La Sinistra europea: dall’internazionalismo al “globalismo”

La crisi della Sinistra (intesa come blocco politico sociale) ha radici profonde.

Secondo alcuni la crisi risale al biennio 1989-1991.

Il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine dell’Unione Sovietica (1991) avrebbe messo in luce tutti i limiti della visione marxista-leninista della società e segnando definitivamente la fine delle illusione della possibilità di realizzare una società comunista fondata sull’utopia dell’uguaglianza.

Quasi tutti i partiti comunisti occidentali hanno scelto di abbandonare la visione utopica del marxismo che si proponeva di superare il modello imposto dalla società capitalista per accettare in blocco quelli che erano i principi del capitalismo e della globalizzazione tramutando di fatto il concetto di internazionalismo socialista in globalizzazione universale.

Alla realizzazione distopica dell’uguaglianza socialista hanno sostituito la realizzazione distopica dell’uguaglianza nella globalizzazione accettando in maniera passivamente acritica tutti quei principi e dogmi che sono alla base del capitalismo, illudendosi che globalizzazione volesse dire uguaglianza: non potendo superare le disuguaglianze all’interno del sistema capitalista si è pensato che per rendere tutti uguali bastasse estendere a tutti gli individui della società la possibilità di avere accesso alla merce, strumento con il quale il capitale tende a dare all’individuo l’illusione della libertà (la libertà viene intesa dunque come libertà di accesso alle merci e non come libertà di accesso ai capitali).

Compito delle sinistre dovrebbe essere quello di annullare le differenze economiche redistribuendo la ricchezza, mentre illusoriamente si è pensato che l’obiettivo fosse quello di rendere accessibili le merci, abbandonando completamente il concetto di uguaglianza sociale.

Ammesso e non concesso che questa possa essere considerata come una forma di uguaglianza bisogna tenere a mente che la libera circolazione delle merci non le rende automaticamente accessibile a tutti, anzi nella maggioranza dei casi si tratta di una mera illusione, poiché la merce prodotta dalla globalizzazione (venduta comunque ad un costo più alto di quello che costa per produrla) impoverisce e non arricchisce l’individuo del ceto medio.

Detto in parole povere, il fatto che tutti posseggano un Iphone non significa che tutti sono ricchi ma che alcuni si sono impoveriti indebitandosi per poter avere accesso a quella merce che, illusoriamente lo rende uguale al produttore di quella merce stessa.

La globalizzazione di per se fonda la sua concezione di libertà sulla concessione di maggiori libertà individuali (la libertà sessuale o la libertà di accesso alle merci e non ai mezzi di produzione sono chiari esempi di libertà individuale e non collettiva) restringendo di fatto quelle che sono le libertà collettive (sanità pubblica, scuola pubblica, libera circolazione delle idee e dei saperi).

La scelta di una (parte) della sinistra di cercare di governare i processi della globalizzazione si è rivelata fallimentare: i processi della globalizzazione (così come quelli del capitalismo) se lasciati liberi sono strutturati per alimentare quello che Marx definiva conflitto di classe, allo stesso modo la sinistra “radicale” (quella che si richiama ai principi del socialismo di stampo sovietico) ha commesso l’errore di sostituire la classe operaia con la classe minoranza il che non ha semplicemente congelato quello che doveva essere il dibattito necessario per costruire un nuovo modello di sinistra.

Una sinistra che non si propone si superare il capitalismo ma che sfrutta il capitalismo per eliminare le disuguaglianze create dal capitalismo stesso, superando così un modello di globalizzazione sostanzialmente sbagliato.

Cercheremo con i prossimi articoli di delineare un futuro possibile, un modo per ripensare le strategie e delle politiche della “sinistra moderna”.

2022, l’anno che verrà (idee per un socialismo moderno)

Gli eventi da cui voglio partire per il solito articolo di prospettive per il 2022 sono due: la prima, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, conferenza in cui il Presidente del Consiglio de facto decide di buttare là la sua nomina a prossimo Presidente della Repubblica.

Quella definizione di “nonno d’Italia al servizio delle istituzioni” sembra essere quasi un richiamo ad altri nonni d’Italia: Sandro Pertini, Francesco Cossiga (il nonno esuberante è un po’ matto), Oscar Eugenio Scalfaro (il nonno severo), Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Questa dichiarazione, se unita al fatto che lo stesso Mario Draghi sostiene che la attuale maggioranza possa andare avanti anche senza di lui (magari trovando una figura altrettanto autorevole per guidare il Governo sino alla fine della legislatura, un nome su tutti quello di Marta Cartabia, attuale Ministro della Giustizia e già membro della Corte Costituzionale), possiamo ipotizzare uno scenario in cui Draghi viene eletto Presidente della Repubblica e nomina il Presidente del Consiglio.

Siamo di fronte a quella che potrebbe essere una svolta epocale nel modo di intendere la politica italiana, una svolta che allo stesso tempo rischia di creare un pericoloso “corto circuito costituzionale” dove il Presidente della Repubblica viene nominato dal Parlamento che presiede e decide il suo successore senza passare dalle urne.

Si arriverebbe insomma ad un semi-presidenzialismo senza elezione diretta del Presidente e senza elezione del Parlamento. Semmai dovesse verificarsi uno scenario simile servirebbero alle due presidenze due figure di alto spessore costituzionale e politico in grado di guidare una svolta che deve necessariamente passare da una riforma costituzionale.

Arrivare al semi-presidenzialismo sarebbe una svolta per un Paese come l’Italia, da anni ingessato in un sistema come quello parlamentare spesso ancorato ad una visione della politica di impronta gattopardesca dove “tutto cambia per non cambiare niente”.

E qui arriviamo al secondo evento della settimana: la vittoria di Boric, candidato socialista alle elezioni in Cile.

Ora, la domanda che ci si potrebbe porre è: che correlazione esiste tra i due eventi? Apparentemente nessuna, ma se cerchiamo di dare una lettura “alternativa” a questa notizia possiamo cercare di stilare una lista di buoni propositi per la sinistra italiana.

La vittoria in Cile di un candidato socialista dimostra senza alcuna ombra di dubbio che le idee socialiste non sono morte ma anzi possono ancora convincere una larga parte di popolazione a votare per una parte politica che a quei principi si richiama.

Prenda lezione il Partito Democratico: accanto alle battaglie sociali (giustissime) bisogna portare avanti anche quelle battaglie politiche ed economiche che sono alla base della costruzione di uno stato ispirato da principi socialisti: redistribuzione della ricchezza, diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto alla salute, diritto alla libertà di scelta, tutte battaglie che negli ultimi anni sembrano essere state abbandonate dal Partito Democratico impegnato nel tentativo di “umanizzare la globalizzazione”.

Va ammesso – come già sostiene Massimo D’Alema – che la globalizzazione non può essere umanizzata, non si tratta di un processo economico a favore delle masse, ma si tratta di un sistema economico fondato sull’individualismo, sul processo di homo homini lupus.

La sinistra deve recuperare il senso della collettività, rimettere il “noi” al centro della politica dopo che per anni ha portato avanti battaglie incentrate sul concetto di “io”.

La sinistra deve ritrovare la sua strada, ripartire da quella che definisco essere la “trilogia dei Maestri della sinistra”: Gaetano Azzariti, Mariana Mazzuccato e Thomas Piketty.

Si riparta da questi tre pensatori per rimettere al centro un forte pensiero ideologico, in grado di giustificare le scelte politiche e conquistare voti.

Si riparta da alcune idee base, dalla ricostruzione del pensiero socialista, invece che continuare con la sua distruzione perché si cerca di inseguire la destra per occupare il centro.

Per il nuovo anno insomma, si lavori alla costruzione sì della nuova Italia, ma anche di una nuova sinistra che possa assumere la guida di quel processo di transizione del Paese, una sinistra che riparta da una delle idee più semplici della politica, che poi è una delle idee più belle del socialismo: “indietro non resti nessuno”.

Buone Feste e Hasta la victoria, Siempre!

Il Partito democratico, ovvero la politica delle occasioni perdute e le prospettive per cambiare

La attuale crisi politica in corso è solo l’ultima di una serie politiche che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni.

Dal Governo Monti in poi (2011-2013) abbiamo vissuto a fasi alterne una crisi di governo dietro l’altra e la sensazione costante di una profonda instabilità politica.

Complice una serie di legge elettorali (prima il cosiddetto Porcellum e poi il Rosatellum in funzione oggi) abbiamo vissuto come cittadini la politica nella più totale delle incertezze.

In questo profondo guado di crisi continue abbiamo diversi protagonisti in negativo, ma la mia attenzione oggi vorrebbe soffermarsi su uno di questi interlocutori: quel Partito Democratico nato nel 2007 con la narrazione del “partito a vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria e terminato in maniera ingloriosa nell’ultima esperienza a fare da ruota di scorta al Movimento Cinque Stelle (quello stesso Movimento Cinque Stelle che sino ad un anno fa accusava il PD di essere il “partito di Bibbiano”).

La lenta e progressiva (ed a mio avviso ancora non completata) trasformazione del Partito Democratico da “partito delle istituzioni” in “partito populista” ha portato ad un generale crollo della politica in Italia, da un lato aprendo la strada proprio al Movimento Cinque Stelle e dall’altra parte spalancando le porte al sovranismo della Lega di Matteo Salvini da una parte e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

In questo articolo cercheremo di suddividere la fase storica del Partito Democratico in tre momenti, tre occasioni perse per poter davvero cambiare la politica.

Il primo momento su cui ci dobbiamo soffermare è la nascita stessa del Partito Democratico, nato su spinta di Walter Veltroni a seguito della crisi di Governo dell’ultimo Governo Prodi del 2008.

Sin dalla sua nascita il Partito Democratico avrebbe dovuto avere due obiettivi: completare il processo di costruzione di una “sinistra istituzionale” da una parte e dall’altra completare il processo di superamento della fase “post-comunista” iniziato con il Congresso del 1992 e la nascita del Partito Democratico della Sinistra.

Ricordo ancora che in quei giorni militavo nei Democratici di Sinistra e mentre si apprestava il Congresso rispondevo alla domanda che molti miei amici mi ponevano (la domanda era “è davvero necessario?”) spiegando quali erano le ragioni di una simile scelta politica e quello che volevamo fare e che cosa proponevamo.

Un partito che fosse di sinistra, ma che allo stesso tempo fosse in grado di aprirsi ai movimenti ed alle realtà locali, come Arci, Anpi, associazioni varie di cittadini e tutte quelle realtà che si muovevano al di fuori della realtà politica dei partiti.

Il Partito avrebbe dovuto essere il punto di raccordo tra la società che stava cambiando e le istituzioni che invece faticavano ad accettare e comprendere quel cambiamento.

Un partito plurale, aperto alle novità, difensore di ogni forma di diversità sia essa di sesso, religione, colore di pelle ceto sociale. Allo stesso tempo il partito avrebbe dovuto portare avanti una battaglia per abolire il precariato dal mondo del lavoro (in seguito si sarebbe parlato di redistribuzione della ricchezza) e tutela dei lavoratori, pensando però allo stesso tempo di allargare le forme di tutela anche e soprattutto alla piccola e media impresa che sino a quel momento non era stato mai considerato “parte del mondo del lavoro”.

Il progetto iniziale del Partito Democratico era dunque quella vecchia idea di “superare” il conflitto tra capitale e lavoro e di conseguenza costruire una sinistra che potesse essere parte del cambiamento della globalizzazione allora al suo massimo. L’idea di per sé non era sbagliata, l’errore è stato considerare che si potesse fare “superando le ideologie” senza rendersi conto che senza ideologia non fosse possibile cambiare le cose. Lo stesso liberismo di per sé è un’ideologia, non si può parlare di fase post ideologica facendo riferimento ad una singola ideologia.

Questo il primo errore. Il secondo (commesso sempre nella fase iniziale del partito) è stato pensare di poter cambiare le istituzioni dall’interno, o meglio ancora di poterlo fare da soli.

La vocazione maggioritaria delle elezioni del 2008 si è scontrato con la coalizione di centrodestra (che pur avendo dato vita al Popolo delle Libertà rimaneva una coalizione di Governo contro un singolo partito). Il risultato fu comunque degno di nota: al suo primo mandato il PD ottenne il 34% dei voti, una buona iniezione di fiducia per un partito alla prima prova elettorale.

L’idea di Pierluigi Bersani era piuttosto semplice: riportare indietro le lancette del partito, mettendo in piedi un progetto più vicino alla socialdemocrazia classica che non al kennedysmo di ispirazione veltroniana (tutto in salsa italiana) cercando allo stesso tempo di tenere in piedi il rapporto con la parte cattolica, rapporto che stava seriamente iniziando a logorarsi.

Quando è riuscito a rimettere in piedi il partito Bersani ha deciso di fare il passo successivo: la foto di Vasto, quella con Nichi Vendola e Antonio di Pietro avrebbe dovuto essere l’architrave su cui ricostruire un progetto di centrosinistra in vista delle prossime elezioni. Insomma, abbandonata ogni vocazione maggioritaria il Partito decideva di tornare alle alleanze (sebbene ristrette). Eravamo a cavallo della caduta del Governo Berlusconi e molti a sinistra sognavano la “spallata” a Berlusconi, sognavano finalmente di poter sconfiggere politicamente il nemico di sempre e tornare al Governo con un centrosinistra unito.

Seconda occasione perduta: al momento di decidere se andare al voto anticipato o sostenere il Governo tecnico proposto da Napolitano il PD decise di sostenere il Governo Monti. Certo, si disse che all’epoca fosse necessario ma questa rimane forse una delle pagine più strane della storia del Partito Democratico: l’appoggio acritico a molti dei provvedimenti del Governo Monti portò ad un progressivo allontanamento delle masse popolari dal partito (e soprattutto delle masse di lavoratori) che lentamente iniziarono a migrare verso altri lidi. Allo stesso tempo, il lento logorio a cui era soggetto il PD non faceva che rafforzare Berlusconi che riuscì a far passare sé stesso prima come vittima di una congiura di Palazzo poi come Salvatore della Patria dalla macelleria sociale del Governo Monti.

Risultato? Alle elezioni in Partito Democratico crolla a pochi metri dal traguardo prendendo il 21% così come il PDL e soprattutto come il Movimento Cinque Stelle. A questo punto Bersani entra nel pallone: convinto di poter governare con i Cinque Stelle in una patetica (quanto inutile) diretta streaming viene preso in giro tutto il tempo da Beppe Grillo che non ha nessuna intenzione di andare a governare. Del resto il Movimento Cinque Stelle era al suo primo mandato elettorale, nessuno dei parlamentari entrati aveva un minimo di esperienza di un’aula parlamentare e piuttosto difficilmente Grillo sarebbe riuscito a controllare i suoi se si fossero alleati con il Partito Democratico.

Le elezioni del 2013 coincidono anche con la scadenza del mandato del Presidente della Repubblica eletto, Giorgio Napolitano e il Partito Democratico ha di nuovo il mandato per poter rinnovare il Paese.

Quando si doveva decidere il nome per il Presidente della Repubblica, il primo nome che venne fatto fu quello di Franco Marini, un nome che non era destinato a scaldare la platea e che infatti non passò (lo stesso Segretario del PD Matteo Renzi lo bocciò subito). Il secondo nome fu quello di Romano Prodi (Anche questo bocciato). Niente male, due delle figure più importanti del Partito Democratico bocciati in poco meno di una votazione.

Tutto mentre Bersani aveva in mano l’arma per stanare i Cinque Stelle ed allo stesso tempo dare quel segnale di innovazione politica che aveva promesso in campagna elettorale, bastava un nome: Stefano Rodotà. Ma quel nome non venne fatto e si decise di rieleggere Napolitano.

La terza occasione persa era stata poco prima di questo evento, un anno prima per la precisione. Il Partito Democratico aveva presentato due candidati alle primarie di primo livello: l’astro nascente del Partito Matteo Renzi e Pierluigi Bersani. Le idee di Renzi nelle primarie del 2012 erano innovative, si parlava di riforma del mercato del lavoro (non di Jobs Act, quello arriverà dopo), si parlava di scuola, si parlava di riformare la politica. Certo, la parola “rottamazione” non piaceva, ma era una rottura, un segnale importante per una politica immobile su posizioni antiche e vecchie.

Sappiamo come è finita l’esperienza di Renzi al Governo: il Jobs Act, la frantumazione del PD e la scissione, la mancanza di una classe dirigente all’altezza ha completato l’opera di distruzione del partito democratico iniziata probabilmente sin dalla sua nascita.

L’idea di costruire una forza liberal-democratica ormai è completamente fallita e nemmeno Matteo Renzi sembra essere in grado di rimettere in moto quel progetto, quel sogno.

Che fare allora? Dobbiamo rassegnarci a dover votare per altri anni per il meno peggio? Oppure dobbiamo impegnarci tutti per ricostruire il Paese partendo proprio dal ridare dignità alla politica?

Per rimettere in modo il Paese abbiamo bisogno di ridare vita ad un progetto politico che rimetta al centro il sogno italiano, quel sogno italiano degli anni del boom, quel sogno italiano che era nelle intenzioni di chi, nell’Ottocento sognava di ricostruire una nazione che per anni era stata calpestata e divisa.

Non abbiamo più tempo, non avremo altre occasioni per costruire qualcosa di nuovo in Italia, non avremo più tempo per ridare dignità ad un popolo che la sta sempre più perdendo.

La politica deve essere al servizio dei bisogni del cittadino, e non il cittadino al servizio della politica.

Possiamo uscire dalla crisi, questo articolo è un appello ai volenterosi, a tutti coloro che hanno voglia e visione per cambiare davvero le cose, cercherò di usare queste pagine per scrivere altre linee guida, altri progetti e altre idee. Anche se resterò da solo, anche se riuscirò a cambiare solo una sola persona, una sola visione, io continuerò a battermi, perché credo ancora nell’Italia e negli italiani.

Dio benedica l’Italia.

Perché abbiamo bisogno della “sinistra”

Premessa

La crisi pandemica che ha colpito il mondo a partire dal mese di marzo del 2020 (e che ancora oggi pare non essere finita) ha messo in crisi – forse per la prima volta – seriamente in crisi l’intero sistema capitalista.

Soprattutto sono stati messi in seria discussione tutti i principi sui cui abbiamo fondato il modello di sviluppo degli ultimi quarant’anni.

A partire dalla fine degli anni Settanta abbiamo assistito l’idea che i mercati finanziari potessero (anzi dovessero) sopravvivere senza il controllo dello Stato ha sempre più preso piede nel mondo occidentale, costruendo un modello di sviluppo capitalista interamente incentrato sul concetto di “profitto” e non sul concetto di “individuo”.

Abbiamo assistito al crollo dell’Unione Sovietica ed alla fine del modello comunista come modello di sviluppo e come conseguenza abbiamo visto come i Partiti Comunisti dell’Europa Occidentale si sono progressivamente sfaldati lasciando spazio ad una serie di realtà che si sono definite “riformiste”.

Partiti che hanno abbandonato la strada del “conflitto di classe” e gli insegnamenti marxisti per andare a cercare una improbabile conciliazione tra “giustizia sociale” e “capitalismo”.

Oggi quel modello riformista è fallito. Il tentativo di conciliare il “capitalismo finanziario” con la “giustizia sociale” ormai ha superato il concetto di utopia e rimane una sintesi irrealizzabile di posizioni tra loro inconciliabili.

In Italia, per esempio, abbiamo assistito alla progressiva cancellazione dei diritti individuali del cittadino e del lavoratore (per fare spazio all’illusione di altri diritti) proprio in nome del capitalismo e del favoritismo al “sistema dei padroni” (per usare una terminologia comunista).

A partire dagli anni Duemila abbiamo assistito alla progressiva distruzione del sistema di welfare attraverso tagli lineari a tutti quelli che erano i settori strategici dello Stato Italiano.

I diritti sono stati, se non cancellati, pesantemente ridimensionati.

I partiti hanno abdicato la loro funzione sociale, sono diventati semplici “comitati elettorali” introdotti in un sistema di logica incentrata sul profitto e sul ritorno economico.

Questo ha portato ad un progressivo aumento della disuguaglianza sociale, ad un ampliamento del conflitto di classe, alla scomparsa di quella che era la classe media che progressivamente si è proletarizzata.

Bisogna decidere di risolvere finalmente quelle che sono le contraddizioni della sinistra: non si può essere a favore dei diritti del lavoratore e allo stesso tempo promuovere i privilegi dei padroni.

Non è il momento di essere moderati e riformisti, ora è il momento di essere rivoluzionari, di pensare ad alternative credibili per essere rivoluzionari, è il momento di abbandonare la “strada riformista” definitivamente fallita e pensare ad un modello alternativo al sistema capitalista.

Ora, è il momento di essere rivoluzionari.

Perché Matteo Salvini rischia di continuare a vincere se la sinistra non cambia sé stessa

Matteo Salvini, Segretario della Lega per Salvini

Tra poco meno di una settimana sapremo se a governare l’Emilia Romagna per i prossimi anni sarà ancora il Partito Democratico o se quella che viene definita la “Regione Rossa” per eccellenza passerà ad essere amministrata dalla Lega di Matteo Salvini.

Secondo molti analisti e giornalisti una sconfitta della sinistra potrebbe essere un colpo mortale anche al governo PD-Cinque Stelle (non lo chiamerò giallo- rosso perché di rosso ha davvero molto poco) ma potrebbe essere anche un colpo notevole alle ambizioni di rinnovamento della sinistra di governo che il Partito Democratico vorrebbe incarnare.

In questo contesto elettorale qualche mese fa è entrato a gamba tesa il “Movimento delle Sardine” nato per “contestare il linguaggio e la politica di Salvini” un movimento che in qualche modo ha suscitato l’entusiasmo di molti (soprattutto a sinistra) perché vedono nel movimento una sorta di risveglio della coscienza civile.

Eppure, nonostante questo, la vittoria della Lega in Emilia non sarebbe poi una possibilità tanto remota.

Partiamo proprio da quella che potrebbe essere la “spinta propulsiva” del Movimento delle Sardine.

Nato come movimento di contestazione a Salvini (dando perlomeno in Emilia precise indicazioni di voto verso Bonaccini) per molti versi manca di quella che si potrebbe definire una “prospettiva più ampia” proponendo delle reali alternative ad anni di politiche sbagliate nel Paese.

Indubbiamente, il fatto che il Partito Democratico voglia dialogare con loro segna una nota di apertura da parte del PD ad aprirsi alla società civile, apertura che però rischia di non bastare. Abbiamo analizzato più volte (a costo di risultare noiosi) quelli che a nostro avviso sono i difetti della sinistra negli ultimi anni per cui non penso sia il caso di tornarci, quello che però possiamo ribadire è che senza una (necessaria) sterzata nella rotta la sinistra in Italia continuerà ad essere fallimentare rispetto ad una destra che riesce a rispondere a quelle che sono le esigenze momentanee del Paese.

Va ripensato il modo stesso di fare politica, come giustamente ha detto Fabrizio Barca, è necessario che un partito che si definisce di sinistra torni ad essere dalla parte degli ultimi, avendo però in mente una chiara visione di quelle che sono le necessità di una popolazione ormai vessata da anni di politiche di austerity imposte dall’Europa e da scelte economico – politiche che hanno portato all’impoverimento del cittadino medio, creando una sorta di estensione della proletarizzazione nel mondo del lavoro.

La completa mancanza di una regolamentazione in quelle che sono le politiche del lavoro degli ultimi anni hanno portato ad un “superamento in negativo” di quella che un tempo era chiamata proletarizzazione della società, attraverso il processo della precarizzazione dei posti di lavoro, problema che il tanto esaltato Jobs Act non ha eliminato, ma lo ha semplicemente regolamentato (togliendo peraltro quelle poche tutele che ancora erano rimaste ai lavoratori).

A questo possiamo anche aggiungere che nel corso degli anni la sinistra ha pensato di poter regolamentare i processi della globalizzazione, pensando di poter costruire una sorta di “liberalizzazione dal volto umano” pensando di essere in questo modo in grado di regolamentare i processi della globalizzazione. Questa strada ha condotto alla nascita di una sorta di “Terza Via” all’italiana (incarnata da Matteo Renzi) il quale ha imposto al Partito Democratico una serie di politiche che potremmo senza esitazione definire provenienti dalla Scuola di Chicago (dove per la prima volta vennero teorizzate le idee liberiste).

Tornare a contare vuol dire ripensare (da parte della sinistra) il modo di pensare la politica e l’economia, pensando ad un sistema che riporti lo Stato al centro dell’economia costruendo quel sistema ipotizzato molto bene da Mariana Mazzuccato nel suo libro Lo Stato Innovatore dove si ipotizza che lo stato stesso possa assumere un ruolo imprenditoriale nella costruzione di un sistema economico basato su principi più equi. Non si tratta di negare il capitalismo o proporne il superamento, ma di ipotizzare un sistema dove alcuni elementi che potremmo definire “socialisti” sono alla base di una regolamentazione di un mercato che se lasciato solo porta all’acutizzarsi delle differenze sociali.

Se la sinistra vuole tornare a vincere, dunque, deve ripartire innanzi tutto dall’elaborare una nuova forma di pensiero, senza scadere da un lato nel suo superamento a destra e dall’altro nella visione di una società nostalgica di un partito (quello comunista) proponendo soluzioni non applicabili o quanto meno di difficile realizzazione.

La sinistra riparta da quelli che sono i suoi pensatori teorici: riparta da Marx, da Gramsci, dalla scuola di Francoforte, perché solo in questo modo sarà in grado di ricostruire un pensiero egemonico forte a sinistra, capace di contrastare Salvini sul suo stesso campo, quello ideologico.

In caso contrario sarà destinata ad essere sconfitta per molte altre elezioni.

Questo avviene non tanto perché gli elettori sono “cretini” (altro vizio che la sinistra radical chic si deve togliere) ma perché – nonostante ritenga Salvini un pessimo politico – in qualche modo riesce a rispondere (in maniera completamente sbagliata) a quelle che sono le esigenze di un elettorato che appare sempre più insofferente verso le imposizioni di un Parlamento, quello europeo, percepito come distante e come “nemico” da parte del popolo.

Prendiamo le politiche sull’immigrazione: a parte il fatto di considerare “razzisti” e “fascisti” tutti coloro che sollevano un logico problema di disagio sociale (l’immissione di immigrati in zone disagiate porta altro disagio) ha spinto parte della popolazione a votare per chi, in modo sbagliato, risponde alla loro domanda non solo di regolamentazione dei flussi migratori ma anche alla lotta ad una situazione di degrado che ormai sta sfuggendo di mano.

Pensare che si possa risolvere tutto ammassando chi entra in dei centri di accoglienza (che non sono in grado di accogliere più un numero di persone) e lasciare poi che queste persone letteralmente vegetino nelle strade, con il rischio concreto di finire dritte nelle braccia della malavita, significa non comprendere che la soluzione deve essere pensata in modo diverso. Ovviamente questo non presuppone (come invece vorrebbe Salvini) che a chi salva persone venga impedito di entrare nelle nostre coste (quindi no, non si può sparare agli immigrati) ma serve applicare una politica con i porti del Mediterraneo perché i flussi vengano se non fermati perlomeno regolamentati.

Questo ovviamente è solo uno degli aspetti del problema (quello relativo all’arrivo) ce ne sono poi anche altri che cercheremo di analizzare in seguito come ad esempio quello della regolamentazione (e quindi la piena entrata nel sistema italiano) e l’integrazione, due fenomeni strettamente connessi che devono essere analizzati in maniera più approfondita e separatamente.

Post Scriptum: Ovviamente in un solo articolo non possiamo analizzare tutte quelle che sono le politiche sbagliate della sinistra, ma si può iniziare a pensare seriamente alla costruzione di un “laboratorio di idee” capace di mettere insieme una proposta politica concreta e realmente di sinistra.

La “Sinistra” ed il superamento della crisi di identità

In questo inizio di 2020 torno ancora una volta a parlare della crisi della sinistra in Italia.

Una crisi innanzitutto identitaria che pone un problema per chi vuole ricostruire un percorso unitario di tutte le “sinistre”, un percorso molto spesso accidentato e che dal 2008 in poi non è più riuscito a coinvolgere gli elettori (e tanto meno i militanti) in una logica di costruzione di un percorso ideologico prima che politico legato esclusivamente alle varie tornate elettorali.

Per comprendere la crisi di identità che ha colpito la sinistra italiana è necessario partire proprio dal partito che (ancora oggi) si definisce il più “Grande Partito del centrosinistra”, ovvero il Partito Democratico.

Nato del 2008 dalla fusione tra Democratici di Sinistra e Margherita nel tentativo di dare vita ad un partito che fosse in grado di rispondere alle esigenze di una società in continuo mutamento, ha progressivamente abbandonato quello che era il campo delle ideologie della sinistra (dove le parole d’ordine erano lavoro, legalità e stato sociale) nel tentativo di conciliare quelle che erano le esigenze con il processo di globalizzazione in corso.

La scelta di abbandonare completamente il campo dell’ideologia marxista (un processo peraltro già iniziato nel 1991 con la svolta della Bolognina che ha decretato la fine non solo del Partito Comunista Italiano ma anche appunto l’idea che il percorso di costruzione del socialismo fosse definitivamente tramontato con la fine dell’Unione Sovietica), ha condotto il Partito Democratico verso una posizione politica molto lontana da quella della sua base elettorale che sebbene solo in una minima parte, si richiama ancora a quei principi e quei valori che sono alla base della sinistra di impostazione marxista, basata quindi su forti principi ideologici.

Laddove manca la base del pensiero marxista molti militanti vivono la loro militanza come una “nostalgia” del Partito Comunista che fu, della segreteria di Enrico Berlinguer uno dei segretari più citati e forse meno capiti della storia del pensiero comunista italiano (cercherò di tornare in altri post sul pensiero politico di Berlinguer, un pensiero politico che va analizzato nel suo complesso per non correre il rischio di semplificarlo) e del senso di appartenenza che era proprio della comunità del Partito Comunista (sebbene il senso di appartenenza fosse proprio di tutti i partiti).

La tanto sbandierata fusione della parte “moderata” del Partito Comunista (con tutto quello che il termine comporta) e la componente “di sinistra” della Democrazia Cristiana (confluita nella Margherita) alla fine dei conti si è rivelata essere un processo fallimentare poiché ha fatto in modo che quella che era la componente meno forte numericamente (la Margherita – quasi tutta di area democristiana) prevalesse ideologicamente su quella che era la componente post comunista cancellando quelle che erano le istanze e le richieste del pensiero comunista che non andava cancellato ma adattato al mutare dei tempi ed al capitalismo.

Comprendere innanzi tutto che non fosse possibile conciliare le richieste sociali del proprio elettorato con quelle che sono le richieste di un sistema imposto dalla globalizzazione che sempre più tende a schiacciare la società nel tentativo di creare un divario tra ricchi e poveri e che sempre di più tende a mettere in luce le contraddizioni di un sistema (quello capitalista) che crea un costante divario tra classi ricche e classi povere “proletarizzando”, per usare un termine caro al marxismo anche il cosiddetto ceto medio.

Quello stesso ceto medio che non trovando più risposte nel PD si sposta verso destra (Salvini nello specifico) alla ricerca della stabilità perduta.

Il centrosinistra italiano, insomma, nel tentativo di recuperare voti al centro, ha attraversato una fase di mutazione genetica trasformandosi in partito di centrosinistra progressivamente prima in soggetto di centro e poi (nell’ultima fase rappresentata dal renzismo) virando decisamente verso un modello di destra conservatrice.

La “svolta” che oggi si vuole imporre al Partito Democratico dovrebbe necessariamente essere una svolta che guarda verso sinistra e non verso il centro come è stato fatto sino a questo momento.

L’apertura ai movimenti (come ad esempio quello delle Sardine) o alla società civile da un lato può essere una grande opportunità per il partito ma dall’altra rischia (per assurdo) di snaturare ancora di più l’identità del partito stesso che si troverebbe a dover gestire un movimento senza ideologia con un partito altrettanto “debole” e privo di una connotazione ideologica.

Il rapporto tra il movimento ed il partito funziona solo nel caso in cui tutte e due le realtà hanno una forte connotazione ideologica e sono disposte a cercare una sintesi tra le proprie posizioni per andare verso la costruzione di un percorso di lotta comune, un poco quello che è riuscito a Podemos in Spagna, il quale riesce a prendere parte ai Governi spagnoli (anche attraverso una politica di alleanza spesso contestata) mantenendo fede a quella che è la propria idea di costruzione di un percorso che si propone di governare in chiave socialista quelli che sono i percorsi della globalizzazione.

E qua veniamo al secondo nodo della sinistra italiana: quella che viene definita extra-parlamentare (utilizzando tra le altre cose una terminologia che rimanda agli anni del terrorismo visto che la sinistra extra parlamentare era quella che non si identificava nei processi democratici del sistema parlamentare, appunto), uscita dallo schieramento politico da una parte a causa delle varie campagne sul “voto utile” e dall’altra per aver scelto di arroccare sé stessa su posizioni che potremmo definire “nostalgicamente filo-sovietiche” ispirandosi peraltro ad un modello di società (quella sovietica appunto che non appartiene nemmeno alla realtà italiana).

Ambedue queste decisioni hanno portato al progressivo isolamento della sinistra radicale (termine forse più appropriato di extra parlamentare) che si è ritrovata a dover costruire di volta in volta progetti elettorali che si barcamenano tra la ricerca del consenso e la volontà di mantenere intatta la propria identità, ottenendo come effetto che alla fine di ogni tornata elettorale non è riuscita a fare né l’una né l’altra cosa.

La strada da percorrere dovrebbe invece essere quella di scavalcare a sinistra tutti quelli che sono i “simboli” di una sinistra ormai scomparsa e ripartire dal Marx, attualizzando il messaggio del capitale e pensando a nuove strade per realizzare quei passaggi necessari per portare alla costruzione del socialismo, cercando di fare un po’ quello che nel corso degli anni (dal 1945 sino al 1980) circa ha cercato di fare anche il Partito Comunista.

Citando Enrico Berlinguer andrebbe costruita quella Terza Via di cui tanto si è vagheggiato in passato ma che non può essere identificata nel modello blairiano come invece ha pensato parte della sinistra italiana (ed europea) tra la fine degli anni Novanta ed i primi anni del 2000.

Serve invece andare a recuperare quelle che sono le idee di base del marxismo, pensare come possano essere aggiornate e poi tradurle in azion anche attraverso la costruzione di un partito dalla forte struttura centralizzato in contrapposizione al modello di “partito liquido” che ha portato alla disgregazione del ruolo del partito nelle istituzioni.

Questo percorso di analisi si rende necessario anche perché la destra di ispirazione fascista non ha mai smesso di fare analisi ed ha trovato oggi in Matteo Salvini se non un prezioso alleato almeno qualcuno che difende (in nome del sovranismo) alcune delle posizioni più care alla Destra Nazionale (torneremo anche sulla realtà della destra in Italia, altro fenomeno che dovrebbe essere analizzato nella sua complessità).

A questo andrebbe unito la tendenza nostalgica di una parte della “sinistra radicale” che ha pensato sbagliando di poter vivere mantenendo intatte le figure di spicco del proprio pantheon ideologico – a partire da Lenin e Stalin – senza approfondire l’apporto al dibattito nel campo marxista di nessuna di queste figure. Questo errore ha comportato una progressiva cristallizzazione dei processi di elaborazione della realtà circostante che ha fatto in modo che il messaggio con il passare degli anni apparisse come “antiquato” e non adatto alle circostanze dei tempi che corrono.

Per questo sarebbe necessario (come anche sostenuto da Fausto Bertinotti nel 2001 in occasione del suo intervento all’anniversario della nascita del PCI a Livorno – proposito purtroppo mai realizzato) fare in modo che la sinistra riparta innanzi tutto da Marx cercando di attualizzare quelli che sono i processi di produzione del capitale in chiave globalista.

Servirebbe dunque alla sinistra tutta uno scatto che rimetta al centro della propria azione politica quelle che nel corso della sua storia sono state le sue parole d’ordine: lavoro, legalità, welfare state, parole d’ordine che però devono essere riportate al centro del dibattito politico non solo in chiave utilitaristica ma una chiave innanzi tutto ideologica, ritornando ad una politica sempre più ideologica e che riprenda le fila di quello che era un tempo il processo di costruzione del socialismo del PCI, non la sovversione dello stato attraverso un processo rivoluzionario che abbatta il sistema capitalista, ma la costruzione di un percorso ideologico (e politico) che rimetta al centro l’idea che bisogna “immettere elementi socialisti all’interno di una società capitalista”.

Per fare questo è necessario però ripensare anche la logica del partito stesso, superando il concetto di “partito liquido” e tornando ad una forma partito fatta di strutture, apparati (sia politici che di formazione) che sia realmente in grado di rispondere alle esigenze dei territori.

Torneremo ancora su questi argomenti, perché i continui mutamenti della società ci impongono di ripensare il senso stesso della nostra appartenenza al campo ideologico della sinistra, perché resto dell’idea che per sconfiggere le destre non basta solo denunciarla ma sempre costruire un percorso ideologico altrettanto forte e soprattutto altrettanto ideologico.

Leopolda 10, qualche considerazione

Matteo Renzi alla Leopolda

Domenica si è conclusa a Firenze la decima edizione della Leopolda, la kermesse politica che dieci anni fa ha lanciato un giovanissimo Matteo Renzi a diventare uno dei protagonisti politici (nel bene e nel male) degli ultimi anni.

A margine della manifestazione, spesso e volentieri definita “fucina di idee” si sono sempre mossi politici, personaggi noti e meno noti dello spettacolo, che hanno messo in campo la propria esperienza nella prospettiva di costruire qualcosa (questo sempre a quanto dicono gli organizzatori).

Innanzi tutto ci tengo a precisare una cosa: questo articolo non vuole essere polemico nei confronti di nessuno (alla manifestazioni ho potuto vedere le foto di diversi amici con cui ho condiviso un pezzo di strada) e le mie considerazioni sono da prendere come una pura analisi basata su un fattore politico ideologico, non personale.

Questa edizione della Leopolda è stata per molti versi diversa dalle altre, visto che ha sancito la nascita ufficiale di Italia Viva, il partito che Matteo Renzi aveva un testa da un po’ di tempo, almeno da quando alla fine del referendum del 4 dicembre il PD iniziò ad andargli un po’ troppo stretto.

Simbolo di Italia Viva

Con la nascita di Italia Viva possiamo affermare in maniera definitiva che Matteo Renzi ha abbandonato l’equivoco di fondo della sua segreteria nel Partito Democratico (e quindi della sua visione politica) dichiarando finalmente di non essere di sinistra (semmai ci fossero ancora dei dubbi).

Non voglio entrare nel merito della polemica con il Partito Democratico, ma vorrei limitarmi ad una serie di notazioni su quello che è emerso dalla visione politica di Italia Viva.

Innanzi tutto possiamo dire che il partito si richiama in maniera aperta ai valori espressi da Forza Italia e da Silvio Berlusconi (lo stesso Renzi ha ammesso che è sua intenzione andare a conquistare i voti dai delusi di Forza Italia – da cui nascono i vari ammiccamenti agli elettori di Berlusconi proprio in sede leopoldiana) e quindi un campo di valori che si allontana di molto da quelli che dovrebbero essere i valori della sinistra propriamente detti.

Già durante la sua esperienza di Governo molti dei provvedimenti portati a casa (per quanto giusti) nascono da una forma mentis più vicina a quella dei partiti conservatori anglosassoni che non (ad esempio) ad un partito laburista comunque legato ad un modello di società marxista. Al massimo possiamo dire che il modello di partito che ha in mente Matteo Renzi è un modello “all’americana” comunque lontano da quella che è una visione ed una prospettiva “di sinistra”.

Un modello di “partito liquido”, come lo voleva Veltroni, ed un modello di partito che nasce da quel “superamento delle ideologie” che ha fatto tanto male alle sinistre, soprattutto perché a loro si contrappone un modello di destra che tutto è tranne che “post ideologica” ma che anzi, proprio delle ideologie sembra essere sempre più intenzionata a costruire il suo consenso elettorale.

Staremo a vedere come costruirà il consenso e come si comporterà in vista delle prossime elezioni (quindi quali saranno le alleanze e con chi sarà intenzionato a dialogare) perché sulla base di questo sarà possibile capire i margini di dialogo che con una simile forza possono esistere.

La nascita del partito di Renzi potrebbe essere la prima vera opportunità per il Partito Democratico di “aprire” a sinistra (non solo ai Cinque Stelle ma anche a tutte quelle forze che dal 2008 ad oggi sono state lasciate fuori dal Parlamento con una serie di leggi elettorali volte a creare una sorta di oligarchia partitica), cercando di essere parte di un progetto che non guarda al centro ma inizia a rispondere (nuovamente) a quei cittadini che naturalmente formano il bacino elettorale della sinistra e del centrosinistra, ma su questo avremo ancora modo di tornare.

Titanic, ovvero come la “Sinistra” è stata incapace di vedere l’iceberg

Non è facile iniziare a scrivere una recensione di Titanic.

Non è facile perché in un modo o nell’altro anche io sono stato partecipe di quella stagione ed anche io sono uscito bruciato (o affondato, se vogliamo tenere in piedi la similitudine del Titanic e della nave che affonda) da quella che sarà sempre ricordata come “stagione renziana”.

Devo subito premettere una cosa (non me ne voglia Chiara Geloni) ma per buona parte di questa storia io sono stato rispetto a lei dall’altra parte.

Certo, non sono mai stato un “renziano” di stretta osservanza, nel senso che ho sempre cercato di essere critico quando molti attorno a me diventavano osannanti (anche a costo di mettermi contro persone che erano amici) perché la “coerenza intellettuale” per me è sempre stata un faro che ha guidato la mia attività politica.

Non è facile, dicevamo. E non lo è anche perché Titanic non è un libro che scarica tutte le colpe del tracollo della sinistra solo su Matteo Renzi ma le distribuisce equamente tra tutti i rappresentanti di una classe dirigente che non è stata capace di vedere che il mondo attorno stava cambiando e non stava cambiando in meglio.

La “mucca in corridoio” di cui parlava Bersani (e su cui sono stati sprecati fiumi di ironia) nel frattempo è diventata prima un toro e poi un bufalo ed ora ci troviamo al Governo uno dei governi più reazionari dai tempi di Benito Mussolini e con un partito di chiara ispirazione fascista (se non nelle idee almeno nei modi e nei toni) che continua a crescere nei sondaggi senza che la sinistra sia in grado di produrre uno straccio di opposizione che non sia far notare gli errori grammaticali di chi vota Cinque Stelle o rivendicare ogni volta la propria “supremazia intellettuale” nei confronti degli elettori senza comprendere che questo atteggiamento non fa che allontanare la famosa “base” dai vertici del partito.

Prima di arrivare a questo però vorrei dire una cosa: qui non si tratta di rinnegare quanto è stato fatto ma di comprendere quelli che sono stati gli errori commessi, perché se il Partito Democratico è sceso dal 40% al 18% sicuramente qualche errore è stato commesso e se non si riparte da quegli errori le prossime elezioni saranno ancora più drammatiche perché rischiano di consegnare il Governo alla destra più reazionaria di sempre.

Tuttavia, è impossibile parlare di Titanic senza fare un accenno alla stagione renziana, da molti rivendicata come una delle più prolifiche a sinistra (tanto che l’ultima campagna elettorale invece che promuovere che cosa si volesse fare per il Paese non faceva altro che ricordare agli elettori che cosa si era fatto) e da altri considerata come la tomba della sinistra italiana. Se ci si ferma al sottotitolo allora la lettura che ne possiamo dare è “La Geloni vuole dare tutta la colpa a Renzi di quanto successo al centrosinistra” in realtà questa chiave di lettura può essere anche vera. se ci ferma al sottotitolo del libro.

Per spiegare quello che intende Chiara Geloni forse dobbiamo usare proprio la metafora del Titanic: mentre tutti i mozzi dicevano al Capitano che la nave stava andando a sbattere contro un iceberg e sarebbe affondata, il capitano si ostinava a tenere la barra dritta perché “la nave è solida”. Allo stesso modo, di fronte all’evidenza degli errori che si commettevano in campagna elettorale un’intera classe dirigente rispondeva sprezzante “noi abbiamo il 40%, voi siete solo dei mozzi, che cosa ne volete sapere?”.

Ora però qui sorge la prima difficile domanda: la colpa del tracollo è da attribuire tutta a Matteo Renzi o piuttosto non è che Renzi è figlio di una serie di errori commessi da una classe dirigente che è stata incapace di capire che la situazione politica italiana era in continuo mutamento?

Non parlerò di quella stagione né dei suoi protagonisti, perché ognuno leggendo il libro ne potrà trarre le proprie conclusioni, però voglio soffermarmi sull’aspetto politico che pone il libro: che cosa rimane alla fine dell’esperienza del Partito Democratico?

Quando ho letto le parole su che cosa secondo Chiara Geloni era il Partito Democratico mi è subito venuto in mente il murales nella mia sezione (fortemente voluto dal segretario di allora) di Moro e Berlinguer, perché quelli per noi erano i simboli della “stagione democratica dell’Italia” perché quello per noi era lo spirito con cui si doveva stare nel partito: accettare le diversità dell’altro per costruire l’identità di una nuova sinistra, in grado di rispondere alle richieste di una società in continuo mutamento che vedeva crescere sempre di più la disparità tra persone. Quello che serviva era non un partito che contestasse la globalizzazione tu cur ma che fosse capace di costruire una “strada alternativa” alla globalizzazione. Con questo spirito avevo aderito al Partito Democratico, proponendo un partito liquido, nel senso di un partito aperto all’associazionismo di sinistra, luogo di incontro di culture e di battaglie diverse ma che erano comunque in grado di trovare un punto di incontro per costruire insieme una nuova “egemonia socialista” per quanto forse il termine non sia proprio appropriato.

Ora, la domanda che mi pongo avendo finito di leggere il libro è “Che Fare?”, ovvero da dove bisogna ripartire per ricostruire un progetto di sinistra unitario che non sia la fotocopia di qualcosa di già visto ma che sia comunque in grado di rispondere alle richieste di una società sempre meno paritaria e sempre più incattivita?

Per rifondare la Sinistra bisogna ripartire innanzi tutto dalle idee. Nel racconto dei “giorni della traversata” – per usare le parole dell’autrice – si trova un altro interessante motivo di riflessione: dopo la scissione il processo di costruzione di qualcosa a sinistra del PD è fallito a causa del protagonismo di alcuni che non si sono resi conto che senza un progetto non si poteva costruire nessun progetto.

Allora proviamo a ripartire da qui: dal dire che per essere “alternativa” bisogna innanzi tutto pensare “alternativa” bisogna avere il coraggio di dire che i processi della globalizzazione liberista sono sbagliati, perché creano disparità tra le persone, bisogna iniziare a produrre documenti e pensiero critico che metta in campo una soluzione globale a quelli che sono problemi globali.

La seconda cosa da evitare è l’ossessione della “maggioranza di Governo” perché se qualcosa ha affossato il PD si tratta proprio di questo: l’ossessione del vincere che ha portato il maggior partito di centrosinistra italiano a scavalcare a destra la destra liberista perché solo in questo modo si poteva vincere.

Mentre leggevo stavo ripensando ad un’intervista di Matteo Renzi a Porta a Porta: Vespa chiede a Renzi quale fosse la differenza tra lui e Berlusconi e la risposta fu “che Berlusconi promette le cose ed io le faccio”, il problema che venissero fatte le cose che erano cavalli di battaglia proprio di Berlusconi è un dettaglio che nella risposta è stato trascurato. Questa degenerazione è potuta avvenire perché l’ossessione era quell’imperativo categorico “vincere ad ogni costo” anche calpestando tutti quelli che erano i valori della sinistra che avevano portato alla nascita del Partito Democratico.

Rimane allora la stessa domanda: da dove ripartire?

Innanzi tutto dal cercare di rimediare ad un errore storico, messo in luce anche da Bersani nella postfazione al libro: la Sinistra degli anni 2000 ha pensato che la globalizzazione potesse essere lasciata libera, commettendo un errore madornale nel pensare (cedendo alla retorica neoliberista dei mercati in grado di regolarsi senza l’intervento dello Stato) che i processi di globalizzazione avrebbero portato solo benessere.

Invece la crisi del 2008 ha dimostrato che i processi che sono alla base del capitalismo speculativo non solo non migliorano le condizioni economiche delle masse ma puntano a creare disparità tra poveri e ricchi.

Dovremmo ripartire da Marx (non dalla sua interpretazione religiosa che si è tradotta nel modello di autoritarismo sovietico) ma dallo studio che spiegava come i processi del capitalismo avrebbero portato necessariamente ad un costante impoverimento della classe media che sarebbe stata “proletarizzata” per usare un terminologia marxista.

Bisogna ripartire dal concetto di “società” rimettendola al centro dei processi decisionali della politica, tornare ad un “nuovo Umanesimo” se mi si passa il termine che sia in grado di mettere al centro l’uomo e non le merci, i profitti, il consenso.

Sarebbero tante le cose da dire, forse troppe, e forse siamo anche usciti fuori tema.

Rimane comunque un dato di fatto: Titanic è un libro da leggere, non tanto perché antirenziano ma perché racconta una stagione politica fatta di errori e di tradimenti, di processi interrotti da cui ripartire, ricostruendo dal basso, pensando ad un soggetto plurale, orizzontale, incentrato sui valori e non sui nomi.

Questo è quello che questo libro mi lascia, se pensate che sia solo “contro Renzi” allora forse, dovreste lasciarlo sullo scaffale della libreria.

Prospettive per un processo di unificazione a sinistra

Ancora una volta le ultime elezioni hanno dimostrato come in Italia resti ancora lontano un processo di costruzione di una sinistra unita in grado di presentarsi alle elezioni sulla base non di un mero calcolo di tornaconto elettorale ma sulla base di un progetto comune in grado di rispondere alle esigenze del cittadino e soprattutto dare una risposta al continuo avanzare di un modello capitalista sempre più invasivo e pervasivo nella vita delle persone.

Tralasciando per una volta il Partito Democratico che, ormai in maniera piuttosto evidente, ha abbandonato la strada di essere architrave di un processo di costruzione di un centrosinistra degno di questo nome, bisogna cercare di mettere insieme tutta quella galassia di nomi e persone che nel corso di questi anni hanno dato vita ai vari tentativi di “unione a sinistra” senza mai riuscire non solo ad ottenere una consistente vittoria elettorale (che sarebbe il minimo dei problemi) ma nemmeno a restare uniti quel tanto che basta per avviare un laboratorio politico degno di un procedimento di costruzione di un modello di sinistra che si presenti alternativo tanto al PD quando alla Destra imperante in questa fase storica in Italia.

Uno dei drammi maggiori della sinistra in questa fase è che ogni volta che si avvicina una scadenza elettorale parte dai nomi invece che dalle idee e partire dai nomi non è mai una cosa buona. Vediamo di elencare alcuni punti su cui la “Sinistra del Terzo Millennio” si dovrebbe concentrare per sperare di ottenere qualche vittoria (magari non immediata) non perché ha “nomi spendibili” ma perché ha in mente un progetto.

Per ora cercheremo di affrontare solo alcuni temi, nel corso del tempo cercherò di affrontarne altri offrendo una prospettiva “di sinistra” con la speranza che qualcuno possa cogliere questo appello e soprattutto questi spunti.

AMBIENTE

Ritengo che la “Questione ambientale” debba essere al primo posto (o almeno tra i primi) in una prospettiva di costruzione di un processo unitario a sinistra.

Quando si parla di “ambiente” spesso si tende a mettere parole a caso come “riduzione delle emissioni di CO2, effetto serra, e qualcuno ancora tende a parlare di “buco dell’ozono” o di raccolta differenziata, come se tutto questo potesse risolvere la questione ambientale.

La questione è molto più complessa in realtà e va affrontata in maniera completamente diversa: riguarda il modo in cui cui l’uomo si relaziona con l’ambiente circostante.

Ora la domanda più ovvia è: che cosa ha a che fare tutto questo con la sinistra?

Lo sfruttamento della Terra è un aspetto non secondario del capitalismo, il quale dopo aver sfruttato la “risorsa umana” passa a sfruttare la “risorsa ambiente” nel continuo tentativo di espandersi alla conquista di nuovi mercati. La sopravvivenza del sistema capitalista (almeno di una forma di capitalismo) è indissolubilmente legata all’espansione di quel capitalismo attraverso lo sfruttamento delle risorse circostanti. Perché non pensare ad un modello capitalista che possa allo stesso tempo rispettare l’ambiente e fare in modo di essere davvero un viatico per “migliorare” la vita dell’uomo invece che essere un miglioramento solo apparente.

Per creare un capitalismo basato sul risparmio ambientale (e non solo) e sul miglioramento delle condizioni dell’uomo è necessario incentivare la ricerca sulle risorse alternative (compreso il nucleare) per superare la “fase del carbone fossile”.

Torneremo ancora a parlare di ambiente e questione ambientale ma per ora credo sia opportuno andare avanti nella stesura di alcuni altri punti che devono essere alla base della costruzione di un processo unitario della sinistra.

Scuola e Cultura

La sinistra è sempre stata bacino elettorale di docenti ed intellettuali legati al mondo della cultura. Eppure da diversi anni a questa parte le peggiori riforme del sistema dell’istruzione sono arrivate proprio da sinistra. Spesso e volentieri sono stati elaborati complessi sistemi di riforma spesso lasciati monchi e senza alcun criterio meritocratico.

Certo, con la parola “meritocrazia” abbiamo costruito castelli, ma siamo davvero stati in grado di dare vita ad un sistema meritocratico? E cosa vuol dire esattamente meritocratico?

Uno Stato intenzionato a crescere deve investire in cultura e ricerca, non tagliare senza criterio alla ricerca e poi chiedere al Paese di crescere. Come può crescere un Paese che non investe nella ricerca e nel progresso?

Spesso si parla delle eccellenze italiane, quelle stesse eccellenze che hanno potuto essere tali perché uno Stato ha creduto in loro ed ha finanziato i loro progetti. Se vogliamo davvero tornare ad essere al centro del mondo dobbiamo tornare a sviluppare una forma di mecenatismo contemporaneo capace di investire in nuovi progetti di ricerca. Perché questo possa avvenire è innanzi tutto necessario dotare università e scuole di fondi da gestire per sviluppare progetti di ricerca (anche su idee proposte dagli studenti) e soprattutto è necessario creare un sistema dove l’istruzione supera il concetto di “nozione fine a sé stessa” e diventa parte integrante del percorso del singolo individuo.

Pensare a come costruire un sistema scolastico dove i dirigenti sono preparati (questo è il concetto di meritocrazia) e i docenti sono selezionati secondo un criterio di merito è il primo passo per arrivare a costruire un sistema scolastico efficiente e capace di rispondere alle esigenze della società attuale ed alle sue mutazioni. Sulla didattica anche ci sarebbe molto da dire, spero di riuscire a sviluppare qualcosa di utile anche in questo campo per fornire qualche idea (da docente forse qualcosa la posso dire).

Per adesso direi che ci possiamo fermare. Ovviamente quelli elencati sono solo due idee abbozzate su come si possono migliorare le cose, ma tornerò presto a parlare di altri argomenti, con la speranza che abbiate la pazienza di seguirmi nonostante spesso la mia “pigrizia atavica” mi porti a curare questo posto meno di quanto vorrei.

La sinistra guardi all’esperienza del Portogallo per un programma di Governo

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo abbandono da parte della sinistra di quelle che erano le peculiarità dei programmi politici della sinistra.

Da una parte abbiamo assistito alla progressiva scelta da parte delle sinistre europee di accettare i principi di quella che possiamo definire la Terza Via e la progressiva accettazione delle politiche di austerity imposte dall’Europa seguendo lo schema del “non esiste alternativa” e del successivo “senza l’austerity si rischia la bancarotta”.

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La stessa crescita dell’Italia è avvenuta sulla base dei vincoli di bilancio imposti dall’UE con una serie di politiche di fatto hanno abbassato il costo del lavoro aumentando in questo modo la crescita, una scelta politica che ha messo a posto alcuni conti del Paese ma non ha di certo aiutato la crescita del benessere dei cittadini e dei lavoratori, anzi ha creato le condizioni per un sistema costruito sulla precarietà e sulla difficoltà di creare impresa rispondendo sempre alla logica del mercato unico imposto dall’Europa.

Il progressivo cedimento della sinistra a quelli che sono i valori di una società liberista sono stati per anni oggetto di discussione e di contestazione a cui però si dava sempre la stessa risposta: in un sistema economico in cui sono mutate le condizioni non esiste altra risposta possibile se non quella delle politiche di austerity e del pareggio in bilancio e la sinistra deve abbandonare la strada della socialdemocrazia (non prendo nemmeno in considerazione quella che dovrebbe essere la via del comunismo perché quella è stata progressivamente abbandonata già negli Anni Novanta) per governare i processi della società capitalista lavorando non più a tutela del lavoratore ma del capitale.

Questi processi, che sono stati in parte mutuati dalla logica della Terza Via di Tony Blair, hanno portato alla progressiva scomparsa del disegno socialdemocratico in Europa relegando i partiti della sinistra a dei veri e propri comprimari delle destre liberiste di tutta Europa.

Basti citare il caso della Francia, della Germania e della Spagna per comprendere cosa intendo, tre Paesi dove la sinistra è costretta a fare da stampella ai governi di destra relegando sè stessa ad un ruolo marginale nella politica internazionale.

Eppure in Europa esiste un caso limite, un Paese dove si è costruita una alleanza tra socialdemocratici e comunisti sulla base di un programma di Governo improtando alla crescita pur non rispettando quelli che erano i vincoli imposti dall’Europa: sto parlando del Portogallo, dove il Partito Socialista governa insieme ai comunisti e ha risanato il bilancio migliorando anche le condizioni di vita del cittadino.

Facciamo un passo indietro: il Portogallo, negli anni in cui emerse l’acronimo PIIGS (che identificava a detta dell’Europa i Paesi membri a rischio bancarotta se non avessero rispettato i parametri imposti dalla Trojka – BCE, FMI e Banca Mondiale – e che altro non era la sigla di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) era il primo dei Paesi a rischio bancarotta se non avesse accettato i prestiti della Trojka e restituendo i prestiti a costi esorbitanti (come ad esempio successo alla Grecia).

L’accettazione delle politiche di austerità aveva portato il Portogallo ad una sostanziale instabilità politica molto simile a quella della Grecia e dell’Italia dove sembrava essere impossibile formare un Governo in grado di governare i processi politici per uscire dalla crisi.

In questo contesto il Partito Socialista Portoghese decide di fare una scelta in controtendenza rispetto al resto dei partiti socialisti europei: invece che andare nella direzione di una “Grossa Coalizione” tra destra e sinistra decide di formare una alleanza “rossa” insieme al Partito Comunista Portoghese ed il Partito di Bloco de Izquierda (nato nel 1999).

I tre partiti decidono di mettere da parte le loro divergenze (il Partito Comunista ad esempio è fortemente antieuropeista) in nome della stabilità per il Portogallo mettendo in piedi un governo di alternativa a sinistra che ha progressivamente portato il Portogallo ad una costante crescita del PIL ed ad un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.

Il GOVERNO COSTA sarà ricordato come il Governo della crescita

I dati sono sotto gli occhi di tutti: il PIL è al 2,7% (mai così alto dal 2000), il deficit è sceso ai minimi storici mentre la disoccupazione è scesa all’8%.

Tuttavia per comprendere la situazione portoghese occorre fare un passo indietro: prima di questo esperimento nel 2011 al Governo c’erano proprio i socialisti con Socrates, il quale cadde proprio per aver avviato le politiche di austerity chieste dall’Europa. Le elezioni del 2011 consegnano la vittoria alla destra liberista, che procede alla macelleria sociale con le linee guida della Trojka con la forte opposizione dei socialisti in Parlamento.

Alle elezioni successive i socialisti si resero conto di non poter cambiare linea politica dopo le dure contestazioni alla destra ed allora decide di guardare ad una alleanza di sinistra, magari non in grado di vincere le elezioni ma che avrebbe consentito al Partito Socialista di non vedersi completamente abbandonato dal suo elettorato. Contro ogni previsione questa coalizione socialista-comunista non solo vince le elezioni ma porta avanti delle politiche che permettono la crescita del Paese, permettendo in questo modo la rinascita del Portogallo (vedi i dati citati sopra).

COSA HA FATTO IL GOVERNO PORTOGHESE PER MIGLIORARE LE CONDIZIONI DI VITA DEI LAVORATORI?

La scelta del Governo è stata quella di stimolare i consumi con un semplice restauro dei salari pre Trojka in settori come ad esempio quello della ristorazione e una riduzione progressiva dell’IVA (che comunque, va detto, rimane tra le più alte in Europa). Il resto lo ha fatto (come afferma Left nella sua analisi sul caso portoghese) la liberalizzazione del mercato immobiliare della destra che ha consentito di smuovere il mercato immobiliare aprendo le porte agli investimenti di turisti stranieri anche facoltosi (tra coloro che hanno acquistato in Portogallo troviamo anche la stessa Madonna) ed ha aperto le porte allo sviluppo della Sharing- economy.

Sebbene non sia tutto oro quello che luccica (ci sono ancora diverse questioni che vanno portate avanti come ad esempio il promesso aumento dello stipendio degli statali del 12% fermo da anni)  o il progressivo rischio sulla perdita di identità nazionale per “colpa del turismo” va fatto notare come quello portoghese possa essere un esempio per buona parte delle realtà socialdemocratiche e comuniste in Europa.

Come riportato nell’ultimo numero di Left nell’intervista a Andrè Freire, docente universitario presso l’istituto universitario di Lisbona:

Più che un modello direi che il caso portoghese possa essere visto come una via da percorrere per la socialdemocrazia europea. Non scordiamoci che una soluzione di questo tipo è possibile solo quando le sinistre hanno i numeri per formare un Governo.

Questa è una questione non da poco conto, almeno se andiamo ad analizzare il caso italiano e ci chiediamo se una simile via può essere percorsa.

L’Italia paga una totale assenza di partiti di sinistra, soprattutto di un partito socialdemocratico in grado di allearsi con una sinistra radicale fuori dai radar della politica da almeno dieci anni.

Si rende dunque necessario da una parte di ripensare i metodi della comunicazione di quella parte di sinistra radicale, ripensando ad un modo di comunicare senza abbandonare i propri valori e contestando quelle che sono le linee guida della propria politica, mentre da parte della sinistra che si richiama a principi socialdemocratici andrebbe presa coscienza del fatto che le politiche liberiste non solo si sono rivelate un fallimento ma sono anche alla base delle disuguaglianze sociali che si vuole combattere.

Dopo aver preso atto di questi elementi – che devono essere alla base della costruzione di un processo di costruzione di una alleanza governativa – va costruito un programma che risponda alle esigenze dei lavoratori ma che allo stesso tempo possa evitare i timori dell’Europa sul cedimento strutturale della politica economica dell’Italia.

Una strada lunga da percorrere, ma allo stesso tempo la sola strada possibile per vedere di nuovo la sinistra al Governo con la speranza che porti avanti una politica di sinistra anche nei fatti e non solo nelle parole.

Un auspicio che può e deve diventare reale se vogliamo tenere alto il PIL dell’Italia ed allo stesso tempo consentire agli italiani una vita migliore.