La attuale crisi politica in corso è solo l’ultima di una serie politiche che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni.
Dal Governo Monti in poi (2011-2013) abbiamo vissuto a fasi alterne una crisi di governo dietro l’altra e la sensazione costante di una profonda instabilità politica.
Complice una serie di legge elettorali (prima il cosiddetto Porcellum e poi il Rosatellum in funzione oggi) abbiamo vissuto come cittadini la politica nella più totale delle incertezze.
In questo profondo guado di crisi continue abbiamo diversi protagonisti in negativo, ma la mia attenzione oggi vorrebbe soffermarsi su uno di questi interlocutori: quel Partito Democratico nato nel 2007 con la narrazione del “partito a vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria e terminato in maniera ingloriosa nell’ultima esperienza a fare da ruota di scorta al Movimento Cinque Stelle (quello stesso Movimento Cinque Stelle che sino ad un anno fa accusava il PD di essere il “partito di Bibbiano”).
La lenta e progressiva (ed a mio avviso ancora non completata) trasformazione del Partito Democratico da “partito delle istituzioni” in “partito populista” ha portato ad un generale crollo della politica in Italia, da un lato aprendo la strada proprio al Movimento Cinque Stelle e dall’altra parte spalancando le porte al sovranismo della Lega di Matteo Salvini da una parte e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
In questo articolo cercheremo di suddividere la fase storica del Partito Democratico in tre momenti, tre occasioni perse per poter davvero cambiare la politica.
Il primo momento su cui ci dobbiamo soffermare è la nascita stessa del Partito Democratico, nato su spinta di Walter Veltroni a seguito della crisi di Governo dell’ultimo Governo Prodi del 2008.
Sin dalla sua nascita il Partito Democratico avrebbe dovuto avere due obiettivi: completare il processo di costruzione di una “sinistra istituzionale” da una parte e dall’altra completare il processo di superamento della fase “post-comunista” iniziato con il Congresso del 1992 e la nascita del Partito Democratico della Sinistra.
Ricordo ancora che in quei giorni militavo nei Democratici di Sinistra e mentre si apprestava il Congresso rispondevo alla domanda che molti miei amici mi ponevano (la domanda era “è davvero necessario?”) spiegando quali erano le ragioni di una simile scelta politica e quello che volevamo fare e che cosa proponevamo.
Un partito che fosse di sinistra, ma che allo stesso tempo fosse in grado di aprirsi ai movimenti ed alle realtà locali, come Arci, Anpi, associazioni varie di cittadini e tutte quelle realtà che si muovevano al di fuori della realtà politica dei partiti.
Il Partito avrebbe dovuto essere il punto di raccordo tra la società che stava cambiando e le istituzioni che invece faticavano ad accettare e comprendere quel cambiamento.
Un partito plurale, aperto alle novità, difensore di ogni forma di diversità sia essa di sesso, religione, colore di pelle ceto sociale. Allo stesso tempo il partito avrebbe dovuto portare avanti una battaglia per abolire il precariato dal mondo del lavoro (in seguito si sarebbe parlato di redistribuzione della ricchezza) e tutela dei lavoratori, pensando però allo stesso tempo di allargare le forme di tutela anche e soprattutto alla piccola e media impresa che sino a quel momento non era stato mai considerato “parte del mondo del lavoro”.
Il progetto iniziale del Partito Democratico era dunque quella vecchia idea di “superare” il conflitto tra capitale e lavoro e di conseguenza costruire una sinistra che potesse essere parte del cambiamento della globalizzazione allora al suo massimo. L’idea di per sé non era sbagliata, l’errore è stato considerare che si potesse fare “superando le ideologie” senza rendersi conto che senza ideologia non fosse possibile cambiare le cose. Lo stesso liberismo di per sé è un’ideologia, non si può parlare di fase post ideologica facendo riferimento ad una singola ideologia.
Questo il primo errore. Il secondo (commesso sempre nella fase iniziale del partito) è stato pensare di poter cambiare le istituzioni dall’interno, o meglio ancora di poterlo fare da soli.
La vocazione maggioritaria delle elezioni del 2008 si è scontrato con la coalizione di centrodestra (che pur avendo dato vita al Popolo delle Libertà rimaneva una coalizione di Governo contro un singolo partito). Il risultato fu comunque degno di nota: al suo primo mandato il PD ottenne il 34% dei voti, una buona iniezione di fiducia per un partito alla prima prova elettorale.
L’idea di Pierluigi Bersani era piuttosto semplice: riportare indietro le lancette del partito, mettendo in piedi un progetto più vicino alla socialdemocrazia classica che non al kennedysmo di ispirazione veltroniana (tutto in salsa italiana) cercando allo stesso tempo di tenere in piedi il rapporto con la parte cattolica, rapporto che stava seriamente iniziando a logorarsi.
Quando è riuscito a rimettere in piedi il partito Bersani ha deciso di fare il passo successivo: la foto di Vasto, quella con Nichi Vendola e Antonio di Pietro avrebbe dovuto essere l’architrave su cui ricostruire un progetto di centrosinistra in vista delle prossime elezioni. Insomma, abbandonata ogni vocazione maggioritaria il Partito decideva di tornare alle alleanze (sebbene ristrette). Eravamo a cavallo della caduta del Governo Berlusconi e molti a sinistra sognavano la “spallata” a Berlusconi, sognavano finalmente di poter sconfiggere politicamente il nemico di sempre e tornare al Governo con un centrosinistra unito.
Seconda occasione perduta: al momento di decidere se andare al voto anticipato o sostenere il Governo tecnico proposto da Napolitano il PD decise di sostenere il Governo Monti. Certo, si disse che all’epoca fosse necessario ma questa rimane forse una delle pagine più strane della storia del Partito Democratico: l’appoggio acritico a molti dei provvedimenti del Governo Monti portò ad un progressivo allontanamento delle masse popolari dal partito (e soprattutto delle masse di lavoratori) che lentamente iniziarono a migrare verso altri lidi. Allo stesso tempo, il lento logorio a cui era soggetto il PD non faceva che rafforzare Berlusconi che riuscì a far passare sé stesso prima come vittima di una congiura di Palazzo poi come Salvatore della Patria dalla macelleria sociale del Governo Monti.
Risultato? Alle elezioni in Partito Democratico crolla a pochi metri dal traguardo prendendo il 21% così come il PDL e soprattutto come il Movimento Cinque Stelle. A questo punto Bersani entra nel pallone: convinto di poter governare con i Cinque Stelle in una patetica (quanto inutile) diretta streaming viene preso in giro tutto il tempo da Beppe Grillo che non ha nessuna intenzione di andare a governare. Del resto il Movimento Cinque Stelle era al suo primo mandato elettorale, nessuno dei parlamentari entrati aveva un minimo di esperienza di un’aula parlamentare e piuttosto difficilmente Grillo sarebbe riuscito a controllare i suoi se si fossero alleati con il Partito Democratico.
Le elezioni del 2013 coincidono anche con la scadenza del mandato del Presidente della Repubblica eletto, Giorgio Napolitano e il Partito Democratico ha di nuovo il mandato per poter rinnovare il Paese.
Quando si doveva decidere il nome per il Presidente della Repubblica, il primo nome che venne fatto fu quello di Franco Marini, un nome che non era destinato a scaldare la platea e che infatti non passò (lo stesso Segretario del PD Matteo Renzi lo bocciò subito). Il secondo nome fu quello di Romano Prodi (Anche questo bocciato). Niente male, due delle figure più importanti del Partito Democratico bocciati in poco meno di una votazione.
Tutto mentre Bersani aveva in mano l’arma per stanare i Cinque Stelle ed allo stesso tempo dare quel segnale di innovazione politica che aveva promesso in campagna elettorale, bastava un nome: Stefano Rodotà. Ma quel nome non venne fatto e si decise di rieleggere Napolitano.
La terza occasione persa era stata poco prima di questo evento, un anno prima per la precisione. Il Partito Democratico aveva presentato due candidati alle primarie di primo livello: l’astro nascente del Partito Matteo Renzi e Pierluigi Bersani. Le idee di Renzi nelle primarie del 2012 erano innovative, si parlava di riforma del mercato del lavoro (non di Jobs Act, quello arriverà dopo), si parlava di scuola, si parlava di riformare la politica. Certo, la parola “rottamazione” non piaceva, ma era una rottura, un segnale importante per una politica immobile su posizioni antiche e vecchie.
Sappiamo come è finita l’esperienza di Renzi al Governo: il Jobs Act, la frantumazione del PD e la scissione, la mancanza di una classe dirigente all’altezza ha completato l’opera di distruzione del partito democratico iniziata probabilmente sin dalla sua nascita.
L’idea di costruire una forza liberal-democratica ormai è completamente fallita e nemmeno Matteo Renzi sembra essere in grado di rimettere in moto quel progetto, quel sogno.
Che fare allora? Dobbiamo rassegnarci a dover votare per altri anni per il meno peggio? Oppure dobbiamo impegnarci tutti per ricostruire il Paese partendo proprio dal ridare dignità alla politica?
Per rimettere in modo il Paese abbiamo bisogno di ridare vita ad un progetto politico che rimetta al centro il sogno italiano, quel sogno italiano degli anni del boom, quel sogno italiano che era nelle intenzioni di chi, nell’Ottocento sognava di ricostruire una nazione che per anni era stata calpestata e divisa.
Non abbiamo più tempo, non avremo altre occasioni per costruire qualcosa di nuovo in Italia, non avremo più tempo per ridare dignità ad un popolo che la sta sempre più perdendo.
La politica deve essere al servizio dei bisogni del cittadino, e non il cittadino al servizio della politica.
Possiamo uscire dalla crisi, questo articolo è un appello ai volenterosi, a tutti coloro che hanno voglia e visione per cambiare davvero le cose, cercherò di usare queste pagine per scrivere altre linee guida, altri progetti e altre idee. Anche se resterò da solo, anche se riuscirò a cambiare solo una sola persona, una sola visione, io continuerò a battermi, perché credo ancora nell’Italia e negli italiani.
Dio benedica l’Italia.