Tutte le strade portano a Roma…

Il famoso detto “Tutte le strade portano a Roma” non era semplicemente un modo di dire ai tempi della Roma Antica.

Generalmente i Romani con il termine Via intendevano le strade extraurbane che partivano da Roma e collegavano tutte le provincie dell’Impero.

Come venivano scelti i nomi delle strade nella Roma Antica?

C’erano diversi modi per scegliere i nomi delle strade: a differenza di quello che avviene oggi (dove i nomi delle strade sono più che altro un omaggio a personaggi famosi siano essi politici o scrittori) i Romani avevano un modo piuttosto pratico per indicare i nomi delle vie.

Principalmente il nome di una via veniva scelto seguendo tre criteri: poteva essere il nome della destinazione finale della strada (come ad esempio la Tiburtina o la Tuscolana); veniva dato alla strada il nome del console che la aveva costruita (come ad ese

pio l’Appia o l’Aurelia); infine, il nome poteva indicare il fine della strada (la Salaria, ad esempio era la “via del Sale”).

Le strade di Roma erano delle vere e proprie autostrade del tempo, il tragitto veniva studiato con la massima cura ed erano costruite in modo da poter raggiungere ogni destinazione nel più veloce tempo possibile.

Il percorso era rettilineo, gli ostacoli della natura era superati utilizzando l’ingenium: se c’era un fiume venivano costruiti dei ponti, se c’era una collina si realizzava un traforo, anche se in alcuni casi gli ingegneri decidevano di eliminare del tutto l’ostacolo, stando sempre attenti a rispettare il paesaggio, deturpandolo il meno possibile (cfr. a questo proposito di GIULIA FIORE COLTELLACCI, I segreti tecnologici dei Romani, pp. 17 e segg.).

Le strade erano abbastanza larghe da consentire il passaggio a due carri nei due sensi di marcia opposti e la pavimentazione veniva costruita in ciottoli per consentire una maggiore stabilità e drenaggio del terreno.

Le arterie principali erano addirittura costruite con pietre poligonali – il basolato – che rendeva il manto stradale “idrorepellente” in modo che i mezzi di trasporto non restassero impantanati in caso di pioggia o neve. Ai lati delle viae erano previsti marciapiedi, alberi che facevano ombra e stazioni di sosta per permettere di riposarsi e fontane dove potersi dissetare.

Le strade erano costruite per durare nel tempo, anche perché nessuno era disposto a pagare troppi sesterzi per ripararle.

Pensate solo al fatto che i lastroni della via Appia sono ancora là, mentre le strade di oggi sono ricoperte di buche.

Chi garantiva l’efficienza delle strade?

L’equivalente della nostra ANAS era il praefectus vehiculorum che aveva il compito di controllare il buon funzionamento del servizio stradale grazie a squadre di curiosi il cui compito era quello di viaggiare e segnalare eventuali disservizi.

Insomma, le strade di Roma erano particolarmente efficienti e la loro gestione era attenta e curata.

Questo ovviamente non toglie il fatto che i viaggi erano comunque lunghi, faticosi e rischiosi.

Per rendere il viaggio più agevole erano previste delle stazioni di sosta e le mutatio, che altro non erano che stazioni di sosta dove poter cambiare cavallo, un servizio utilizzato soprattutto dai cursores, l’equivalente dei nostri postini, un vero e proprio servizio di pony express.

Insomma, a quanto pare le strade a Roma funzionavano, forse meglio di come funzionano oggi, anche se come detto non mancavano i disservizi.

Una nuova rubrica: pillole di storia (e cultura) dell’Antica Roma

Inauguriamo con questo post una nuova rubrica per questo blog.

Ho deciso di avviare questa nuova sezione (sperando di avere il tempo materiale di curarla a dovere tra un impegno scolastico e l’altro) partendo dalla domanda che in questi ultimi giorni sta impazzando sul web: “Quanto spesso pensi all’impero romano?”.

La domanda successiva che mi sono posto è stata “Quanto sappiamo davvero dell’impero romano?” o meglio, “quanto ne sappiamo realmente di come vivevano gli Antichi Romani?”.

Per quanto la cultura romana abbia gettato le basi per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata poi la cultura occidentale il modo di pensare di agire, e di comportarsi dei romani è totalmente diverso dal nostro ma allo stesso tempo ricalca vizi e virtù del mondo di oggi.

Per questo penso possa essere interessante (e curioso) saperne di più del modo di ragionare dei romani. Sfruttando la storia latina, le fonti dirette degli storici ed anche la Letteratura Latina cercheremo di intraprendere questo viaggio all’interno della storia di Roma, raccontato la storia di un impero millenario; non sarà una sorpresa capire che scopriremo di avere molte cose in comune con i Romani, così come scopriremo (forse) che sotto molti aspetti la civiltà romana era molto più avanti della nostra.

“Maternità surrogata” nell’Antica Roma…

Uno degli argomenti che più di altri tiene banco in questi ultimi anni è quello della “maternità surrogata” ovvero le donne che mettono in affitto il proprio utero per mettere al mondo figli di altri. Una pratica che da molti è considerata una aberrante pratica della modernità che stravolge il “ruolo della donna madre” all’interno della famiglia, ma è davvero così?

Quale sarebbe la vostra reazione se ad esempio vi dicessi che la pratica dell’utero in affitto era già conosciuta e praticata nell’antica Roma senza nessuno scandalo? Un articolo uscito su Focus di questo mese parla proprio di questa pratica dell’Antica Roma. Personaggi noti e meno noti (anche considerati dei veri e propri moralisti per l’epoca) non si facevano scrupolo di “affittare” l’utero della propria moglie per fare un favore ad un amico o per creare delle alleanze con le famiglie più potenti.

Ci sono alcuni esempi eclatanti di romani che hanno “usufruito” di questa possibilità, molti dei quali sono anche saliti agli onori delle cronache per le loro imprese storiche o per le loro gesta.

Prendiamo ad esempio la figura di Marzia, citata anche da Dante nella Divina Commedia tra le “anime magne” dell’Inferno.

Marzia visse in tarda età repubblicana (siamo nel 62 A.C.) e come tutte le ragazze della sua età viene costretta dal padre a sposarsi giovanissima per volontà del padre con il console Lucio Marcio Filippo. Bisogna innanzi tutto ricordare che le spose romane sono spesso delle bambine di 12 o 13 anni, come dice l’articolo “vergini pronte a sottomettersi alla virilità del maschio per garantirgli una discendenza”. La donna romana per essere considerata un esempio di virtù doveva essere casta, restare in casa a filare (raramente era presente sulla scena pubblica). Le donne che parlavano troppo o che bevevano erano considerate delle prostitute, considerate dedite allo scandalo ed al vizio.

Marzia risulta essere in questo un raro esempio di virtù: dà a Catone due figli ed “obbedisce” a tutti i voleri del marito, il quale a sua volta la ama profondamente ed è sempre pronto ad esaudire ogni suo desiderio. Fin qui sembra essere un matrimonio perfetto finché non entra in scena un terzo personaggio: Quinto Ortensio Ortalo.  Per chi si occupa di storia romana e letteratura latina Ortensio Ortalo è un personaggio noto, considerato uno dei più illustri oratori romani. Ortensio Ortalo viene citato spesso anche da Cicerone, il quale gli dedicò un’opera perduta appunto dal titolo Hortensius.

Tornando a noi, Ortensio chiede al suo amico Catone di “affittare” la moglie (ovviamente sposandola) visto che non può avere figli dato che la moglie è sterile. Le parole di Ortensio le conosciamo grazie a Plutarco che le riporta nel suo Vite Parallele: 

Tua moglie ti ha già dato un numero sufficiente di eredi, ed è abbastanza giovane per averne altri: lascia che li faccia, questa volta per me.

A dire il vero Ortensio inizialmente aveva chiesto a Catone di sposare sua figlia Porzia (che avrebbe sposato in seconde nozze Bruto, l’assassino di Cesare), offerta rifiutata da Catone il quale non voleva concedere la figlia, considerata il suo bene più prezioso ad un uomo troppo anziano. Ortensio però aveva insistito: se non la figlia perché non la moglie?

Nessuna fonte riporta se Marzia fosse contenta o meno di andare in prestito ad un altro uomo, però sappiamo che secondo la legge di Roma il marito aveva tutto il diritto di prestare la moglie ad un amico affinché questa generasse dei figli per lui. Nessuna donna aveva il potere di opporsi a questa volontà.

La pratica di concedere l’utero della propria moglie in “affitto ” non ha niente a che vedere comunque con il nostro contemporaneo desiderio di “maternità” o di “paternità”, si tratta più che altro di un vero e proprio “dovere civico della donna”.

A partire dal I secolo A.C. la natalità a Roma era in calo e le autorità erano non poco preoccupate. Oltretutto bisogna considerare che i troppi schiavi liberati avevano acquisito la cittadinanza “romana”, insomma si trattava più che altro di una politica per “dare nuovi figli alla patria”.

I Romani del resto (come sappiamo dalle norme che regolavano il matrimonio nell’Antica Roma) raramente si sposavano per amore.

Questo ovviamente non vuol dire che non provassero sentimenti, ma di certo il matrimonio era più che altro dettato da interessi economici e ambizioni di ascesa sociale (come del resto avveniva anche nel passato recente, dove spesso i matrimoni rispondevano più ad interessi dinastici che ad un amore vero e proprio).

Il caso più celebre resta quello di Livia, andata in sposa al cugino Tiberio Claudio Nerone e ceduta proprio dal marino ad Ottaviano nel 38 A.C. Leggenda vuole che Livia e Ottaviano fossero travolti dalla passione. Secondo un ragionamento molto più pratico pare che ad Ottaviano convenisse non poco prendere in prestito Livia per imparentarsi con la sua famiglia, la Gens Claudia, una delle famiglie più ricche e nobili di Roma.

Questi sono solo alcuni degli esempi (alcuni dei più noti), come al solito nel leggere questo articolo vi chiedo di sospendere ogni “giudizio morale” poiché si tratta di storia.

La società odierna (anche se non ovunque) è cambiata, quindi prendete questo articolo per quello che è: una curiosità storica per conoscere il nostro passato, un pezzo di società e di storia romana per comprendere meglio chi siamo, da dove veniamo ed il prezzo delle nostre conquiste.

“Spellacchio” qualche consiglio per i prossimi anni

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Negli ultimi giorni si è scatenato il dibattito sull’albero di Natale della Giunta Raggi a Piazza Venezia.

Tra coloro che lo difendono (perlopiù elettori del Movimento Cinque Stelle e grillini) e coloro che lo contestano (tutti gli altri) cerco di chiarire meglio la mia posizione.

Partiamo da un dato puramente estetico e soggettivo: l’albero è brutto, anche con tutte le luci. Visto di giorno da un senso di tristezza particolarmente profondo che i led riescono solo marginalmente a nascondere, così come la punta è sproporzionata rispetto a tutto il resto dell’albero, dando una profonda immagine di sciatteria di quella che invece dovrebbe essere la Capitale d’Italia.

La difesa ad oltranza di chi difende la Raggi (per un albero brutto oltretutto costato 48 mila euro!) è “quelli della Giunta Alemanno e Veltroni erano peggio e sono costati la stessa cifra”.

Ecco, iniziamo proprio da questa risposta: dire “quelli di prima erano peggio” non è una argomentazione valida per difendere una scelta molto meglio sarebbe rispondere “sì, abbiamo fatto una cretinata ma stiamo cercando di rimediare” oppure “sì, è brutto ma non abbiamo trovato niente di meglio”, di certo non sarebbero risposte consolanti ma sarebbero quantomeno più sensate.

L’albero di Natale è solo l’ennesimo episodio di sciatteria della Giunta Raggi, una scarsa considerazione del valore estetico dell’addobbo natalizio sulla scia del “eh, ma i problemi sono altri”.

Qui sorge il primo problema: l’albero è sito in Piazza Venezia, la piazza centrale di Roma,  quella che è lo snodo centrale per passaggio di turisti, dove si arriva sia da Via del Corso che da Via dei Fori Imperiali e di fronte all’Altare della Patria. Un albero di Natale in un posto simile dovrebbe colpire il turista, dovrebbe far respirare il clima del Natale, quasi far “sentire a casa” chi lo vede. Invece l’albero della Giunta Raggi da un profondo senso di sciatteria, per dirlo alla romana “famolo perché lo dovemo fa”, oltretutto i costi alti non fanno che aggiungere danno alla beffa.

Perché non si è pensato alla possibilità di aprire una gara d’appalto (come fatto ad esempio a Milano) dove si presentavano diversi progetti e si valutava il migliore? Se la paura è quella delle infiltrazioni allora la Giunta Raggi ha fallito la sua missione di lotta alla corruzione, perché la lotta alla corruzione si fa rendendo trasparenti le gare d’appalto e non stando fermi e non fare nulla.

Sarebbe bastato anche andare alla Fondazione Fendi e chiedere “ma che mi fate un albero di Natale?” trovando un accordo con una delle tante società di mode storiche di Roma (che già ha restaurato magistralmente la Fontana di Trevi) risparmiando in questo modo davvero i soldi dei contribuenti e facendo un’opera di reale abbellimento di Roma invece che mettere un albero di Natale tanto per metterlo.

Roma merita di meglio, lo dico sin dai tempi di Marino (che a questo punto confronto alla Raggi diventa un gigante della politica),  non può essere tutto relegato alla sciatteria ed al “e allora quelli di prima?” perché se i cittadini di Roma hanno votato per la Raggi lo hanno fatto per vedere un miglioramento nel modello di amministrazione romana e sinora miglioramenti se ne sono visti pochi: peggiorato il servizio pubblico, Atac sull’orlo del fallimento, alberi di Natale che prendono in giro un po’ in tutto il mondo, qualità della vita inferiore alla media, rifiuti ovunque (che alle volte pare di essere a Calcutta), buche e voragini ovunque (quando c’era Marino ricordo tutti i Cinque Stelle postare foto delle buche con l’immancabile “Marino Dimettiti”)  e altri disastri che sarebbe lungo da elencare.

Non è la prima volta che mi occupo di Roma e delle sue amministrazioni e torno a dire quello che dico da anni: Roma ha bisogno di un progetto e perché questo progetto si possa realizzare serve una giunta capace di realizzarlo, non basta dire “noi siamo diversi” per dimostrare la propria diversità e non basta nemmeno dire “però prima andava peggio”.

Utilizzando lo slogan di Donald Trump nelle scorse elezioni americane potremmo dire Make Rome great again non solo a parole ma anche e soprattutto nei fatti.

Niente deve essere lasciato al caso, nemmeno un albero di Natale soprattutto se è in quella che forse la Piazza più conosciuta al mondo dopo Piazza San Pietro e Piazza Navona. Roma non merita tanta sciatteria, ormai per quest’anno è andata, immagino che ci dovremo tenere Spellacchio ma vediamo gli altri anni di pensare a qualcosa di meglio,  partendo per tempo e non arrivando all’ultimo dicendo “scusate, ma non abbiamo trovato di meglio”.