La conversione dell’Innominato, una delle pagine più toccanti della Letteratura Italiana

Per intere generazioni di studenti i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è stato un vero e proprio incubo. Spesso letto per “costrizione” e spiegato in maniera pedissequamente didattica il romanzo di Manzoni è diventato uno dei più odiati dagli italiani.

Eppure, nella sua complessità (non si tratta sicuramente di un romanzo di facile lettura me ne rendo conto) il romanzo riesce a colpire per la toccante sensibilità di alcuni episodi e per la grande capacità di Manzoni di “raccontare” storie e personaggi che (se “raccontati bene”) possono essere parte dell’immaginario collettivo.

Uno dei personaggi in questione è senza ombra di dubbio la figura dell’Innominato che ci viene presentata nei capitoli che vanno dal XX al XXIII. Ammetto che la presentazione non è delle migliori: l’Innominato viene descritto come il “peggiore dei criminali”, una di quelle figure che oggi chiameremmo “boss” che incute timore ai disgraziati quando ai potenti. Eppure Manzoni riesce sin da subito a mostrarci una figura complessa, piena di dubbi e con la volontà di mettere in discussione la propria vita ed il proprio operato. Già nel capitolo XX Manzoni inizia a “preparare” il lettore ad una possibile redenzione del personaggio (protagonista di un vero e proprio romanzo nel romanzo) visto che possiamo leggere:

Era aspettata dall’Innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che di tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel mettere le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore.

Già in questo breve passaggio possiamo notare come l’Innominato inizi ad avere dei dubbi “etici” sulla sua vita. Colpisce anche la scelta dei termini utilizzati dal Manzoni, a partire proprio dalla parola finale: terrore. Come a dire, colui che ha terrorizzato tutta la Lombardia con i suoi crimini prova a sua volta terrore all’arrivo di Lucia, rapita per una promessa fatta a Don Rodrigo ed ennesimo crimine commesso dall’Innominato.

L’Innominato ci viene presentato (sin da questo breve passaggio) come una figura tormentata, complessa, alla fine quasi della sua vita e per questo pieno di dubbi, costretto a fare un bilancio della propria vita e chiedendosi “che cosa ho fatto per essere ricordato? Cosa ho fatto per meritare la salvezza?” la risposta “niente, hai fatto solo del male” è un vero e proprio pugno allo stomaco, una risposta che lo atterrisce e lo spaventa, una risposta interiore che lo costringe e restare da solo con sé stesso e scoprire che non si piace.

La conversione dell’Innominato ci viene raccontata da Manzoni con un crescendo di colpi di scena: dalla volontà di ordinare ai suoi bravi di mandare direttamente Lucia da Don Rodrigo e togliersi la “seccatura”. Una scelta egoistica dettata da un motivo “nobile” quello della redenzione, anche se ancora viziata dal proprio egoismo.

Il punto di svolta è forse proprio l’incontro con Lucia, con la sua bontà. Le domande che si affollano nella mente dell’Innominato durante l’incontro con Lucia sono domande che scuotono la mente del criminale. Come può una persona che è stata rapita e sequestrata, a cui è stato impedito il matrimonio parlare di “perdono”? Come può una simile persona riporre la fiducia in Dio se quello stesso Dio la ha abbandonata? Tutti questi pensieri si affollano nella mente tormentata dell’Innominato sino al punto di svolta vero e proprio: il suono delle campane a festa che annuncia l’arrivo del cardinale Federigo Borromeo.

Qui siamo al secondo colpo di scena: l’incontro tra i due è indubbiamente una delle pagine più belle della letteratura italiana. Potremmo definire l’incontro come “l’incontro del diavolo con l’acqua santa”. Prima di andare avanti però parliamo un attimo della figura del cardinale. Ci troviamo sin da subito di fronte ad una figura che ha un alone di santità attorno a sé. Già quando viene annunciata la presenza dell’Innominato dal cappellano il quale (visto che santo non è) prova timore di fronte a quella figura, non vuole farla entrare perché è un peccatore che potrebbe mettere a rischio la vita del cardinale, il quale invece vive la fede come una missione e quindi è ben contento di accogliere una “pecorella smarrita” che vuole tornare all’ovile. Salvare un’anima come quella dell’Innominato nella sua visione del mondo vale molto di più che salvare mille anime di “fedeli”. In questo passaggio Manzoni tra le altre cose esprime la sua visione della religione, vista come elemento salvifico dell’umanità intera e come vero e unico elemento in grado di “cambiare” realmente le cose nel mondo. Il ruolo della Divina Provvidenza, sempre molto presente nel romanzo di Manzoni si vede chiaramente anche in questo caso. La salvezza di Lucia arriverà proprio per mano di colui che è il peggiore di tutti i cattivi presentati sino a questo momento, da un animo malvagio, che non ha mai conosciuto il bene. Arriva per mano del cardinale, che con la sua sola presenza e con un semplice gesto riesce a redimere l’animo corrotto dell’Innominato, il quale dopo aver confessato i suoi peccati (non una confessione diretta, ma una vera e propria “ammissione di colpa”) si abbandona completamente sulla spalla del cardinale e piange. Un pianto liberatorio, di inesprimibile felicità che segna una rinascita morale e spirituale che sarà fondamentale nel procedere della storia.

Possiamo dire che l’episodio della conversione dell’Innominato è quel punto di svolta nella storia che si attendeva dall’inizio in attesa del lieto fine (anche a causa di questo Manzoni lo mette nella parte centrale del romanzo).

Da un punto di vista emotivo, possiamo lasciarci con un commento: che valore ha un abbraccio?

Prospettive per lo studio della storia

Probabilmente la storia a scuola è una di quelle materie odiate dagli studenti così come lo sono la lingua latina (per gli studenti delle superiori) o come lo sono la matematica o altre materie “potenzialmente noiose”.

Ho già affrontato su questo blog in altri articoli il rapporto che la scuola dovrebbe avere con la storia (nella maggior parte dei casi insegnata male e solo seguendo uno schema dove basta imparare a memoria qualche data per comprendere la storia) ma ho deciso di ritornare sul tema.

Innanzi tutto perché prima di essere qualunque cosa sono uno “storico” e quindi mi interessa che la materia a cui ho dedicato la mia intera vita (o parte di essa) venga studiata nella maniera migliore e venga apprezzata dagli studenti almeno tanto quanto la ho apprezzata io.

Prima di iniziare però cerchiamo di rispondere ad una domanda: chi è lo storico?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo prima rispondere ad un’altra domanda: che cosa è la “storia”?

No, non intendo la materia che ti fa conoscere il passato, insomma quella dove ci sono le date della Seconda Guerra Mondiale o dei Governi Giolitti (giusto per citare due eventi legati alla storia d’Italia) intendo letteralmente: cos’è la storia?

Letteralmente, se risaliamo alla sua etimologia originale greca

obabilmente la storia a scuola è una di quelle materie odiate dagli studenti così come lo sono la lingua latina (per gli studenti delle superiori) o come lo sono la matematica o altre materie “potenzialmente noiose”.

Ho già affrontato su questo blog in altri articoli il rapporto che la scuola dovrebbe avere con la storia (nella maggior parte dei casi insegnata male e solo seguendo uno schema dove basta imparare a memoria qualche data per comprendere la storia) ma ho deciso di ritornare sul tema.

Innanzi tutto perché prima di essere qualunque cosa sono uno “storico” e quindi mi interessa che la materia a cui ho dedicato la mia intera vita (o parte di essa) venga studiata nella maniera migliore e venga apprezzata dagli studenti almeno tanto quanto la ho apprezzata io.

Prima di iniziare però cerchiamo di rispondere ad una domanda: chi è lo storico?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo prima rispondere ad un’altra domanda: che cosa è la “storia”?

No, non intendo la materia che ti fa conoscere il passato, insomma quella dove ci sono le date della Seconda Guerra Mondiale o dei Governi Giolitti (giusto per citare due eventi legati alla storia d’Italia) intendo letteralmente: cos’è la storia?

Letteralmente, se risaliamo alla sua etimologia originale greca
ἱστορία il termine indica letteralmente “indagine, investigazione, ricerca”.

Qui dunque ci possiamo porre la prima domanda: la storia è ricerca di cosa?

Di solito quando si parla di “ricerca” siamo tutti abituati a pensare che la ricerca si faccia in chimica, in fisica, in biologia o in materie appunto che consideriamo “scientifiche”, facendo una distinzione tra “materie scientifiche” e “materie umanistiche”.

Eppure vi posso sorprendere dicendo che quella distinzione non esiste se non nella nostra mente.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: di che cosa si occupa esattamente la storia? Quali sono i suoi campi di ricerca?

Possiamo dare una risposta dicendo che la storia si occupa di studiare l’uomo.

Meglio ancora, la storia “racconta l’uomo ed il modo in cui questo interagisce con l’universo ed il modo in cui lo modifica attraverso le sue decisioni”.

In un articolo precedente ho già ipotizzato la storia attraverso la descrizione di tre eventi tra loro apparentemente scollegati ma che possono invece avere tra loro una connessione logica per cui senza il primo non si sarebbe potuto verificare il secondo. (https://smirnoffsite.wordpress.com/2018/10/13/storia-maestra-di-vita-se-insegnata-nella-giusta-maniera/)

Possiamo provare ad allargare ora lo spettro di quell’esperimento ponendoci una serie di domande su alcuni eventi storici e sulle conseguenze sulla storia dell’evoluzione umana, partendo da una cosa facile di cui tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta, ovvero la Guerra Fredda.

Con il termine Guerra Fredda si indica il periodo che seguì la fine della II Guerra Mondiale e che vide Unione Sovietica e Stati Uniti.

La Guerra Fredda ci sarebbe stata senza la Rivoluzione d’Ottobre di Lenin? Ed ancora la Rivoluzione ci sarebbe mai stata se la Russia fosse rimasta neutrale nella Prima Guerra Mondiale?

Ripetendo questo schema potremmo arrivare ad analizzare ogni evento alla luce degli eventi precedenti cercando di capire come le interazioni dell’uomo nell’universo abbiamo modificato la struttura degli eventi sino a compiere un determinato evento.

Ribaltando questo schema potremmo prevedere gli eventi futuri sulla base degli eventi del passato, non utilizzando qualche potere misterioso ma prendendo in considerazione tutte le variabili che si possono prendere in considerazione nell’analisi di un singolo evento.

Insegnare “La Storia” dunque vuol dire insegnare il modo in cui l’uomo interagisce con l’universo circostante? Se limitiamo la nostra concezione della “storia” allo studio del singolo essere umano allora sì, però possiamo andare oltre e per farlo dobbiamo allargare la nostra mente e cambiare la nostra prospettiva sulla “storia”.

Dunque, con il termine “storia” si inizia a parlare di storia solo nel momento in cui l’essere umano inizia a scrivere prima si parla di “Preistoria” e la materia che ne occupa è la Paleontologia.

Ma quello che era prima dell’uomo non è storia?

Forse dobbiamo uscire dalla nostra visione “antropocentrica” della storia per poterla comprendere meglio e poter spiegare tutta la sua complessità ai nostri studenti, perché si possa fare partiamo da un singolo evento, anche minimo e chiediamoci, come è iniziato tutto? In breve arriveremo a costruire uno “schema scientifico” che va dall’antropologia alla fisica, passando per altre materie che ci possano aiutare a “superare” la visione della storia come materia vuota, chiusa in sé stessa, come semplice materia dove bisogna ricordare due date in fila.

Stili di apprendimento, psicologia dietro la cattedra

“Stili di apprendimento” che cosa sono esattamente e come possono essere utilizzati al meglio da un docente? 

Prima di di iniziare a scrivere vi dico subito che non ho la pretesa di essere il migliore dei docenti ma semplicemente di condividere con quanti sono interessati alla formazione del corpo docente di fornire qualche indicazione su quella che è la mia esperienza “pratica” ed in qualche caso anche “teorica” del lavoro di insegnante. 

Spesso si è pensato che insegnare fosse semplicemente entrare in classe fornire una serie di nozioni agli studenti e che tutti potessero apprendere allo stesso modo, se non apprendevano erano loro a sbagliare di certo non era il metodo di approccio dell’insegnante ad essere errato. 

Quando si insegna bisogna sempre cercare di tenere da conto che ogni studente è una persona ed ogni persona apprende le cose in modo diverso rispetto ad altri.  Per questo la didattica recente ha elaborato un modello che viene definito di stili di pensiero utili per comprendere come apprendono gli studenti e quali possono essere i diversi approcci per diversi stili. 

Innanzi tutto andiamo nel dettaglio cosa intendiamo esattamente con il termine “stile di pensiero”? 

Uno stile di pensiero è un modo di pensare preferito. 

In qualità di individui non abbiamo un solo stile ma quello che viene definito “un profilo di stili”. 

Per questo motivo la didattica ha elaborato quella che possiamo definire una “teoria dell’autogoverno mentale” che cosa vuol dire esattamente? 

L’idea alla base della teoria dell’autogoverno mentale è che le forme di governo nel mondo non siano solo una mera coincidenza ma sono una forma di analogia tra l’organizzazione della mente del singolo e la nostra società. 

Per spiegare meglio il concetto utilizzeremo una terminologia “politica” o per meglio dire una terminologia legata alla forma di governo. 

Un Governo deve svolgere tre funzioni: 

  1. ESECUTIVA 
  2. LEGISLATIVA 
  3. GIUDIZIARIA. 

Applicando lo stesso criterio alle persone possiamo fare una suddivisione più o meno simile. 

PERSONE LEGISLATIVE

Possiamo raggruppare all’interno di questo gruppo quelle persone a cui piace fare le cose a modo loro, ovvero preferiscono stabilire da sole “cosa devono fare” e soprattutto “come farlo”. 

All’interno di questo gruppo possiamo mettere creativi, grafici, e tutte quelle cose che hanno a che fare con la “fantasia”- Questo stile tende a favorire la “creatività” rispetto alla “praticità”. 

PERSONE ESECUTIVE

Rientrano in questa categoria tutte quelle persone che sono propense a seguire le regole. Amano “colmare lacune nelle strutture esistenti” piuttosto che creare, potremmo dire che in questo gruppo rientrano avvocati, dirigenti, politici e tutti quei mestieri in cui si necessita di un “ordine mentale preciso”. 

PERSONE GIUDIZIARIE

All’ultima categoria appartengono tutte quelle persone a cui piace valutare le regole e le procedure, che tendono a preferire problemi che si possono analizzare e che possono essere considerati come esistenti. In questa categoria possiamo mettere storici, filosofi, matematici, fisici. 

Ad ognuno di questi stili corrisponde una tipologia di persona, per la precisione ne abbiamo tre: Monarchica, gerarchica, oligarchica, anarchica andiamo a vedere nel dettaglio le caratteristiche di queste tre persone: 

PERSONA MONARCHICA

Si tratta di un individuo risoluto, che si lancia nelle imprese con tutto sé stesso in qualunque impresa o interesse e che tende a non permettere a nessuno di frapporsi tra lui e la risoluzione del problema. 

PERSONA GERARCHICA

Ha una gerarchia di obiettivi e riconosce la necessità di stabilire delle priorità, dato che non tutti gli obiettivi possono essere raggiunti, o per lo meno non essere raggiunti equamente bene. 7

PERSONA OLIGARCHICA

Assomiglia per molti versi alla persona gerarchica nella misura in cui desidera fare più di una cosa nello stesso cornice temporale, ma a differenza di queste, possono essere motivate da diversi obiettivi. 

PERSONA ANARCHICA

Sembra essere motivata di un miscuglio di bisogni e degli obiettivi che può risultare distinguere tanto a lei quanto agli altri. 

Ognuno di questi stili racconta di una persona con un proprio stile di apprendimento ed ognuna di queste persone ha dunque dei bisogni specifici per apprendere al meglio e sfruttare le proprie potenzialità. 

Per sfruttare al meglio le potenzialità di ogni individuo ovviamente un bravo insegnante dovrebbe innanzi tutto conoscere queste tipologie di persone e poi cercare di valorizzare le capacità specifiche di ogni studente. Perché questo sia possibile è necessario innanzi tutto che il docente deve essere anche un po’ psicologo per comprendere come ogni studente apprende ed allo stesso tempo deve anche avere una capacità di intervenire sui bisogni di ogni singola persona. 

Torneremo ancora sull’argomento “stili di apprendimento” e “tipologia di persone” provando ad elaborare per ogni stile un proprio stile di apprendimento, ricordando che non si tratta di un modello assoluto e generale e che non vuole assolutamente avere un intento polemico ma solo didattico e pedagogico. 

Insegnamento e formazione, una necessità nel mondo che cambia

Insegnare oggi diventa sempre più difficile. Lavorando nel campo dell’insegnamento mi sono reso conto che utilizzare “vecchi schemi” che un tempo erano efficaci oggi può essere non solo inefficace ma anche dannoso per la formazione dei ragazzi. 

Il mondo di oggi è molto più veloce rispetto a quello del passato e pensare che si possa ancora insegnare secondo il vecchio schema del docente che siede ex cathedra è una utopia. 

Computer e smartphone hanno permesso un accesso sempre più diretto alle informazione, rendendo da un lato il lavoro di ricerca più semplice ma dall’altra ha reso più complesso il lavoro dell’insegnante. 

La velocità di accesso alle informazioni ha portato ad un conseguente calo da parte dello studente alla comprensione di concetti complessi con la conseguenza che alcune metodologie didattiche usate sino a questo momento risultano essere inefficaci e inutili ai fini propri della didattica. 

Ovviamente questo comporta che insegnare diventa una vera e propria missione ed il corpo docente deve assumere un ruolo sempre maggiore nella formazione dell’individuo. Perché questo sia possibile è necessario creare una figura di insegnante sempre più professionale, orientato allo studio di quelle che sono le nuove tendenze dell’insegnamento e le nuove frontiere della tecnologia. 

Per questo ho deciso di aprire su questo blog una nuova sezione (anche se mi ci vorrà del tempo per mettere articoli vista la complessità dell’argomento) in cui cercheremo di occuparci anche dell’aspetto pratico dell’insegnamento, cercando di capire (e spiegare) non solo quelle che sono le nuove tendenze ma anche e soprattutto i diversi approcci che la psicologia ha cercato di dare all’insegnamento. 

“Valore legale del titolo di studio”, facciamo un poco di chiarezza

Oggi è uscita su Repubblica online l’articolo di una recente intervista a Salvini dove il Ministro parla di una presunta riforma della scuola e dell’università dove viene abolito il valore legate del titolo di studio, ma cosa vuol dire esattamente “abolizione del titolo di studio?”.

Abolire il valore legale del titolo di studio vuol dire innanzi tutto che una laurea in Legge è l’equivalente di una laurea in Lettere.

Questo però è solo l’aspetto meno grave della questione.  Visto che un titolo equivale ad un altro – essendo per esempio presa la laurea all’università di Reggio Calabria senza alcun valore legale rispetto ad una presa per esempio all’università di Bolzano – discriminante per l’assunzione ad un concorso pubblico potrebbe diventare ad esempio non più il titolo di studio la l’Università di provenienza, e non più come già avviene adesso lo specifico valore della laurea che tiene conto – per esempio del voto – e di tutte le altre componenti giuridiche.

I sostenitori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio spingono proprio su questo punto perché a quel punto gli atenei sarebbero costretti a farsi concorrenza tra loro, dato che sarebbe compito del mercato selezionare le persone più in gamba e professionisti del settore.

Ancora: secondo i promotori, compito dello Stato dovrebbe essere quello di stilare una graduatoria delle università migliori in modo che quando lo Stato ha bisogno di attingere al personale delle sua amministrazioni lo faccia non sulla base del voto conseguito – che sino a questo momento ha messo tutti sullo stesso piano tutti i candidati ed i loro rispettivi atenei, ma in relazione all’università di provenienza.

Possiamo esemplificare ulteriormente questa situazione: un ateneo catalogato dall’ANVUR (Istituto di Valutazione delle Università) centesimo garantirebbe che i suoi avvocati sono da considerare superiori a quelli di un ateneo classificato 150 perché la preparazione sarebbe migliore e quindi sarebbero avvantaggiati in partenza. Per essere ancora più chiari (e ragionando sui nomi) potremmo dire che un laureato alla Bocconi con 100 sarebbe superiore (solo perché proviene dalla Bocconi) ad un laureato con 110 all’università di Reggio Calabria).

La parola d’ordine di questo sistema sarebbe insomma concorrenza, infatti per ottenere un ranking superiore le università dalle agenzie di valutazione le università sarebbero costrette a pagare meglio i propri insegnanti scegliendo tra i migliori per aumentare il proprio ranking. Infatti l’unica concorrenza possibile a quel punto sarebbe spostata solo sul delicato versante della docenza, dei professori migliori che verrebbero cooptati e blanditi con la promessa di stipendi più alti e non più su quello della parentela, dell’amicizia e della clientela.

Questo sistema – senza dubbio incentrato su un criterio molto più meritocratico degli attuali criteri di selezione – però ha un grosso ma: la creazione di università di serie A,B,C e oltre – insieme all’aumento esponenziale delle tasse in quelle università ritenute migliori creerebbe una sorta di selezione naturale basata non più sulla bravura effettiva e sulla voglia di riscatto dei ceti sociali meno abbienti. Ad essere danneggiati da questo sistema sarebbero soprattutto gli studenti delle università del Sud Italia, dove il reddito procapite e le sedi universitarie non sono particolarmente floride.

Una proposta avanzata è stata quella di copiare il modello americano, dove – una volta abolito il valore legale del titolo di studio – l’implementazione di Agenzie o di Associazioni professionali che avrebbero il compito di validare la laurea attraverso un esame specialistico. Molti di coloro che sono a favore fanno comunque notare che alcune lauree – come ad esempio medicina, ingegneria, architettura e quei diplomi che hanno a che fare con alte specializzazioni professionali – potrebbero rimanere fuori dalla riforma anche perché sarebbero competenze non assimilabili ad altre.

Storia, maestra di vita (se insegnata nella giusta maniera…)

storia

La notizia che sia stato tolto il tema di storia dagli esami di maturità è di pochi giorni fa.

Di per sé la notizia è passata quasi sotto silenzio, poche parole in un comunicato stampa del Ministro della Pubblica Istruzione e poco spazio nei telegiornali nazionali, altre erano le notizie importanti in quei giorni.

Eppure, la notizia avrebbe meritato tutt’altro rilievo da parte della stampa, avrebbe dovuto essere oggetto di dibattito da parte degli “esperti” , quelli che si reputano essere ancora “intellettuali”, coloro che difendono il sapere.

L’oggetto del dibattito non dovrebbe essere però “è giusto eliminare il tema di storia dalla maturità?”, la domanda posta in tal modo avrebbe potuto dar vita ai soliti dibattiti tra “esperti” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.

La domanda che invece ci sarebbe dovuti porre sarebbe dovuta essere: ha ancora valore una storia insegnata come viene insegnata oggi nelle scuole superiori?

Innanzi tutto per rispondere a questa domanda si dovrebbe una volta per tutte chiarire un equivoco alla base dello studio della storia: lo studio della storia non è finalizzato all’imparare a memoria qualche data, lo studio della storia dovrebbe invece essere innanzi tutto un prezioso strumento per analizzare e comprendere la realtà che ci circonda partendo proprio dagli eventi storici per arrivare alla comprensione dell’attualità e del mondo circostante.

Perché questo sia possibile è necessario che nelle scuole superiori (almeno nel triennio che porta agli esami di maturità) si campi approccio e metodologia dello studio della storia, non più un mero imparare date a memoria ma fornire allo studente tutti gli strumenti per comprendere un dato evento storico e comprendere le implicazioni che questo evento ha avuto nell’attualità.

Troppo spesso la storia viene insegnata come se fosse una semplice sequenza di eventi senza concatenazione alcuna mentre chi studia a fondo la storia può affermare che sia tutto il contrario: in storia tutto è consequenziale e nulla avviene per caso, ogni evento ne presuppone un altro ed ogni evento a sua volta è stato preceduto da qualcos’altro. Proviamo a questo proposito – per chiarire meglio il punto – a fare un esempio concreto:

EVENTO UNO: LA SECONDA GUERRA MONDIALE

EVENTO DUE: LA GUERRA FREDDA

Possiamo affermare con certezza assoluta che senza il primo ci sarebbe stata la seconda? E possiamo affermare che la storia nel nostro secolo (sino al crollo del Muro di Berlino) avrebbe avuto lo stesso corso senza gli eventi della Guerra Fredda? Ed ancora, possiamo affermare che la storia d’Italia (così come quella di tante altre nazioni) non sarebbe stata condizionata dagli eventi della Guerra Fredda?

La tendenza a pensare alla storia non come uno strumento per analizzare la realtà circostante ma come una materia a sé stante di fatto è quanto rende lo studio della storia inutile nelle scuole.

Ripensare invece le categorie di come la storia viene insegnata può essere la base per quella riforma del sistema scolastico sempre pensata e mai realizzata.

Non serve insomma cancellare il tema di storia per riformare la storia, basta dare alla storia l’importanza che merita all’interno del sistema scolastico e stabilire una volta per tutte che cosa voglia davvero dire “historia magistra vitae”.