Ottaviano Augusto, il “Grande Baro”

Ottaviano Augusto è uno di quei personaggi della storia di Roma che da sempre viene identificato nell’immaginario collettivo con l’Impero romano.

Non potrebbe essere altrimenti dato che proprio lui fu il primo a fregiarsi del titolo di Imperator e fu proprio lui a gettare le basi per la costruzione di quell’impero romano che avrebbe dominato per anni la storia e che avrebbe segnato per anni l’immaginario collettivo.

Ma chi era Ottaviano Augusto?

Antonio Spinosa, nella sua biografia, lo definisce il “Grande Baro”, narrando la storia di un personaggio che è riuscito a farsi consegnare dal Senato il potere assoluto senza spargimenti di sangue (o meglio, con pochi spargimenti di sangue) e che è riuscito a costruire attorno alla sua figura la “narrazione” di unico uomo in grado di salvare i valori della Repubblica dal decadimento di una società, quella romana che, tra una vicenda e l’altra, usciva da 150 di guerra civile.

Figlio adottivo di Caio Giulio Cesare, erede ed esecutore delle volontà del padre adottivo (tanto da averlo divinizzato dopo averlo vendicato uccidendo Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi) ha costruito un vero e proprio mito attorno alla sua figura.

Le strategie politiche e comunicative portate avanti da Ottaviano gli hanno consentito non solo di prendere il potere accentrando tutto nelle sue mani e di fatto svuotando di contenuto (politico) il Senato ma ha permesso anche di vivere a Roma un lungo periodo di pace e di prosperità, tanto che ancora oggi nella storiografia romana si parla di Pax Augustea.

Ottaviano fu un politico accorto, il primo a comprendere – dopo anni di guerra civile – che la stabilità di Roma dovesse necessariamente passare dalla costruzione di una continuità dinastica che mantenesse vive le tradizioni della repubblica ma che allo stesso tempo doveva essere fondata su una “nuova concezione del potere”.

Fondatore di una vera e propria dinastia (la dinastia giulio-claudia che inizia proprio con Ottaviano e termina con Nerone) è riuscito a mantenere il potere proponendo sé stesso come moralizzatore della società romana, presentandosi come continuatore ideale dei principi dei Padri Fondatori, accentrando il potere nelle sue mani mantenendo in sostanza inalterata la struttura politica del Senato svuotandola però di tutto il suo contenuto politico.

Nonostante resti una figura principale della storia romana (se vogliamo della storia mondiale) i libri scolastici dicono poco sulle sue origini o sulla sua persona, partendo la narrazione solo dal momento dell’adozione da parte di Giulio Cesare.

Per poter raccontare al meglio la figura di Ottaviano Augusto non basta un singolo articolo per potersene occupare: fondatore dell’Impero Romano, sostenitore della Pubblica Morale a Roma (arrivò ad esiliare persino la figlia Giulia per i suoi comportamenti immorali), stratega politico, capace di prendere la guida del Senato proponendosi come elemento di salvezza della Repubblica.

Per questo cercheremo in queste pagine di occuparci meglio di colui che prima di morire disse: “Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco in marmo”

L’anno che verrà…

Il 2020 è ormai giunto al termine (mancano poco più di ventiquattro ore) ed è ora di aspettare il nuovo anno.

Mai come quest’anno ci sarà l’attesa per il nuovo anno, con la speranza che sarà un anno migliore di quello appena passato.

Il 2020 è stato a tutti gli effetti quello che possiamo definire annus horribilis: la pandemia, la crisi economica e sociale, la perdita di ogni sicurezza nel lavoro, nella salute, nella possibilità di una vita migliore. Senza dimenticare i morti: sinora sono 1,79 milioni in tutto il mondo (73 mila 29 solo in Italia).

Mai come questa volta l’anno che verrà deve segnare una svolta nel modo di pensare, di agire, di costruire il futuro non solo delle classe dirigenti che sono al Governo ma anche soprattutto dei cittadini.

Mai come quest’anno avremo bisogno di recuperare il senso di collettività della nostra società, un senso di collettività che deve essere punto di partenza per costruire una società migliore di quella che (necessariamente) ci siamo dovuti lasciare alle spalle. Con il nuovo anno dovremo rivedere quelle che sono le nostre priorità ed i nostri bisogni, pensando un pochino meno al nostro benessere e pensare un pochino di più al benessere del nostro vicino.

Nei primi mesi di pandemia è uscito un libro molto interessante: si intitola il Mondo dopo la fine del mondo è un libro in cui si parla di come rimettere in moto il Paese dopo gli ultimi mesi.

Ecco, il mio augurio per il prossimo anno è questo: che si possa uscire dalla crisi più forti, più consapevoli di noi stessi e più uniti.

Ripartire dopo il Covid

Negli ultimi due mesi abbiamo affrontato la prima vera crisi globale del XXI secolo.

Nemmeno la crisi dei mutui subprime del 2008 ha rischiato di creare una tale spaccatura tre le classi sociali, messo in ginocchio non solo le banche (che sono un aspetto fondamentale del capitalismo, ma non l’unico) ma l’intero impianto su cui abbiamo fondato il capitalismo negli ultimi trent’anni.

Possiamo dire con tranquillità che “è bastata un’epidemia per mettere in ginocchio l’intero sistema capitalista”, per farci rendere conto di quanto l’essere umano non sia “indispensabile” alla Terra, la quale ci ha messo meno di tre settimane e disintossicarsi dall’essere umano e riprendersi il proprio spazio.

Qui però non parleremo di quelli che sono gli aspetti filosofici, ma di quelli pratici, con particolare attenzione al caso dell’Italia.

Alla fine dei conti i mesi di lock-down (necessari per cercare di contenere il virus – non di debellarlo, bisogna fare attenzione) saranno tre; tre mesi in cui il ceto produttivo e lavorativo del Paese non ha prodotto nessuna entrata per lo Stato e rischia non solo di lasciare per strada diversi lavoratori, soprattutto nel settore turistico (il settore del lavoro stagionale) e tutta quella miriade di contratti a progetto, Cocopro, CoCoCo e tutte quelle altre sigle che erano alla base della distruzione del settore del mercato del lavoro, portato a compimento dal Jobs Act, la riforma del lavoro di Renzi che ha regolarizzato di fatto il precariato.

I continui tagli alla sanità pubblica hanno di fatto messo in ginocchio il sistema sanitario, unito ai tagli alla ricerca (soprattutto quella scientifica) si è venuta a creare la situazione che stiamo vivendo oggi: ospedali che esplodono per mancanza di posti letto, attesa messianica di un vaccino dall’estero che potrebbe arrivare tra un anno (o tra due), tutti questi tagli sono stati fatti in nome del rispetto dei parametri di bilancio imposti dall’Unione Europea negli ultimi anni, parametri che di fatto hanno impoverito le tasche degli italiani e di conseguenza ha costretto lo Stato a tagliare sul welfare per far fronte alle spese. Complice l’impossibilità di stampare moneta (e quindi procedere alla svalutazione) nel corso degli ultimi dieci anni tutti i Governi hanno di fatto svalutato i salari, aumentando la distanza tra ricchi e poveri, mettendo in crisi interi settori di produzione del Paese. Oltretutto, i governi di centrosinistra, per farsi “perdonare l’essere stati comunisti” hanno di fatto acconsentito a tutte le richieste della Confindustria, di fatto smembrando lo Statuto dei Lavoratori rendendolo inapplicabile, sino ad arrivare alla sua completa cancellazione (Adducendo come scusa il fatto che ormai non servisse più).

LA crisi che ci troveremo ad affrontare finita l’emergenza sarà forse la peggior crisi mai avuta dal dopoguerra ad oggi e per risolverla non basterà prendere i soldi in prestito dall’Unione Europea attraverso il MES (soldi che tra le altre cose dovranno essere poi restituiti). Per uscire dalla crisi dovremo ripensare buona parte del nostro sistema, anche perché non saremo in grado di reggere a settembre (o ottobre, o novembre) un altro lock-down come quello degli ultimi due mesi. Cerchiamo di capire che cosa potrebbe fare una “forza di sinistra” in questo contesto, come pensare ad un piano di rinascita del Paese, un nuovo “Progetto Italia” che possa aiutare non solo le casse dello Stato ma soprattutto gli italiani ad uscire dalla inevitabile crisi.

Ricerca e sviluppo

Di importanza fondamentale sarà ripristinare investimenti sui settori della ricerca e dello sviluppo. Non si parla solo di ricerca medica, ma di sviluppare un vero e proprio piano di ricrescita nazionale in quei settori “nevralgici” dell’innovazione in ogni settore: dall’informatica alla ricerca medica, passando per la ricerca scientifica, sino ad arrivare allo sviluppo di una tecnologia accessibile a tutti che possa essere di “supporto” alla vita degli individui.

Il settore dello sviluppo tecnologico (e della ricerca di settore) in Italia, rispetto al resto del mondo è particolarmente arretrato. Nonostante in molte delle nostre università si continuino a formare i migliori ricercatori e scienziati manca completamente un piano di sviluppo di lavoro e ricerca nella maggior parte dei settori scientifici della ricerca. Questo cosa comporta? Innanzi tutto i nostri ricercatori sono costretti ad andare all’estero (dove i progetti di ricerca sono presi in considerazione e spesso vengono finanziati con fondi anche erogati dallo Stato insieme alla partecipazione dei privati ai progetti di ricerca – una cosa impensabile in Italia, almeno sino adesso) per poter lavorare nel settore in cui si sono formati.

Ricerca e sviluppo devono essere in mano allo Stato, che deve poter operare in concomitanza con il settore privato potendo decidere in totale libertà di “dialogare” anche chiedendo che la produzione venga convertita a seconda delle esigenze del Paese. Proviamo ad identificare un paio di settori da sviluppare cercando di capire come lo Stato possa intervenire.

Inoltre, sviluppare tecnologia e ricerca non solo permette di “trovare” una cura, ma potrebbe essere un domani un buon settore di guadagno per lo Stato e per il privato stesso.

a) Ricerca scientifica e produzione

Come possiamo pensare a sviluppare una cura per il Covid-19 senza investimenti nel settore della ricerca medico scientifica? Semplice, non si può. Sviluppare la ricerca medica e scientifica vuol dire che lo Stato deve investire in maniera massiccia nel settore, finanziando progetti di ricerca e sviluppando laboratori all’avanguardia mettendo a disposizione attrezzature moderne per permettere alla ricerca di crescere e di svilupparsi. Non è possibile pensare che la ricerca possa essere fatta in laboratori fatiscenti e con attrezzature antiquate. Il settore della ricerca e sviluppo sarà sempre più un settore nevralgico in una situazione come quella che si sta creando a causa del Covid-19 con la necessità di aumentare le distanze e la necessità di dover ripensare al concetto stesso di lavoro attraverso lo smart working (che in molti casi sta permettendo a diversi italiani di lavorare). Per sopravvivere dovremo necessariamente ripensare al ruolo della ricerca, che dovrà essere sempre più centrale nei piani economici dello Stato. Ovviamente non si può pensare di finanziare la ricerca solo esclusivamente attraverso il pagamento delle tasse, innanzi tutto perché le tasche degli italiani a fine quarantena saranno di fatto impoverite.

Nel settore della produzione avremo sempre più bisogno di produzione di mascherine efficienti (che dovranno essere distribuite su scala nazionale tanto ai singoli cittadini quanto alle strutture mediche) e di camici e tutte le attrezzature necessarie per far fronte all’emergenza. Il punto nevralgico è che lo Stato dovrà necessariamente investire in progetti di ricerca e sviluppo per migliorare le condizioni del cittadino e permettere un graduale ritorno alla normalità privo di rischi.

Scuola e università

Il virus necessariamente cambierà anche le modalità di gestione dei rapporti umani. Da quanto affermato dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Ministero dell’Università e della Ricerca la didattica online dovrà diventare una prassi normale. Pensare ad un modello di istruzione “ibrido” dove la didattica online si integrerà con quella delle ore in classe diventerà una delle priorità del prossimo futuro.

Perché questo aspetto si possa realizzare non è sufficiente fare dei decreti, ma è necessario (forse per la prima volta) fare una riforma che renda la scuola finalmente accessibile a tutti.

Secondo un articolo del portale La tecnica della scuola (clicca per aprire articolo) uno studente su quattro non possiede tablet e computer o ha problemi di rete.

Questo elemento è invalidante per la didattica online e rischia seriamente di creare “studenti di serie a” e “studenti di serie b” dove il discrimine non sarà quello meritocratico della valutazione scolastica ma sarà la possibilità di accedere o meno ai contenuti digitali forniti dalla scuola. Compito dello Stato deve essere quello di fornire a tutti gli studenti la possibilità di accedere alla didattica online attraverso la messa a disposizione di strumenti (tablet e computer) e soprattutto pensare a come offrire il massimo della copertura di rete per consentire a tutti gli studenti l’accesso alla rete.

L’affermazione (sentita da alcuni docenti) “tutti gli studenti hanno un cellulare” può essere facilmente contestata: per quanto lo smartphone possa essere considerato uno strumento sempre più avanzato non sempre è indicato come strumento per seguire le lezioni o per svolgere i compiti. Questo perché il materiale didattico non può essere scaricato su cellulare. Per questo la scuola (attraverso i fondi dello Stato) deve farsi carico di offrire agli studenti con meno opportunità gli strumenti necessari per sviluppare la didattica online e accrescere anche in questo modo le proprie competenze.

Lo sviluppo del settore della didattica online può essere un modo per permettere tanto agli studenti di utilizzare il cellulare in classe (superando quindi la logica del “divieto di utilizzo”) e spiegare il modo corretto in cui usare le tecnologie, pensando magari a delle lezioni su come filtrare le notizie. Inoltre, attraverso un uso corretto della didattica online si potrebbe pensare anche di fornire un servizio di pubblica utilità anche a tutti quelli studenti che per qualche motivo non possono frequentare la scuola (ovviamente questo aspetto comporta che la scuola e lo Stato debbano essere in grado di fornire agli studenti quelli che sono gli strumenti di accesso agli strumenti digitali.

Trasporto pubblico e politiche ambientali

Ovvio che in un contesto dove le distanze tra le persone devono rimanere ad almeno un metro, la situazione che si vive giornalmente in molti mezzi pubblici è insostenibile.

Prendiamo il caso di Roma: già prima della pandemia i mezzi pubblici nella Capitale erano se non proprio al collasso al limite del collasso: mezzi insufficienti (sia per numero che per dimensioni), corse strapiene e impossibilità di mantenere le distanze di sicurezza richieste dal decreto. Questo comporterà inevitabilmente un nuovo aumento delle emissioni di Co2 perché il Comune sarà costretto a riaprire anche quelle zone sino a questo momento considerate “zone a traffico limitato” per consentire ai cittadini di andare al lavoro in macchina. Questo sarà inevitabilmente un problema, perché le misure di sicurezza rischiano di aumentare le cause di inquinamento delle città: maggiori emissioni di Co2, congestione del traffico, mezzi pubblici altamente inquinanti e tutta una serie di altri fattori che rischiano di far tracollare Roma come tante altre città.

Come possiamo far fronte a questa situazione decisamente di emergenza? Ripensando alle nostre politiche ambientali, innanzi tutto. Negli ultimi anni sempre più spesso si è parlato di Green Economy senza che nessuno facesse niente per far fronte alla drammaticità della situazione ambientale, sino a che la situazione non è pericolosamente esplosa esponendo il mondo ad un virus pandemico in grado di stravolgere completamente le nostre vite. Vanno rivisti i nostri parametri di vita, vanno ripensate le modalità dei nostri spostamenti e vanno ripensate mettendo in sicurezza le nostre vite. Secondo uno studio condotto da diversi ambientalisti una delle cause della diffusione del Covid-19 (oltre che la globalizzazione) è stato l’alto tasso di concentrazione di inquinamento nelle principali città del mondo. Il blocco totale delle attività (ma più che altro il blocco totale della circolazione di automobili) ha portato ad una riduzione del 31% solo per quanto riguarda le emissioni delle compagnie aeree (parliamo di 28 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica, l’equivalente della scomparsa di sei milioni di automobili dalla circolazione!) .

Ma come possiamo fare a mantenere questi livelli? Ovviamente è impossibile pensare di tenere fermo il mondo per rispondere all’emergenza ambientale, per cui servono misure urgenti per continuare un lavoro iniziato non dall’uomo ma dalla natura stessa. Soffermandoci sull’Italia è necessario operare sul settore trasporti pensando una riforma organica del settore che favorisca il trasporto su ferro a quello su gomma, quindi:

  1. Potenziamento delle linee di metropolitana (di terra e di superficie);
  2. Potenziamento nell’utilizzo nel trasporto su gomma di mezzi non più a combustione ma elettrici;
  3. Costruzione di una rete capillare di trasporto su rotaia anche nel settore delle Ferrovie che metta per la prima volta in collegamento tutto il Paese ed in questo modo rendere l’utilizzo dell’automobile sempre più inutile;
  4. Costruzione di aree verdi nelle grandi città; non piantare qualche albero ma pensare di sfruttare al massimo quelle che sono le aree verdi presenti nelle ville e nei parchi ogni città, parchi che spesso sono abbandonati a loro stessi ed all’incuria di una Pubblica Amministrazione incapace di far fronte alle necessità del mantenimento delle strutture pubbliche;
  5. Incentivi statali per acquistare macchine elettriche. Allo stato attuale le macchine elettriche hanno un costo inaccessibile restando una sorta di “bene di lusso”, vuoi per i costi di produzione ancora troppo alti vuoi perché le varie lobbie petrolifere continuano a controllare i prezzi del mercato energetico.

Non si può pensare insomma di far tornare tutto come prima, e la nuova frontiera deve essere necessariamente quella di costruire appunto un nuovo tipo di rapporto “uomo – ambiente” cercando di pensare ad una forma di capitalismo alternativo, più incentrato su politiche ambientali e meno sul profitto. Nemmeno l’Italia può essere esentata dal dover modificare molti dei suoi modi di vedere ed i Governi dovranno essere in grado di mettere al centro della propria azione proprio la questione ambientale, pensando non solo ai mezzi pubblici ma anche a come convertire parte delle nostre industrie in qualcosa di sostenibile per l’ambiente e pensando ad un modo pulito di produrre energia, complice anche il crollo del prezzo del petrolio, questo potrebbe essere davvero l’inizio di una svolta epocale, sta solo a noi compiere il passo.

Welfare e salari

L’ultimo punto da prendere in considerazione è quello relativo alla situazione dei salari in Italia, ma qui prima di iniziare va fatta una doverosa premessa: negli ultimi vent’anni in Italia abbiamo assistito ad una progressiva contrazione dei salari. Le politiche salariali in Italia sono state rese obbligate dal non poter svalutare la moneta siamo stati costretti a valutare il potere d’acquisto dei salari, creando lavori sempre più precari a salari sempre più bassi aumentando la forbice tra ricchezza e povertà. Prima di questa crisi esistevano lavoratori a seicento, cinquecento (alle volte anche duecento se non meno) euro mensili, un salario con cui non era possibile permettersi uno stile di vita dignitoso, figurarsi la pretesa del Governo di mettere su famiglia. Aggiungendo a questo il fatto che ormai sono state eliminate tutte le tutele per il lavoratore (creando in questo modo una condizione perenne di precariato e di povertà) si rischia seriamente con questa pandemia di far precipitare il Paese in una crisi economica più grave di quella del Dopoguerra, con l’aggravante che l’agenda economica viene dettata da un organo esterno come l’Unione Europea che sembra avere più a cuore il profitto delle singole banche che non il benessere dei propri cittadini. Siamo dunque di fronte ad una crisi che rischia di far crollare non solo l’Italia, ma l’intero impianto economico dell’Europa che ha dimostrato tutta la sua fragilità.

Prima di rispondere su come operare però sarebbe necessario andare per gradi. Alla fine di questa pandemia saranno tantissimi gli italiani rimasti senza lavoro, soprattutto quelli che lavoravano nel settore turistico, vero motore economico del Paese. I danni a lungo termine che saranno prodotti dall’emergenza Covid sono ancora da quantificare, ma possiamo assicurarci che saranno tanti e colpiranno almeno un lavoratore su tre, creando le condizioni per una povertà diffusa che rischia di far collassare il Paese ancora più che la pandemia e i rischi di un nuovo contagio.

Quello che è assolutamente necessario in questa situazione è che lo Stato si faccia carico di aiutare quella parte di popolazione che rischia di rimanere senza lavoro e senza entrate almeno sino all’estate prossima. In questo potrebbe essere utile ripensare dunque le modalità di distribuzione del reddito, pensando a delle misure economiche per andare incontro alle esigenze dei salari più bassi.

Quello che è necessario fare dunque è “rafforzare” il ruolo dello Stato in quelli che sono i processi produttivi del Paese, tornare a costruire un Stato forte, presente nella vita dei cittadini nei fatti e non solo a parole, sarà un lavoro duro, che non potrà essere completato nell’arco di pochi mesi ma ci vorranno anni, ma se davvero vogliamo uscire dalla crisi e tornare ad essere “competitivi” il processo deve essere obbligato e irreversibile.

Prenderla con filosofia…

Quante volte abbiamo sentito la frase “prendere le cose con filosofia”? Sicuramente tutti più o meno una volta la abbiamo utilizzata come consiglio per qualche amico o per qualche parente, ma che cosa vuol dire esattamente “prendere le cose con filosofia”? O meglio ancora, che cosa si intende davvero con il termine “filosofia”?

Se andiamo a leggere la definizione del termine dato dall’enciclopedia Treccani leggiamo:

filosofia Attività di pensiero che attinge ciò che è costante e uniforme al di là del variare dei fenomeni, con l’ambizione di definire le strutture permanenti della realtà e di indicare norme universali di comportamento.

Spesso quando si parla di filosofia si tende a pensare a qualcosa di astratto, i filosofi sono visti come persone con la testa per aria con le loro “elucubrazioni” sull’essere e su altre questioni che vengono viste come “lontane dal pensare comune”.

Eppure la filosofia non è solo astrazione, perché la speculazione filosofica parte innanzi tutto dall’osservazione della realtà, un aspetto che quasi nessuno tende a considerare quando inizia un approccio allo studio della filosofia.

Per comprendere la filosofia quindi si dovrebbe partire innanzi tutto dalla realtà circostante, osservando il mondo come facevano i filosofi greci e cercare poi di comprenderlo, perché cosa c’è di più reale di un Aristotele che decide di catalogare tutte le specie conosciute?

Proprio partendo da questa idea di fondo vorrei cercare (sempre tempi permettendo) di “raccontare la filosofia” così come la hanno percepita i filosofi, potremmo chiamare questa sezione “Il Cannocchiale” perché è uno strumento che ci permette di vedere più lontano, essere come “nani saliti sulle spalle dei giganti” come diceva Bernardo di Chartres, un aforisma che spiega bene quello che intendo quando dico che per comprendere il presente dobbiamo innanzi tutto partire dal passato. Andando avanti (si spera) con le nostre idee potremmo analizzare il rapporto tra la filosofia e le altre scienze, cercando di dimostrare quanto questa sia collegata alla realtà e quanto possa essere falsa l’affermazione che i filosofi non si occupano delle cose del mondo.

La speranza finale sarà quella di fornire tutti gli strumenti per lo sviluppo di un sapere critico per comprendere la realtà perché come affermava Marx “i filosofi hanno studiato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”.

Seguitemi in questo viaggio, perché sarà lungo e (spero) anche interessante: andremo nell’Antica Grecia – ad Atene – per poi spostarsi nella nascente Europa, dove inizia a dominare prima la Scolastica, poi i pensatori francesi e quelli tedeschi, con la speranza che il viaggio possa essere per voi avvincente quanto lo è stato per me, perché cercheremo non solo di “raccontare” la filosofia non solo studiarla.

Il voto in Spagna, un paio di lezioni sulla sinistra italiana

Nella giornata di ieri si sono svolte le elezioni in Spagna, elezioni da cui sono emersi alcuni dati particolarmente interessanti, alcuni positivi altri negativi ma comunque interessanti in vista delle elezioni europee: cerchiamo di analizzare tutto, partendo proprio dagli aspetti negativi del voto in Spagna.

Il primo dato che emerge è la crescita di VOX, movimento della destra franchista e nazionalista che arriva a prendere il 10% (24 deputati). Un dato da analizzare nel suo complesso per una serie di motivi relativi anche alla storia di Spagna: innanzi tutto la crescita di un movimento che in maniera più o meno esplicita si richiama tanto al sovranismo quanto al periodo franchista è del tutto particolare in un Paese che, come la Spagna, è uscita dalla dittatura fascista di Franco in un periodo relativamente recente (1978). L’ondata di destra che colpisce l’Europa anche visti i risultati in Francia del partito di Marine Le Pen ed in Italia con la Lega di Salvini (sebbene quest’ultimo non abbia nessun legame storico con il fascismo o alla tradizione che esso richiama) deve far riflettere tutte quelle forze – da sinistra a destra – che in qualche modo si richiamano al pensiero liberale ed alla tutela di quei valori “democratici” che sono stati alla base della costruzione del progetto europeo. Progetto europeo che in qualche cosa deve aver fallito se sono cresciuti in maniera esponenziale i movimenti nazionalisti.

La seconda considerazione è quella che riguarda il PSOE, che esce da queste elezioni come vincitore, con il 28,7% e 123 deputati, percentuale di certo non sufficiente per formare un Governo in solitaria ma di certo sufficiente per poter dire che la sinistra quando fa cose di sinistra viene premiata. Nella passata legislatura, quella insieme a Podemos! il PSOE ha fatto passare una serie di misura di “sinistra” come l’aumento del salario minimo ed una legge patrimoniale su patrimoni sopra i 100 mila euro, tutte leggi che sono state accolte favorevolmente da un elettorato di sinistra. Tutto questo mentre il Partito Popolare crolla letteralmente al 16,7%.

Perde qualcosa la lista a sinistra del PSOE “Unidos Podemos!” che prende comunque un dignitoso 14,3% prendendo 41 deputati a fronte dei 71 delle scorse elezioni. Un calo segnato soprattutto dagli “scandali” e dalle discussioni che sono sorte intorno alla figura del suo portavoce Pablo Iglesias ma soprattutto di fronte ad una serie di scelte non proprio chiarissime sulla questione dell’indipendenza catalana. Il dato interessante è che comunque quei voti persi da Podemos non possono essere considerati “dispersi” perché sono comunque rimasti nell’ambito della sinistra, visto che sono andati al PSOE (la cui traduzione del nome, farebbe bene ricordarlo è Partito Socialista Operaio di Spagna), una lezione che in qualche modo potrebbe essere utile anche per la sinistra italiana, come detto sopra: la sinistra vince non solo se unita ma soprattutto se porta avanti politiche di sinistra, come successo in Spagna. Certo, non è una situazione semplice quella della formazione di un Governo visto che non esiste una maggioranza certa però di sicuro non si andrà incontro a “Governi di larghe intese” visti i risultati.

Si tratta ora di stare a vedere che cosa succederà nella formazione del Governo, ovvero quali maggioranze si formeranno e sulla base di quale progetto di Paese però una considerazione la possiamo fare: per arginare il populismo di destra non si deve essere meno populisti e più istituzionali seguendo comunque una linea di condotta liberista, ma bisogna avere la forza ed il coraggio di proporre soluzioni per uscire dalla crisi “da sinistra”, è possibile, Spagna e Portogallo lo hanno dimostrato, cerchiamo di elaborare un progetto anche in Italia, è la sola strada per arginare la Lega di Salvini e recuperare il consenso perduto.

Lo studio del cervello, nuova frontiera della scienza?

Il cervello è uno dei più complessi organi dell’uomo, comprendere come funziona sarà la nuova frontiera della scienza

Il cervello è da sempre l’organo che più di tutti affascina medici e scienziati. La comprensione di come funziona il cervello umano risulta essere una delle missioni più importanti della scienza contemporanea, non solo in campo medico ma anche nel campo dell’informatica (attraverso i processi di apprendimento delle AI che simulano il cervello umano, ad esempio in quel settore che viene chiamato machine learning).

Secondo Isaac Asimov il cervello è l’organizzazione della materia più complessa che conosciamo.

In medicina molte delle patologie che vengono studiate partono proprio dal cervello, come ad esempio l’Alzheimer (ricordando una delle più gravi) sino ad arrivare alla dislessia (per citare una delle patologie meno gravi).

Una maggiore comprensione del nostro organo più complesso, tuttavia, non è necessaria solo per le cure mediche ma anche e soprattutto per comprendere come e se è possibile migliorare le funzioni del cervello, attraverso alimentazione, stimoli e qualunque altro mezzo le scienze comparate possano mettere a nostra disposizione per comprenderne il funzionamento.

Apro una nuova sezione del blog, che si occupa di scienza a partire proprio dal cervello (ci vorrà un poco a leggere articoli su questo tema vista la complessità dell’argomento, quindi vi chiedo solo di avere pazienza. Una sezione in cui occuperemo non solo dei processi del cervello applicati alla tecnologia ma anche a domande del tipo: come impariamo una lingua? Quali sono le sezioni del cervello che stimolano lo sviluppo del linguaggio? E altre domande che si potrebbe porre chi è interessato ad una maggiore comprensione del cervello umano. Gli articoli cercheranno di avere un taglio scientifico ma che sia fruibile a tutti per cui molte volte dei termini magari “scientifici” saranno esemplificati per dare maggiori strumenti di comprensione a chi legge. Per questo motivo chiedo un po’ di tempo perché l’articolo possa essere il più completo possibile.

Sperando come al solito che continuerete a seguirci con attenzione #staytuned come sempre

Intellettuali folgorati dai populisti

Una interessante disamina sul ruolo degli intellettuali nell’era del populismo.

Azioneparallela

vanvera-pensa

Lo scollamento fra il sistema politico e il Paese sta tutto in un numero, che campeggiava ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, in cima all’editoriale di Galli della Loggia. Il 58% degli italiani non si riconosce nei partiti che hanno governato il Paese durante tutto il corso della seconda Repubblica, di destra o di sinistra che fossero. Ora, quel numero è falso. O perlomeno: è frutto di una somma, di per sé discutibile, fra il tasso di affluenza previsto (non si sa da chi) alle elezioni politiche del prossimo anno, e le dimensioni del voto per i Cinquestelle (la cui stima viene affidata ai sondaggi, abbondantemente arrotondati per eccesso). Ci sono, in vero, modi intellettualmente molto più limpidi di schierare un giornale.

Ma non è ovviamente dei numeri e delle percentuali che vale la pena discutere, quanto piuttosto del ragionamento in cui vengono inseriti. Che è grosso…

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La politica distante, storia di una classe dirigente incapace di dirigere

Che dati emergono dalle ultime tornate elettorali amministrative terminate nemmeno una settimana fa?

Un paio di dati interessanti: prima di tutto una netta vittoria della destra (o del centrodestra come preferite) che dimostrano come se le destre lavorano unite non ci sono avversari che possano tenere.

L’asse portante della destra alle ultime amministrative è stato lo schema Forza Italia- Lega Nord, forse l’alleanza più duratura mai esistita nel Ventennio della Seconda Repubblica e che in qualche modo rischia di dominare anche l’avvento della Terza Repubblica, ritornando prepotentemente alla ribalta prima del voto nazionale.

Altro dato che emerge: la scomparsa della sinistra, il che di sicuro non può essere considerata una buona notizia, qualunque cosa si pensi della “sinistra”.

Anche se qui sarebbe necessaria una disamina complessa che parta da un problema atavico della sinistra sin dallo scioglimento del Partito Comunista nel lontano 1992: il progressivo allontanamento da quelle che sono le dinamiche sociali proprie di una sinistra ispirata ad una ideologia marxista ed il continuo e costante inseguimento di quelle che sono le dinamiche e le prospettive di una società impostata sul capitalismo finanziario poi tramutatosi in capitalismo finanziario.

Incolpare solo Matteo Renzi sostenendo che il Partito Democratico ha virato a destra vorrebbe dire non riuscire a comprendere quello che è un problema più generale della “sinistra” che nella parola stessa contiene il germe della sua crisi: cosa vuol dire il termine “sinistra”?

Difesa dei diritti sociali? Difesa del lavoro? Lotta al capitalismo? O adeguamento a quelli che sono alcuni principi del capitalismo?

Quali sono le prospettive della sinistra? Andare al Governo, va bene ma poi? Che cosa hanno intenzione di fare? Il timore che dietro la “coalizione delle sinistre” manchi l’ambizione di un progetto è sempre dietro l’angolo e temo che anche gli elettori se ne siano accorti e per questo hanno deciso di non premiare le coalizioni di sinistra se non in qualche raro e sporadico caso.

Il Partito Democratico è quello che paga di più la sconfitta in termini elettorali, inutile nascondere un dato sotto gli occhi di tutti: anche qui però se le analisi sono finalizzate a cercare un colpevole invece che fare una disamina consapevole di quanto accaduto si rischia di non riuscire a cogliere quella che è la lezione del voto di domenica.

Non si può attribuire la colpa al solo Matteo Renzi, come i renziani non possono dare la colpa a chi non sostiene Renzi; l’elettorato ha punito un partito diviso, che nell’ultimo anno e mezzo non ha assunto una posizione comune su niente e non dico solo sulla riforma costituzionale ma nemmeno sulla scuola, su riforma del lavoro, su welfare, nemmeno sui diritti civili.

Pensare che un partito possa sopravvivere vivendo da “separati in casa” è stata in parte la rovina del Partito Democratico,tanto che alla fine, quando la tensione è esplosa in tutte le sue contraddizioni si è arrivati alla inevitabile scissione.

Una scissione che alla fine dei conti non aveva una connotazione ideologica, ma sin da subito ha rilevato un carattere ante personam che ha portato alla costruzione di un clone del Partito Democratico senza Matteo Renzi, tanto che la loro proposta elettorale è quella della riproposizione dell’Ulivo con Romano Prodi architrave dell’alleanza come se negli ultimi venti anni nulla fosse cambiato.

Altro discorso va fatto per i Cinque Stelle: nel periodo di loro massima espansione sono riusciti, loro malgrado, ad intercettare da una parte il voto degli “orfani della destra” e dall’altra dei “rivoluzionari della sinistra”  creando così una realtà eterogenea che possiamo definire – se mi passate il termine – centrista incazzato.

L’elettore medio dei Cinque Stelle non ha una precisa collocazione ideologica, o se la ha la ha messa da parte in nome del “andate tutti a casa” che alla fine resta il solo messaggio dei Cinque Stelle.

Ma basta questo per governare? No, nemmeno per idea; per questo i fallimenti di Roma (ed in misura minore di Torino) hanno fatto crollare i consensi anche nei confronti del movimento di Beppe Grillo, se a questo aggiungiamo che il solo sindaco che avevano che ha governato bene lo hanno cacciato come un “eretico” (Federico Pizzarotti)a  Parma ecco spiegate in parte le ragioni del fallimento a Cinque Stelle.

Insomma, le elezioni – come ha ben ravvisato Tommaso Cerno nel suo ultimo editoriale sull’Espresso sono state vinte decisamente dall’astensionismo che in questi ultimi anni è il vero elemento costante nelle elezioni in Italia.

Una seria analisi del voto non può non tenere conto dell’alto astensionismo, un messaggio più che chiaro all’intera classe politica, un messaggio rivolto a tutti verso un deciso cambio di passo, cambio di passo che non sia fatto solo a parole ma che sia soprattutto realizzato nei fatti.

Un altro aspetto che andrebbe approfondito è quello della totale mancanza di una classe dirigente capace di far fronte alle tante emergenze del Paese.

Anche qui le cause possono essere molteplici: innanzi tutto la mancanza di volontà della generazione precedente di preparare le classi dirigenti del futuro nel timore che queste in qualche modo potessero scalzarle (cosa che poi è avvenuta però con un livellamento verso il basso invece che verso l’altra) e dall’altra parte con un progressivo abbassamento del livello scolastico che ha portato a quella che possiamo definire precarizzazione della cultura che a creato una classe di persone che potrebbero essere definiti analfabeti disfunzionali. 

Il livello del dibattito è particolarmente basso, così come i dirigenti che lo portano avanti e senza una seria scuola di formazione per dirigenti non saremo mai in grado di uscire dalla palude che noi stessi ci siamo creati.

Insomma, l’Italia per uscire dalla crisi deve radicalmente cambiare passo, la Terza Repubblica deve rimettere al centro di tutto la politica, la formazione dei quadri dirigenti e le politiche del territorio; emulando quanto di buono è stato fatto dai vecchi partiti di massa, in qualche caso andrebbero anche recuperate le idee e le ideologie, adeguandole ai tempi, certo ma non abbandonandole bensì recuperandole, riaprendo in questo modo il dibattito sulle idee e non sulle persone.

 

 

La scarsa lungimiranza della minoranza PD (a sinistra manca sempre un progetto)

Quest’estate è segnata dal tema dell’immigrazione, della crisi del sistema bancario italiano (Monte dei Paschi di Siena, banca più antica del mondo avviata ormai verso una svendita per salvarsi dalla bancarotta), del mutato contesto geopolitico dopo il golpe in Turchia – e la formazione di un nuovo asse turco-russo -, la crisi del terrorismo internazionale di matrice islamica attraverso la guerra lanciata dall’IS, e la crisi del sistema bancario europeo.

In tutto questo contesto la minoranza del Partito Democratico, quella che si richiama ai “valori della sinistra” traditi dal segretario di cosa si occupa?

Del modo per fare fuori Renzi, parla di papi stranieri (quelli che io ho definito più volte candidati figurina), parla di votare No al referendum non opponendosi nel merito della riforma (E dire che di cose di cui parlare ce ne sarebbero in questa riforma costituzionale), ma sperando in questo modo di poter battere Renzi al Congresso del PD che in caso di sconfitta sarebbe imminente e necessario.

La cosa più assurda è che la sinistra potrebbe anche essere disposta a sostenere in caso di caduta di Renzi un nuovo governo tecnico sul modello del Governo Monti che rimetterebbe mano ai conti, alzerebbe le tasse e imporrebbe nuove misure di austerity sempre al grido di “lo vuole l’Europa”.

Il fatto è che la sinistra italiana mostra di non avere un progetto, di andare in nessuna direzione nemmeno “ostinata a contraria” come direbbe De André, dimostra non solo una pericolosa mancanza di leader ma anche di visione e di progetti.

Il solo argomento che trovano è quello del fare fuori Renzi, accusato di ogni nefandezza di sistema come se loro ne fossero stati esenti.

Fu Bersani a stracciare il progetto di un centrosinistra unitario decidendo di sostenere il Governo Monti, fu sempre la segreteria Bersani a scegliere la continuità del Governo Tecnico eleggendo alla Presidenza della Repubblica Giorgio Napolitano al posto di Stefano Rodotà come chiedeva a piazza, perché forse Rodotà avrebbe sciolto le Camere per tornare al voto dato che mancava una maggioranza chiara che potesse ottenere l’incarico di governo.

Tutto avveniva mentre al Congresso la minoranza si presentava divisa in due tronconi (Civati e Cuperlo) senza una soluzione di continuità, senza uno straccio di idea di come fare minoranza senza visione del futuro.

Ecco, quello che manca al PD non è un leader ma una visione di futuro. La sinistra si limita a navigare a vista, nella pia illusione che le cose possano cambiare da sole, che si prima o poi “addà passà la nottata”. Rotto il rapporto con il marxismo completamente abbandonato, inseguiti per anni principi di economia neoliberista imitando un modello americano che si è dimostrato fallimentare ha smesso di inseguire gli elementi di innovazione del principio berlingueriano del partito di lotta e di governo scegliendo di essere né l’uno né l’altro.

Tracciare una via non  è mai semplice, soprattutto quando si tratta di argomenti “spinosi” come economia, geopolitica, politiche di immigrazione.

La sinistra italiana ha deciso di prendere a modello un sistema rassicurante di idee preso un poco dalla tradizione democristiana un poco da quella comunista miscelando le cose e creando un partito che altro non è che un coacervo di personaggi alla ricerca di notorietà e di nomine senza una visione politica.

Se la sinistra italiana vuole rinascere deve innanzi tutto smettere di imitare modelli esteri, cercando una “via italiana al progressismo” così come  suo tempo aveva cercato una “via italiana al socialismo” perché questo sia possibile è necessario investire forze e risorse nella formazione di una nuova classe dirigente, prendendo persone da quella “generazione Erasmus” che ha fatto suoi i valori del multiculturalismo e del progressismo e che oggi si trova spaesata, abbandonata da politica e sindacati senza nessuna forma di tutela e senza ambizione del futuro.

Si tratta di rimettere al centro al concetto di “lavoro” evolvendo quel pensiero marxista che parlava di plus valore cercando ad un metodo di applicazione pratica dei principi del marxismo alla società a capitalismo avanzato, senza nostalgie del passato, senza pensare  alla vecchia idea del “si stava meglio quando si stava peggio” ma lavorando davvero ad una alternativa di sistema, costruendo e non distruggendo, tessendo non disfacendo, discutendo e non accusando. In occasione delle ultime elezioni amministrative ho sentito diversi commenti che hanno scaricato l’intera colpa delle sconfitte alla politica di Renzi  al Governo senza rendersi conto che quella sconfitta è figlia di almeno cinque anni di errori che hanno sfiancato gli elettori ed i simpatizzanti dirottando voti sui Cinque Stelle.

Se davvero l’idea è quella di battere Renzi non posso che essere d’accordo con Cacciari: serve non un papa straniero ma un nuovo gruppo dirigente, una nuova proposta politica e un nuovo modo di pensare il concetto stesso di politica, rimettendo al centro il cittadino e la sua idea di partito, aprendo all’associazionismo, non usandolo puramente come “bacino di voti” ma come potenziale per concepire nuove politiche.

Senza questa concezione di “partito nuovo” sarà impossibile non solo sconfiggere Renzi ma anche pensare di battere i Cinque Stelle, che sono a mio avviso i veri eredi della concezione della politica berlusconiana (con qualche elemento di socialismo).

La Guerra del Terrore

Questo 2016 è stato funestato, uno da una serie di attentati che hanno colpito tutto il mondo: Orlando, Parigi, Nizza, Istambul (non se lo ricorda nessuno o quasi ma anche la Turchia è stata colpita da attentati di Daesh), Monaco, ed ancora l’ultimo massacro compiuto dentro una Chiesa in Normandia.

Quello che colpisce più di tutto è come queste persone sono talmente tanto sprezzanti della vita umana che non esitano a morire per una causa folle come quella della costruzione dello Stato Islamico.

Il fatto che la loro organizzazione ricordi per molti versi quella capillare di Al Quaeda dimostra come dal 2001 (anno delle Torri Gemelle) l’Occidente abbia perso la guerra al terrore, di come la strategia usata da Bush si sia rivelata alle lunghe estremamente fallimentare.

Inutile negare che l’eliminazione di Saddam Hussein prima e di Assad in Siria poi abbiano destabilizzato delle zone che si reggevano su un fragilissimo equilibrio mantenuto con il terrore ma che garantiva comunque alle formazioni estremiste di proliferare in zone potenzialmente esplosive.

Il fenomeno del terrorismo globale, quel fenomeno che l’Europa non riesce è un fenomeno non recente. Da sempre lo scopo dei movimenti terroristici era quello di seminare il terrore e sino a questo momento lo avevano fatto seminando il panico spesso in nome di un’ideologia, di un dio utilizzando delle metodologie facilmente identificabili.

Daesh ha fatto un passo avanti: rispetto al Al Quaeda – ed altri movimenti terroristici legati all’integralismo islamico – non promette il Paradiso in caso di martirio o di uccisione dell’Infedele, ma promette la costruzione dello Stato Islamico in tutto il mondo attraverso quelli che vengono definiti “i propri soldati”. E questi soldati non possono avere profili più diversi tra loro: ragazzi, adolescenti, persone che si sentono escluse dal mondo in cui vivono, reietti, ma anche figli della borghesia (come successo ad esempio per gli attentati in Bangladesh) unico comune denominatore: l’appartenenza alla religione islamica. Sono impossibili da identificare (tranne in qualche caso in cui qualche misura di sicurezza in più si sarebbe potuta prendere, come nel caso di Nizza o di Roeun dove uno dei due attentatori era agli arresti domiciliari) perché non hanno una struttura precisa, IS (Islamic State) è un brand,  una sorta di “marchio del terrore” a cui tutti possono aderire, basta che appartengano alla religione islamica.

L’escalation del terrore da parte di Daesh ha uno scopo: quello di alimentare reazioni scomposte da parte dell’Europa e scatenare una Terza Guerra Mondiale, per molti versi una tattica molto simile a quella che che nel corso del Novecento venne usata dalla Germania prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale (a mio avviso ci sono molte assonanze tra e le parole d’ordine del Daesh e quelle del partito nazista sebbene obiettivi e finalità possono essere considerate diverse).

Una volontà di potenza dunque, mischiata alle teorie millenaristiche della costruzione dello Stato Islamico ed una promessa di riscatto per tutti quei musulmani che apparentemente si sentono esclusi dalla vita dell’Occidente o non se ne sentono parte. Il reclutamento online, che suggerisce chi e cosa colpire alimentando l’odio contro la cultura occidentale è alla base delle tattiche di Daesh.

Cpme sconfiggere questo fenomeno?

Ovviamente non bastano le politiche contro l’immigrazione proposte da diversi esponenti di governo soprattutto della destra lepenista e da Salvini in Italia. Costruire muri, disgregare l’Europa è esattamente quello a cui punta Daesh: un nemico diviso è un nemico debole (come insegna qualunque trattato di guerra), non basta nemmeno andare a colpire con bombardamenti Siria ed Iraq, prima di tutto perché in questo modo si alimenterebbe nuovo odio nei confronti dell’Occidente (l’Islam radicale è sempre molto bravo a scaricare le colpe sull’imperialismo occidentale) sia perché è difficile identificare un vertice da colpirre e non è detto che eliminata la testa il corpo non possa andare avanti da solo.

Come suggeriscono molti analisti per colpire ed eliminare quello che è il vero nemico dell’Occidente andrebbe creato un servizio di intelligence che lavori su più fronti: da una parte quello della sicurezza, ma dall’altro anche quello che analizza e studia le forme di finanziamento del terrorismo di matrice islamica: dove prendono le armi? Come le paganop? Come vengono reclutati i “soldati”?

Un’ultima notazione: dei molti attentati dell’ultimo periodo non ci sono prove evidenti che l’atto terroristico sia direttamente riconducibile all’Is. Spesso la rivendicazione dell’attentato avviene solo dopo l’attentato stesso, quando l’attentatore non può smentire l’IS; spesso ho la sensazione che l’IS rivendichi gesti dei folli per avere risalto mediatico, per questo motivo servirebbe un servizio di intelligence che prevenisse il terrorismo islamico invece che intervenire con le indagini ad attentato avvenuto.