai quaranta.

Per uscire dalla crisi lo Stato italiano dovrebbe farsi imprenditore (non facendo i soliti regali agli amici degli amici), incentivando le assunzioni attraverso una seria politica di sgravi fiscali (non con una riforma del lavoro che precarizza i lavoratori limitando i diritti che in molti casi saranno licenziati non appena finiranno le agevolazioni fiscali per chi assume), incentivare i consumi abbassando la tasse (su tutte la tanto odiata IVA al 21% vero e proprio ostacolo a chi in Italia vuole essere imprenditore) e soprattutto abbassando le tasse.

Ovviamente per poter fare queste misure andrebbero ridotti drasticamente i costi della politica, rendendo ad esempio meno burocratico l’apparato politico italiano, un vero e proprio carrozzone fatto non solo da politici ma anche da dirigenti e consulenti pagati milioni di euro per una singola consulenza o smettendola di sperperare soldi per fare favori quando invece si potrebbe trovare una soluzione che punti al risparmio.

Alla fine si torna sempre al discorso della “nuova classe dirigente”, non nuova anagraficamente ma nelle idee, nelle proposte e nella capacità di trovare una soluzione ai problemi quando si pongono.

L’alternativa potrebbe essere solo quella del caos politico modello spagnolo – dove per la terza volta in un anno probabilmente si tornerà a votare perché nessuno dei partiti ha la maggioranza per governare – ed un tracollo economico simile a quello greco che con il peggiorare delle condizioni economiche del cittadino medio e con la crisi stagnante della nostra economia sta diventando sempre più difficile impedire.

Per dare una vaga idea del dramma economico del nostro Paese mando il link dell’Istituto Bruno Leoni, che analizza istante per istante la crescita del debito pubblico in Italia, date un’occhiata ogni tanto.

http://www.brunoleoni.it/il-debito-pubblico-sul-tuo-sito