L’Europa al voto: come cambiano gli assetti dell’Unione Europea dopo le ultime elezioni

Terminato lo spoglio delle Europee è possibile iniziare a delineare quelli che potrebbero essere gli scenari futuri del prossimo Parlamento Europeo.

Partiamo dai numeri del voto italiano: Fratelli d’Italia si conferma essere il primo partito italiano (con il 28,9%); il Partito Democratico ottiene un buon risultato confermando la leadership interna di Elly Schlein (un buon 24% che conferma il Partito Democratico come architrave di una eventuale alleanza di centro-sinistra); crollo del Movimento Cinque Stelle (che scende al di sotto della soglia psicologica del 10% fermandosi al 9,95%); sostanzialmente identici le percentuali di Lega e Forza Italia (9,72% per Forza Italia e 9,12% per Lega con il secondo trascinato dall’intuizione di candidare Vannacci come capolista); risultato notevole anche per l’Alleanza Verdi/Sinistra che sostanzialmente doppia il risultato delle scorse Europee (6,67% segno che le scelte di Fratoianni si stanno rivelando essere “vincenti”); deludente crollo del fu Terzo Polo (Azione si ferma al 3,34% mentre Stati Uniti d’Europa si ferma al 3,72%)

Fratelli d’Italia

Il buon risultato ottenuto da Giorgia Meloni consolida la forza di Giorgia Meloni all’interno del Governo e rafforza la sua leadership come architrave del centrodestra, di fatto polarizzando lo scontro con il Partito Democratico (che come vedremo si è spostato a sinistra). Allo stesso tempo Fratelli d’Italia si conferma interlocutore credibile al livello europeo per la formazione di una nuova maggioranza spostata verso destra, anche se il PSE potrebbe essere di nuovo determinante nella scelta del prossimo presidente della Commissione (anche questo lo vedremo quando parleremo della sinistra).

Fratelli d’Italia si conferma il solo partito di governo in tutta Europa a consolidare il suo consenso, un segnale importante sia sul piano europeo che sul piano interno, anche se il 24% ottenuto dal Partito Democratico consolida la radicalizzazione della politica italiana con una destra sempre più orientata verso un conservatorismo molto simile a quello britannico ed una sinistra che si avvicina sempre più ad un partito laburista dove convivono moderati e progressisti.

Partito Democratico

Sebbene molti preannunciavano un crollo del Partito Democratico causato dallo spostamento a sinistra fortemente voluto dalla segretaria del PD Elly Schlein il PD aumenta i propri consensi passando dal 17% delle scorse elezioni Europee al 24% di queste consultazioni (migliorando anche il 21% delle scorse elezioni politiche), scongiurando la tanto temuta emorragia di voti.

Vero, l’astensione a queste consultazioni europee resta altissima (ha votato meno del 50% degli aventi diritto al voto) però resta il fatto che il PD esce finalmente dallo steccato della zona ZTL e recuperare qualche consenso tra i lavoratori e soprattutto tra gli under 30.

La scelta di Elly Schlein di condurre una campagna elettorale “casa per casa, strada per strada” (utilizzando un’espressione coniata da Enrico Berlinguer negli anni Ottanta) alla fine dei conti si è rivelata essere una scelta vincente.

Il risultato del PD è importante per due motivi: innanzi tutto perché conferma il ruolo del PD in vista di una qualunque alleanza per sconfiggere la destra (in termini di voti resta insieme a Alleanza Verdi e Sinistra il solo partito che aumenta in maniera esponenziale i propri voti) ma soprattutto perché ancora una volta nel blocco del socialismo europeo il Partito Democratico resta il partito più votato. Alla segretaria democratica va dato il merito di essere riuscita a spostare a sinistra l’asse del partito (riportando dentro i “dissidenti” di Articolo Uno) e di essere riuscita a farlo tenendo dentro l’ala moderata del partito senza drammatici strappi. L’asse Schlein-Bonaccini si conferma vincente anche per tenere in piedi le due anime del partito (la conferma arriva dal fatto che entrano al Parlamento le anime più radicali espressione della volontà della Schlein e tutti i sindaci dell’ala moderata, da Nardella a Gori).

Il lavoro di costruzione di un asse veramente competitivo resta ancora lungo (anche perché i 5 Stelle sono crollati al 10% e il cosiddetto Terzo Polo sembra non avere nessuna intenzione di lavorare alla costruzione di quel “fronte largo” necessario per battere le destre preferendo tenersi le mani libere in fatto di alleanze)

Movimento Cinque Stelle

Il vero sconfitto di queste elezioni europee. Passa dal 18% del tanto contestato di Maio al 10% (dopo aver rischiato per lungo tempo di scendere sotto la soglia psicologica del 10%), pur confermandosi il vero “partito del Sud” dove Conte ha fatto il pieno di voti.

L’astensionismo ha punito soprattutto i Cinque Stelle (dato che il travaso di voti tra 5 Stelle e PD è stato minimo) visto che molti elettori che alle scorse europee avevano votato per il partito di Conte non si sono ripresentati alle urne. Cercare di comprendere le ragioni di quella che appare a tutti gli effetti una sconfitta è fondamentale per la sopravvivenza dei Cinque Stelle anche perché il risultato spegne ogni ambizione di Antonio Conte a presentarsi come federatore di una possibile alleanza a sinistra. Se si volessero capire le cause di questa sconfitta dobbiamo innanzi tutto risalire alle ambiguità dei Cinque Stelle in campo europeo: l’incertezza di una posizione precisa nel Parlamento Europeo così come l’incertezza di una linea politica che resta ambigua (fattore su cui pesa anche l’aver governato sia con la Lega che con il PD) unita ad un sentimento di delusione (soprattutto dei più giovani) che non vedono più nei Cinque Stelle quella spinta al cambiamento inizialmente promessa (quando presero quel 33% di preferenze alle elezioni politiche) ha portato a questa sconfitta del Movimento.

Ora per Conte si apre una fase piuttosto delicata: da “portavoce” deve decidere dove collocare (politicamente) il movimento, se a sinistra o se rimanere una forza ambiguamente centrista che adegua le proprie politiche all’alleato di turno.

Lega per Salvini Premier

Analizzare il voto della Lega appare piuttosto complesso: da un lato Matteo Salvini recupera (grazie all’intuizione di candidare il Generalissimo Vannacci) un buon 2% (soprattutto al Sud) rosicchiando qualcosa a Forza Italia (il vero antagonista della Lega nella lotta ai voti tutta interna al centrodestra) ma perdendo nettamente voti al Nord.

Del resto non poteva essere altrimenti: la scelta fatta ormai da tempo da parte di Salvini di trasformare la Lega in un partito sovranista nazionale è una scelta che ha avvicinato molte persone al Sud ma ha di fatto allontanato quella parte di elettorato della Lega ancora convinto del federalismo e dell’autonomia del Nord (non a caso la Lega ha perso le elezioni amministrative a Pontida, da anni sede dei raduni della Lega) e si è alienato una parte della sua stessa classe dirigente a partire proprio da Umberto Bossi, il Senatur che ha dichiarato di aver votato Forza Italia alle elezioni Europee di fatto sconfessando la linea politica di Salvini e la sua segreteria.

Del resto non poteva essere altrimenti: la Lega Nord si è sempre dichiarata “federalista” ed “antifascista” idee entrambe sconfessate dalla segreteria di Matteo Salvini.

Ora, per il leader della Lega la sola speranza è che il partito della Le Pen non lo abbandoni in Europa (per aderire ai Conservatori) abbandonando la linea “fascista” per adottare un profilo più gollista per conquistare la presidenza della Repubblica Francese alle prossime elezioni presidenziali.

Alleanza Verdi Sinistra

Sono i veri vincitori delle elezioni: dati a poco meno del 3% prima delle elezioni raggiungono il 6,2% triplicando il risultato delle scorse elezioni europee, recuperando consensi (soprattutto tra i più giovani), togliendo voti soprattutto ai Cinque Stelle.

Un successo costruito tanto da Bonelli (segretario dei Verdi) ma soprattutto da Nicola Fratoianni che ha messo in piedi una lista con delle candidature politicamente forti (andando spesso anche contro l’opinione pubblica ed il Governo). Una su tutte, la candidatura di Ilaria Salis, sotto processo in Ungheria e ora “liberata” dall’immunità parlamentare e di Ignazio Marino (che torna alla politica dopo la fine della sua avventura come sindaco di Roma).

AVS diventa così un alleato prezioso per il Partito Democratico nella costruzione del campo progressista permettendo alla segreteria PD di avere un interlocutore fermo nelle sue posizioni ma allo stesso tempo molto più dialogante rispetto a Conte che cerca di ritagliarsi un ruolo di leader nella coalizione di centrosinistra.

Terzo Polo (Azione-Italia Viva- +Europa)

Ultimo (in tutti i sensi) il Terzo Polo non riesce a raggiungere il quorum anche perché si è presentato diviso alle elezioni europee che avrebbero dovuto segnare il successo del movimento Renew Europa vicino alle posizioni di Macron (il quale peraltro è stato pesantemente sconfitto tanto da dover indire elezioni anticipate). Pensare che andando insieme avrebbero potuto avere il 7% deve far riflettere tanto Matteo Renzi quando Carlo Calenda.

Il problema del Terzo Polo è che nessuno dei due maggiori azionisti (Renzi e Calenda) sembrano avere intenzione di deporre le armi e lavorare per una vera e propria unione politica. Insomma, il Terzo Polo rischia di essere l’ennesimo tentativo fallimentare di costruire un polo centrista in Italia, anche perché la maggior parte delle realtà centriste (quella di Noi moderati di Lupi per esempio) ha deciso di sostenere (e per ora confluire) in Forza Italia piuttosto che nel Terzo Polo.

Ora si tratta di rimettere insieme i cocci di una coalizione iniziata male e finita peggio, segnata per tutta la sua esistenza dalle litigate tra Renzi e Calenda che sembrano essere i capponi di Alessandro Manzoni, incapaci di allearsi anche di fronte alla certezza di poter evitare la morte (si intende politica in questo caso) solo stando alleati.

Cosa cambia in Europa?

Queste elezioni europee di fatto lasciano la situazione politica dell’Unione Europea sostanzialmente invariata. Difficilmente il centrodestra potrà nominare il Presidente della Commissione senza l’apporto del PSE (a meno che non apra ai sovranisti di Marine Le Pen) per cui si rischia una seconda maggioranza Von der Layen, eventualità che segnerebbe una sconfitta per i Conservatori sia nel caso venissero esclusi dalla formazione del prossimo Governo (nonostante la netta affermazione in Europa) sia nel caso venissero costretti a sostenere una maggioranza che comprende anche il PSE.

Staremo a vedere che cosa succederà, qualunque cosa questo voto è riuscito a dare una scossa ad un’Unione Europea da troppo tempo ferma su posizioni conservatrici, incapace di avere una linea politica comune e incapace di parlare sulle questioni internazionali con una sola voce.

L’ultimo Cavaliere (Il Re è morto, viva il Re!)

Mi sono preso qualche giorno di tempo per scrivere qualche considerazione sulla morte di Silvio Berlusconi.

Lo ho fatto perché in qualche modo ho dovuto “metabolizzare” la morte di colui che, volenti o nolenti, ha segnato la vita politica, sociale ed economica dell’Italia degli ultimi quarant’anni almeno. Inoltre, non ho commentato niente a caldo, non volendo prestarmi al gioco mediatico di chi lo ha osannato come un novello “Santo subito” e chi lo ha presentato come l’incarnazione dell’Anticristo.

Servirà tempo per superare il “berlusconismo” e ne servirà ancora di più per poter esprimere un giudizio equo su quella che è stata la figura di Silvio Berlusconi: imprenditore visionario, “grande statista”, uomo di pace, criminale, cantore dei vizi e delle virtù italiane, l’uomo che si è fatto da solo, Silvio Berlusconi è stato tutto questo.

Per anni ha incarnato il mito del self made man all’italiana, l’incarnazione dello spirito reaganiano del capitalismo con tutti i suoi vizi e le sue virtù. Quando si parla di Berlusconi non si può non tenere conto che le sue televisioni hanno plasmato la mente degli italiani, in qualche modo hanno narrato un Paese in cambiamento, smarrito dopo la fine della classe dirigente post-Tangentopoli.

Sul politico e sulla persona è stato detto tutto: sulle sue inchieste, sui suoi vizi, sulle sue gaffes, sulla fine inglorioso del suo impero politico con le risatine di Sarkozy e della Merkel e il Parlamento che vota sostenendo che “Ruby era la nipote di Mubarak”.

Silvio Berlusconi ha inventato il concetto di “partito azienda” in almeno trent’anni di attività politica ha plasmato la mente degli italiani, dividendo il Paese in folle osannanti che lo amavano e folle di persone che lo odiavano. Non è facile essere obiettivi quando si parla di una figura tanto divisiva, soprattutto perché qualunque cosa si dica rischia di essere interpretata come “odio mediatico” o come “santificazione di un criminale” per questo sarebbe il caso di andare con ordine e capire prima di tutto chi era Silvio Berlusconi e perché è stato tanto amato (e odiato) dalla popolazione italiana.

Fino al 1994 era un imprenditore spregiudicato, quello che aveva comprato la casa di Arcore ad un costo molto più basso del suo effettivo valore di mercato (a seguito dello scandalo dell’omicidio/suicidio del Marchese Casati Stampa), che aveva capito il potenziale della televisione prima che lo comprendessero altri e che nel 1980, con la nascita di Canale Cinque (nata dopo aver comprato le frequenze di un canale privato della Mondadori), creando un modo alternativo di “intrattenimento televisivo”, una televisione che fosse svago vero e proprio e non didascalica, pedagogica e moralista come era la Rai. Con la sua “discesa in campo” le sue televisioni sono diventate l’amplificatore della sua visione politica, una vera e propria macchina da guerra da usare all’occorrenza contro gli odiati comunisti.

Già, i comunisti: la brillante intuizione politica di Silvio Berlusconi fu quella di creare letteralmente da zero il centrodestra, sdoganando l’antico dogma della Prima Repubblica che i post- fascisti del Movimento Sociale Italiano non potessero fare politica: potevano essere tollerati, ma non avevano nessun legame con la democrazia “nata dall’antifascismo”.

Il patto del 1993, quando disse a sorpresa “se fossi un cittadino romano voterei per Gianfranco Fini, non per Rutelli”, rompendo un tabù della politica italiana.

Nel 1994, si presenta alle elezioni con un partito che ha fatto del marketing il suo mantra già nel nome “Forza Italia”, un nome in cui tutti possono identificarsi, perché tutti almeno una volta nella vita hanno gridato Forza Italia. Il centrosinistra, la gioiosa macchina da guerra di Occhetto è convinto di poter vincere, perde malamente le elezioni e viene relegato all’opposizione, costretto poi nei fatti a diventare moderato (sino a vincere le elezioni nel 1996 candidando Romano Prodi, un democristiano moderato, il solo che lo batterà alle urne per ben due volte).

Vince con la promessa di una “rivoluzione liberale” che nei fatti non viene mai realizzata, quando lascia il potere nel 2011 il sistema è molto più corporativo di prima, ingessato in rituali da Prima Repubblica con una Seconda che, nei fatti, non è mai nata. Del resto non poteva essere altrimenti, il Ventennio berlusconiano è stato segnato dalla polarizzazione sulla persona non sulle politiche che sono sempre state messe in secondo piano (colpevolmente anche dalle opposizioni che hanno in parte rinunciato alla loro identità nel tentativo di sconfiggere il nemico comune).

La sua morte pone veramente fine ed un’era della politica italiana. Un’era in cui la politica è stata fondata da personalismi, politica estera fondata sulle personali amicizie del leader (Putin e Gheddafi su tutti).

Il tutto viziato dalle inchieste giudiziarie, le condanne per evasione fiscale, lo scandalo di “fine impero” del bunga bunga tutto accompagnato dalle barzellette, le figuracce in diretta mondiale gli insulti agli elettori avversari (“non posso credere in che in Italia ci sono così tanti coglioni che votano a sinistra”), la costruzione del mito attorno a se stesso, la mitomania di un leader che non ha mai accettato l’idea di poter essere messo in secondo piano.

Tutto questo ed anche di più è stato Silvio Berlusconi; servirà tempo per poter analizzare a mente fredda gli ultimi vent’anni di storia italiana perché, come disse Montanelli “ci vorranno trent’anni per uscire dal berlusconismo” e come diceva Gaber “io non ho paura di Berlusconi, ma del Berlusconi dentro di me” perché l’uomo Berlusconi per tutta la sua vita ha incarnato vizi e virtù di un Paese allo sbando, orfano di una classe politica dopo la fine di Tangentopoli.

Pagelle di fine anno (Politici e leader in ascesa e caduta)

Come ogni fine anno per la politica è tempo di bilanci. Premetto che quello che sto per scrivere è solo un gioco, sebbene spesso proprio nei giochi si nasconde la verità.

L’ultimo anno è stato piuttosto strano: un saliscendi di emozioni politicamente parlando che difficilmente sarà ripetibile nella politica italiana.

Procediamo dunque con le pagelle di fine anno.

Giorgia Meloni: Voto 8

Al di là di quello che si può pensare ideologicamente della Giorgia Nazionale è difficile non ammettere che quello appena trascorso è stato il suo anno: ha preso un partito al 2% e lo ha fatto arrivare al 30. Non solo, alla faccia delle quote rosa tanto care alla sinistra (la quale da anni sogna una Presidente donna) è stata nominata Presidente del Consiglio, superando il PD diventando appunto la prima Presidente del Consiglio donna.

Incurante delle accuse mosse qua e là di fascismo si è conquistata anche la leadership del Partito Conservatore Europeo e con ogni probabilità vincerà anche le prossime elezioni spezzando l’asse della coalizione Ursula spostando a destra il PPE, alla faccia (ancora) di tutti quelli che la accusano di essere anti-europeista.

Probabilmente la luna di miele con il Paese finirà ma il suo Governo durerà più o meno cinque anni con buone possibilità di vincere anche le prossime elezioni. Del resto, è riuscita a passare per rivoluzionaria con uno dei programmi più conservatori della storia della Repubblica dai tempi della DC.

Enrico Letta: Voto 3

Verrebbe da dire che il Partito Democratico aveva bisogno di Letta per poter rinascere. Peccato si trattasse del Letta sbagliato. Enrico Letta è riuscito a prendere un partito in crisi ed affossarlo.

In campagna elettorale ha sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare: ha praticamente fatto una campagna elettorale contro sé stesso, non è riuscito a formare una coalizione muovendosi come un cinghiale impazzito, facendosi fotografare prima al fianco di Calenda (sapendo benissimo che non avrebbe mai accettato di fare una coalizione con la Sinistra radicale e con i Cinque Stelle) salvo poi fare marcia indietro sostenendo che quella con Sinistra Italiana non era propriamente una coalizione ma era un fronte per sconfiggere i fascisti (che vedeva solo lui), peraltro alleandosi con Luigi di Maio che alle elezioni non è arrivato nemmeno all’1%. Non contento, a seguito della sconfitta elettorale si è reso conto che il partito andava rinnovato, ha lanciato un’Opa in favore di Elly Schlein salvo poi rendersi conto che la maggior parte dei militanti non la sopportava per due motivi: primo, ha fatto un’intera campagna elettorale contro il PD e secondo non era nemmeno iscritta al partito, anzi più di una volta ha ribadito che lei non aveva nulla a che fare con il Partito Democratico e non aveva nessuna intenzione di prendere la tessera. Non contento, ha convocato una specie di assemblea costituente (invece che fare un congresso politico) che a pochi mesi dalle elezioni non è riuscita a produrre uno straccio di documento politico.

Insomma, doveva essere il salvatore della patria, rischia si essere l’esecutore finale della storia del PD.

Matteo Salvini: voto 3

Da dopo il Papeete è riuscito a sbagliare tutto quello che si poteva sbagliare. Alle elezioni passa dal 40% ( delle Europee) all’8%, il peggior risultato che si potesse ottenere tenuto conto che è la stessa percentuale che la Lega prendeva quando si candidava solo al Nord. Praticamente al Sud non lo hanno votato nemmeno i suoi iscritti probabilmente.

Del resto, Salvini ha dimostrato di non avere il polso della situazione quando ha provato a dare le carte durante l’elezione del Presidente della Repubblica, seccando tutti i nomi del centrodestra con una politica che definire “fantozziana” è poco.

Resta in sella al partito semplicemente perché alla fine qualcosa è riuscito ad ottenere nel Governo e soprattutto perché al momento non si vedono alternative alla sua leadership. Semmai Luca Zaia decidesse un giorno di fare il salto della quaglia e correre come segretario della Lega Salvini sarebbe asfaltato senza colpo ferire.

Giuseppe Conte: Voto 8

Per lui vale lo stesso discorso fatto della Meloni. Premettendo che Conte sta alla sinistra come Bin Laden sta alla pace, gli va dato atto che è riuscito a prendere un partito in crisi nera e farlo diventare il perno di una possibile alleanza a sinistra (con buona pace di Letta che ha ben pensato di allearsi con Di Maio, vedi sopra). Complice anche la strategia suicida di Enrico Letta è riuscito a togliersi di mezzo sia di Maio che Di Battista (i due gemelli dei Cinque Stelle) di fatto restando l’unico leader possibile per il Movimento fondato da Grillo.

Riesce a presentare il Movimento 5 Stelle come se fosse il movimento di Chavez, facendo abilmente dimenticare che alla sua prima esperienza di Governo ha governato con Salvini e che il suo nome è legato ai decreti sull’immigrazione. In occasione della guerra in Ucraina trasforma il Movimento in pacifista, non menzionando praticamente mai il fatto dei finanziamenti da lui stesso autorizzati quando era Presidente del Consiglio nel Governo giallo-verde.

Praticamente occupa lo spazio a sinistra dello scacchiere politico sostenendo come unica battaglia di sinistra quella sul reddito di cittadinanza che di sinistra non è.

Silvio Berlusconi: voto 6

Più cercano di farlo fuori e più lui sembra risorgere dalle ceneri.

Ammettiamolo, la politica senza Silvio non sarebbe la stessa. Durante la campagna elettorale avrebbe potuto spingere l’acceleratore e proporre sé stesso come Presidente del Consiglio invece decide di accontentarsi di ricoprire il ruolo di Padre Nobile del centrodestra di Governo e farsi eleggere senatore prendendosi la vittoria morale con quanti pensavano di poterlo fare fuori per via giudiziaria.

Non contento, riesce a piazzare Tajani agli Esteri nonostante Fratelli d’Italia avesse nomi decisamente migliori, come ad esempio Giulio Terzi di Santagata.

Nonostante sia vicino ai novant’anni e non abbia più la lucidità politica di qualche anno fa resta un personaggio della politica italiana con un notevole consenso personale e con un partito personale a fargli da supporto.

Eterno.

Renzi-Calenda: Voto 4 (2 a testa)

Non si può non dire che non si stiano impegnando per cercare di occupare uno spazio politico. Il problema del duo alla guida del Terzo Polo è che non ha ancora capito quale spazio politico debba occupare: se quello di destra o quello di sinistra.

Sono riusciti a fare un’intera campagna elettorale con unico punto del programma quello di formare un nuovo Governo Draghi, salvo poi essere smentiti dallo stesso Draghi che ha detto di non avere alcuna intenzione di tornare a fare il Presidente del Consiglio. Ricordano molto Bersani che alle elezioni in cui si presentò Monti non fece altro che inseguire Scelta Civica proponendo un patto di Governo mentre Monti lo insultava occupando spazi a destra.

Dopo le elezioni provano disperatamente a costruirsi uno spazio politico al centro senza comprendere che il centro non attira i voti di nessuno o al massimo quelli che votano al centro votano per Forza Italia.

De coccio.

Elezioni 2022: La strategia “rassicurante” del Partito Democratico

Dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle e del suo tentativo di svolta a sinistra, cerchiamo ora di comprendere meglio quali sono le scelte in campagna elettorale del Partito Democratico.

Prima di iniziare bisogna premettere che la strada del partito di Enrico Letta, segretario del partito, si trova a dover affrontare una strada tutta in salita.

Innanzi tutto il Partito Democratico negli ultimi dieci anni è stato quasi sempre al Governo – se si esclude la parentesi del governo gialloverde – e quasi mai è riuscito ad incidere sulle sorti del Paese se non in peggio.

Bisogna ricordare che alcune delle peggiori riforme del mercato del lavoro (Jobs Act) e riforma della scuola (Buona Scuola) portano la firma proprio del Partito Democratico.

Visti i non facili richiami al passato Letta ha deciso di incentrare la campagna elettorale su due punti in particolare: puntare sul senso di responsabilità del partito negli ultimi anni e soprattutto demonizzazione dell’operato dell’avversario.

Seguendo uno schema ormai collaudato nella sinistra (soprattutto quando la sinistra non ha niente da dire) si attacca l’avversario senza fare alcun accenno al proprio programma elettorale o facendo accenni molto ridotti alla fatidica domanda “Che cosa farete una volta al Governo?”.

Il Partito Democratico è stato al governo per almeno dieci degli ultimi 13 anni, alternando sconfitte elettorali e Governi tecnici dando spesso anche spettacolo portando in Parlamento quelle che erano le guerre interne al partito.

L’ultima esperienza di governo prima del Governo Draghi non può essere di certo definita un successo politico: appoggio incondizionato al Conte II (dopo che questi ha trasferito quasi per intero il governo con Lega in quello con il PD), una gestione della pandemia quantomeno confusa e non sempre irreprensibile e soprattutto – al livello politico – la scissione con Renzi che appena esce dal partito inizia sin da subito a far cadere il governo giallorosso (o giallorosa) che lui stesso aveva contribuito a creare mettendo il partito di fronte al fatto compiuto e costringendolo de facto ad appoggiare il Governo Draghi.

Tutto condito dal solito mantra del PD “non possiamo andare al voto in questo momento altrimenti vincono gli altri”.

Questa scelta di fare “non politica” da parte del PD ha portato nel corso degli anni ad una vera e propria emorragia di consensi, si è passati dal 40% di Renzi a poco più del 21% di oggi da considerare un successo dopo il 18% preso alle ultime elezioni.

Enrico Letta decide di puntare – soprattutto per recuperare voti al centro – sulla prosecuzione dell’esperienza del Governo Draghi: presenta il Partito Democratico come la sola forza in Parlamento fedele sino alla fine a Draghi (anzi, rivendicando di essere stati i soli a cercare di salvare il Governo), cerca un accordo con Azione di Carlo Calenda (considerato forse il più draghiano tra i partiti presenti in Parlamento) escludendo però a priori un accordo con Italia Viva (probabilmente per le antiche ruggini con Matteo Renzi) e con il Movimento Cinque Stelle (considerato al livello morale il vero artefice della caduta del Governo Draghi) decidendo però di chiudere un “accordo elettorale e non di Governo” con Sinistra Italiana e Verdi scatenando le ire di Calenda (il quale però sapeva benissimo dell’accordo prima di sedersi al tavolo).

Da lì in poi è stato tutto un continuo aumentare di dichiarazioni ed errori uno dietro l’altro.

Gli ultimi in ordine di tempo sono le dichiarazioni contro la legge elettorale e contro la riduzione del numero dei parlamentari in Senato, provvedimenti entrambi sostenuti dal Partito Democratico stesso (il secondo presentato anche come una grande vittoria della lotta ai costi della politica) dando l’impressione di chiedere un aiuto per i casini fatti dal partito stesso.

Il Partito Democratico paga ancora (a distanza di anni dalla sua nascita) il suo “non essere” un partito di sinistra ed il suo “non voler essere” un partito di destra.

La campagna elettorale di Enrico Letta, impostata quasi solo sulle colpe degli altri con qualche timido accenno al programma del partito è figlia proprio di questa costante indecisione del Partito Democratico sulla sua collocazione politica e soprattutto sulla sua assenza di ideologia.

Il Partito Democratico paga di essere stato per anni un “partito delle istituzioni” quello che si caricava la responsabilità del Paese di fronte alla necessità dei governi tecnici, quello che assumeva decisioni scomode per salvare l’Italia, ma soprattutto era il partito che non riusciva mai a realizzare il proprio programma di governo.

Dalle elezioni “non vinte” da Bersani il PD ha costantemente perso la sua connotazione di forza di sinistra per assumere il volto rassicurante di una destra liberale snaturando completamente il suo “essere di sinistra”, rinunciando non solo all’ideologia comunista ma anche e soprattutto a quella socialista e socialdemocratica.

Tutto questo ha portato il proprio elettorato ad una sostanziale disaffezione verso quelle che sono le istituzioni ed i vertici del partito dando vita a quell’emorragia di voti di cui abbiamo parlato sopra. Probabile che di fronte alle difficoltà del Governo di centrodestra il PD torni al Governo con un nuovo esecutivo tecnico, proponendo sé stesso nuovamente come architrave di un governo di salvezza nazionale. Il fatto è che, ancora una volta, lo farà a scapito della propria identità politica e sulla pelle dei suoi elettori.

Elezioni 2022: La “virata a sinistra” del Movimento 5 Stelle

Le elezioni che si terranno il prossimo 25 settembre segneranno un mutamento radicale della composizione del prossimo Parlamento.

Se le indicazioni di voto dovessero essere confermate ci troveremmo ad avere un centrodestra con una solida maggioranza ed un centrosinistra all’opposizione frammentato e diviso su politiche e strategie da seguire.

La campagna elettorale che ha preceduto le elezioni è stata segnata da una non discussione politica, ovvero, i partiti che sono scesi in campo si sono preoccupati di spiegare perché non votare per l’avversario piuttosto che convincere gli elettori perché votare per il proprio partito.

Alla luce di questa considerazione è importante cercare di capire (almeno da un punto di vista filosofico politico) quali potranno essere le differenze delle forze che potrebbero entrare in Parlamento.

Partiamo dal Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte, innanzi tutto perché si tratta del partito che alle scorse elezioni era il partito con la maggioranza relativa del 33% e perché rispetto alle scorse elezioni è quello che più di altri ha pagato il sostegno al Governo Draghi.

Partiamo proprio da qui, dalla fine del Governo Draghi, secondo alcuni causata proprio dalle decisioni politiche di Giuseppe Conte.

Senza raccontare i fatti (già ampiamente raccontati da telegiornali e giornali di ogni tipo e orientamento) cerchiamo di capire come (e se) il Movimento 5 Stelle è mutato rispetto al recente passato.

Innanzi tutto la prima cosa che salta agli occhi è che i due pupilli di Beppe Grillo – Luigi di Maio ed Alessandro di Battista – sono entrambi fuori dalle liste e dal Movimento.

Il primo, dopo essere stato presentato da Grillo come “ragazzo straordinario, è napoletano” nella famosa diretta streaming con Matteo Renzi (quella di “esci da questo blog Beppe”) ha subito una vera e propria mutazione genetica.

Passato dall’essere espressione della lotta al sistema è diventato parte integrante di quello stesso sistema che avrebbe dovuto abbattere tanto da uscire dal Movimento 5 Stelle e diventare stampella al Governo Draghi dopo aver iniziato una dura contestazione proprio a Conte (nel frattempo eletto portavoce del Movimento dopo essere stato per ben due volte Presidente del Consiglio sostenuto proprio da Luigi di Maio).

Alessandro di Battista invece ha fatto una scelta diversa: nato come controparte di lotta di Luigi di Maio, per anni ha incarnato la fiamma della contestazione che doveva essere tenuta viva nel Movimento 5 Stelle per non perdere il sostegno della parte movimentista dell’elettorato.

Anche Di Battista (sebbene per motivi diversi da Luigi Di Maio) in qualche modo è stato fatto fuori dal movimento.

In questo modo Conte è riuscito ad assumere il controllo del Movimento, mettendo fuori gioco con un colpo solo quelle che sono le uniche figure ingombranti che potevano oscurarlo e soprattutto (con la decisione di abbandonare la piattaforma Rousseau) si è anche tolto di mezzo la pesante influenza di Davide Casaleggio (il quale a differenza del padre vedeva nella piattaforma solamente un’opportunità di guadagno).

Ora, eliminati tutti gli avversari e ridimensionata la figura ingombrante di Beppe Grillo (il quale dall’inizio delle elezioni non ha ancora rilasciato una dichiarazione), Giuseppe Conte sta lavorando ad una vera e propria mutazione ideologica del Movimento: da partito populista qualunquista a partito ispirato al populismo di sinistra.

In sostanza, la strategia di Conte è quella di rivendicare la scelta di non aver votato la fiducia al Governo Draghi sull’invio delle armi in Ucraina e di scaricare la colpa della caduta sullo stesso Draghi reo di non aver accettato i punti richiesti dal M5S per proseguire l’esperienza di Governo.

Al di là del “giudizio morale” che si può esprimere sull’operato di Conte (giudizio peraltro impossibile perché la scienza politica è per definizione a-morale) bisogna ammettere che la strategia del portavoce del Movimento sta pagando, complice anche il suicidio di tutti quei partiti alla sinistra del Partito Democratico (che come vedremo in seguito sta perseguendo una linea in continuità con l’operato di Mario Draghi) che hanno obtorto collo deciso di schierarsi al fianco del PD in nome di un improbabile “Fronte di Liberazione Nazionale” non è ben chiaro da che cosa.

Giuseppe Conte, insomma ha la grande possibilità di andare ad occupare lo spazio lasciato vuoto dalla sinistra lavorando alla costruzione di un progetto ibrido tra quello che sognava Casaleggio (padre) e quello che invece ha realizzato in Spagna Podemos!

La strategia comunicativa di Conte anche sembra essere particolarmente vincente: la decisione di richiamarsi a principi “progressisti” (parola che richiama epoche antiche di post comunismo e socialismo) senza mai fare accenni ideologici e puntare tutto sulle cose di sinistra fatte dai Cinque Stelle (anche quando erano al Governo con Salvini) rischia seriamente di essere una strategia capace di portare voti al Movimento Cinque Stelle permettendo a Conte di occupare – da solo – gli scranni dell’opposizione.

Staremo a vedere tra dieci giorni quanto alla fine la sua strategia abbia pagato e quanto ci sia di vero nei suoi propositi, ma per ora verrebbe quasi da dirgli: hasta la victoria!

Presidenzialismo sì, presidenzialismo no, un tabù che dovrebbe essere superato

La campagna elettorale che ci porta alle elezioni del 25 settembre rischia di essere segnata da un dibattito al ribasso su una delle proposte della coalizione di centrodestra: la possibilità ventilata di una riforma costituzionale che superi il parlamentarismo e istituisca in Italia una repubblica presidenziale.

Sgomberiamo subito il campo da uno dei temi più gettonati da parte della sinistra: il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo non è un attentato alla Costituzione, la quale non vieta assolutamente di cambiare la forma di rappresentanza ma solamente di modificare l’assetto repubblicano del Paese (art. 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”).

L’art. 139 della Costituzione afferma solamente che non può essere messa in discussione non la forma repubblicana della nazione, dunque è un richiamo piuttosto esplicito al fatto che non si può proporre di tornare alla monarchia.

Tuttavia, nulla vieta nella Costituzione italiana di discutere di trasformare la nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale con elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Ovviamente il passaggio da una repubblica parlamentare ad una presidenziale non è una di quelle riforme che possono essere pensate in capo a qualche settimana o a qualche mese: ad essere ottimisti serve un’intera legislatura per poter modificare la Costituzione e fare in modo che il Presidente della Repubblica assuma potere tale da poter essere considerato un dittatore.

Per impedire derive totalitarie è necessario, ad esempio, che si svolgano due elezioni separate: una per la presidenza ed una per eleggere i rappresentati di Camera e Senato, prevedendo un sistema dove la maggioranza del Governo (quindi le due camere riunite) non sia la stessa maggioranza che ha espresso il Presidente della Repubblica che avrebbe necessariamente delle prerogative diverse da quelle che ricopre attualmente (ovviamente deve essere il dibattito parlamentare a stabilire quali dovranno essere queste prerogative).

Veniamo ora alla battuta di Silvio Berlusconi, quella che sta scatenando indignazione anche da parte di chi indignato non dovrebbe essere (vedi Di Maio che oggi difende Napolitano e che ieri ne chiese l’impeachment).

Berlusconi ha affermato in una intervista: una volta approvata la legge sul presidenzialismo (e di conseguenza dell’elezione diretta del Presidente) Mattarella si dovrebbe dimettere.

Ora, per quanto io possa non simpatizzare con Berlusconi, non riesco a vedere in queste parole un tentativo di deporre Mattarella (come sostiene Enrico Letta dal PD) o un tentativo di scardinare la democrazia per attuare una pericolosa dittatura.

Le parole in questo caso mi sembrano tanto essere state estrapolate dal contesto di un ragionamento più amplio: ovvero, nel caso in cui dovesse passare la riforma entrerebbe in vigore dalla prossima legislatura, ma questo significa che Mattarella sarebbe un presidente ad interim, ovvero ricoprirebbe il suo incarico sino a che non dovesse lasciare spazio al presidente eletto con voto popolare. Ora, se in questi anni ho imparato a conoscere Sergio Mattarella tutto è disposto a fare tranne ad avere un mandato a tempo per la presidenza della Repubblica.

Del resto lo ha detto chiaro e tondo quando è stato rieletto: la sua idea è quella di restare in carica per tutti e sette gli anni del suo mandato e solo dopo, eventualmente, lasciare il posto ad un altro Presidente.

Invece che discutere su quanto detto da Berlusconi sarebbe stato molto più utile avviare una discussione seria e politica sulla possibilità di realizzare una repubblica presidenziale dove non solo gli elettori scelgono da chi essere rappresentati ma anche che possa dare all’Italia un governo stabile per tutta la durata del mandato presidenziale.

Bisogna ripensare i poteri delle Camere, la suddivisione dei collegi, poteri e pertinenze del Presidente della Repubblica.

Ecco, tutto questo sarebbe un dibattito per rimettere la politica al centro dell’azione politica, tutto il resto è solo uno sterile dibattito estivo senza senso logico.

“Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”

Dal mancato accordo tra Azione di Carlo Calenda ed il Partito Democratico di Enrico Letta con il brillante programma di “sconfiggere la Destra” per arrivare ad un centrodestra che non trova di meglio che proporre un programma elettorale in linea con una visione peronista del mondo (taglio delle tasse, aumento della spesa pubblica, rischio concreto di bancarotta e tagli ai servizi essenziali) nel panorama politico italiano regna la confusione più completa.

Ad un mese dalle elezioni non solo non si capisce ancora bene quali sono gli schieramenti in campo ma non è chiaro nemmeno quali sono i programmi di quegli schieramenti.

Meglio ancora, se il centrodestra almeno sembra aver superato la fase critica della “costruzione delle alleanze” e si sta concentrando su un programma elettorale scritto solo per ammiccare ad una parte di elettorato, il centrosinistra sembra non avere ancora la minima idea di cosa proporre semmai dovesse andare al Governo.

In effetti le ultime settimane per la coalizione di centrosinistra sono state una giostra di accordi, candidature, nomi, “coalizione larghe” e “coalizioni strette” tutte con la sola idea di sconfiggere gli avversari con in mente la sola idea di “proseguire con la linea tracciata dall’agenda Draghi”.

Poco importa che il piano elaborato da Draghi era perfettamente in linea con le direttive neoliberiste del mercato (e quindi a rigor di logica molto lontane da quelle che sono le “normali” battaglie della sinistra).

Tenere insieme una coalizione sulla base di una agenda politica dichiaratamente neoliberista non è solo complesso, è impossibile quando una delle componenti di quella alleanza solitamente tende a combattere quelle politiche.

Deve averlo capito Carlo Calenda quando domenica ha deciso di rompere il patto con il Partito Democratico decidendo di andare da solo, che la strada per costruire un “fronte progressista e riformista” non solo non era percorribile con una alleanza che al suo interno aveva anche Sinistra Italiana e Verdi, ma che avrebbe anche potuto coinvolgere i Cinque Stelle, tutto in nome della “Santa Crociata contro i fascisti” (che vede solo il Partito Democratico).

Già, i Cinque Stelle, il partito guidato da Antonio Conte che non ha capito che stava per essere utilizzato da tutti per porre fine all’esperienza del Governo Draghi: dalla Lega passando per Forza Italia, allo stesso Draghi, evidentemente stanco delle continue lotte e dei continui distinguo in seno alla sua stessa maggioranza.

Tutto questo succede mentre l’Italia dovrebbe avere un Governo stabile per gestire ed amministrare al meglio i fondi del PNRR, mentre rischia di esplodere con l’autunno il conflitto sociale perché cresce la disoccupazione e le aziende continuano a chiudere.

Se nel centrosinistra piangono nel centrodestra non ridono.

I conflitti interni alla coalizione composta da Fratelli d’Italia – Lega e Forza Italia sono solamente sopiti, ma di certo non sono appianati.

Al momento la situazione appare particolarmente complessa anche da quelle parti, con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia come azionisti di maggioranza di una coalizione che non sembra si stia ancora studiando nonostante professi unità di intenti.

La volontà espressa dai tre partiti di non fare proposte elettorali viene giornalmente smentita dalle proposte di questa o di quella forza che promette di abbassare le tasse, eliminare l’immigrazione, aumentare le pensioni e sperperare denaro pubblico in bonus e mance elettorali.

Insomma, nella politica italiana – che mai come in questo momento avrebbe bisogno di stabilità visto il difficile periodo che ci spetta – la confusione sembra regnare ancora sovrana.

Possono cambiare ancora molte cose da qui al 25 settembre, ma per ora, i primi segnali non sembrano indurre all’ottimismo, si tratta solo di aspettare e come diceva bene in una sua canzone Lucio Battisti, che cosa accadrà “lo scopriremo solo vivendo”.

25 settembre: se la Destra “fascista” appare più unita della sinistra “progressista”

La caduta del Governo Draghi ha aperto la strada alle prime elezioni della storia repubblicana che si svolgeranno in autunno.

Viste le urgenze che avremmo dovuto affrontare le elezioni sono una vera e propria iattura per la tenuta economica e sociale del Paese, soprattutto perché esiste il rischio (a mio avviso molto concreto) che risulterà particolarmente complicato formare una maggioranza di Governo in grado di dare al Paese quella stabilità di cui avrebbe bisogno per poter tornare ad avere un ruolo da protagonista nel mondo occidentale. Non possiamo sapere con anticipo come andranno le prossime elezioni (non pretendiamo di avere la palla di vetro), possiamo limitare la nostra analisi sul risultato elettorale all’ipotesi che vincerà il centrodestra.

Detto questo però dai primi giorni di campagna elettorale possiamo già trarre alcune conclusioni, una su tutte: il centrodestra appare essere molto più compatto del centrosinistra. Alla coalizione Salvini-Berlusconi-Meloni è bastato un incontro per decidere la modalità con cui la coalizione sceglierà il prossimo leader. Si tratta di un’idea piuttosto semplice, che potremmo definire banale: sarà il partito della coalizione che prende più voti ad indicare quale leader di partito dovrà provare a formare un Governo.

Un modo questo per evitare guerre fratricide per decidere chi dovrebbe guidare la coalizione prima del voto.

In un sistema che progressivamente sta tornando al modello parlamentare della Prima Repubblica, dove a farla da padrone erano i partiti (anche se in questa fase politica i partiti appaiono particolarmente deboli con qualche rara eccezione) la scelta di indicare il nome del Presidente del Consiglio sulla base dei voti ai partiti appare la sola scelta logica, una scelta che avrebbe dovuto fare anche il centrosinistra.

Invece, il fronte progressista non solo non è stato in grado di trovare ancora un accordo sulla composizione delle prossime liste, ma non è stato ancora nemmeno capace di costruire una sorta di patto di Governo sulla base di un progetto comune per governare il Paese: ci si limita ed evocare l’Agenda Draghi sperando che questi possa tornare in campo dopo le elezioni. Un po’ lo stesso errore commesso da Pierluigi Bersani nel 2013 quando l’intera campagna elettorale del Partito Democratico venne incentrata sulla prosecuzione dell’agenda Monti, il quale nel frattempo era entrato in politica e non aveva nessuna intenzione di allearsi con il Partito Democratico.

Ora, questa situazione rischia di ripetersi, con l’aggravante che il centrosinistra non ha nemmeno stabilito un perimetro ben definito che stabilisce chi sono gli alleati di Governo e soprattutto perché bisogna essere alleati.

Non basta unirsi per sconfiggere la Meloni, serve un’idea seria su come bisogna ricostruire il Paese, su come vadano distribuiti i fondi del PNRR e di come si debba far fronte al crescente malessere sociale di diverse frange di popolazione.

L’ipotesi di un fronte progressista che unisca Partito Democratico – Azione e Articolo Uno sarebbe un progetto di governo che avrebbe un senso logico, ma per essere attuato ha bisogno che tutti i leader dei partiti coinvolti mettano da parte velleità di supremazia e divisioni personali e si uniscano per far fronte alle emergenze del Paese.

Spiace per Bersani (che ancora sogna di imbarcare Conte) ma un progetto simile non può assolutamente imbarcare il Movimento Cinque Stelle, non tanto per una questione di vendetta per aver fatto cadere il Governo Draghi, dimostrando di essere ancora troppo spesso degli alieni nella politica italiana.

Nella gestione della crisi Conte ha dimostrato di non essere ancora particolarmente avvezzo ai meccanismi della politica.

La crisi di Governo da lui innescata per una questione di principio gli è sostanzialmente scoppiata in mano, isolandolo completamente dalla scena politica italiana ed alienandogli la possibilità di essere l’eventuale ala sinistra di una possibile alleanza di Governo con il Partito Democratico.

Conte sembra non aver capito la gravità della situazione e non solo: il Movimento Cinque Stelle sta attraversando una fase piuttosto delicata della sua storia politica.

Il dibattito sul vincolo dei due mandati sembra non aver fine e sebbene Conte spinga per una deroga Beppe Grillo sembra non avere nessuna intenzione di cedere su quello che è uno dei punti fondamentali dello Statuto del Movimento.

Nessuno sembra considerare che proprio il vincolo è stato uno dei motivi fondamentali a spingere alcuni esponenti di spicco del Movimento ad abbandonare il Movimento stesso .

Questo li rende inaffidabili per una eventuale alleanza di Governo che deve progettare un piano politico della durata di una intera legislatura.

Discorso diverso, ma per molti versi simili deve essere fatto per Italia Viva.

Il partito di Matteo Renzi, a differenza dei Cinque Stelle sa bene come muoversi nelle stanze del potere, ma questo lo rende ancora più pericoloso per la stabilità di un eventuale Governo.

Inoltre, i punti di contatto tra Italia Viva ed una eventuale coalizione di sinistra e progressista, intenzionata a lavorare ad un progetto socialdemocratico, sono quasi nulli.

Italia Viva – per come si è mossa negli ultimi anni -. spesso è stata molto più vicina al centrodestra che non al centrosinistra.

Possiamo considerare questi due partiti le “ali estreme di una eventuale coalizione di centrosinistra” e questo basterebbe ad escluderla da un progetto unitario come quello che avrebbe in mente il segretario del Partito Democratico Enrico Letta.

Una coalizione troppo larga sarebbe rischiosa perché sarebbe unita solo della logica dello stare uniti “contro i sovranisti” (qualunque cosa questo voglia dire).

Se il centrosinistra vuole competere alle elezioni è invece fondamentale costruire un progetto di Governo che metta al centro della propria azione politica diritti e lotta alla povertà.

Due anni di pandemia hanno fiaccato il Paese, hanno aumentato la povertà ed hanno aumentato il tasso di disoccupazione a livelli molto più alti rispetto a due anni fa.

Bisogna puntare su un nuovo patto con i cittadini che impedisca la vittoria della Destra non perché populista ma perché le sue proposte puntano a smembrare quel poco di stato sociale che abbiamo ancora in piedi in Italia.

Nel caso si dovesse perdere, inoltre, non bisogna fare il solito psicodramma cercando un capro espiatorio per la sconfitta ma bisogna rimboccarsi le maniche coerentemente con la propria storia e fare un’opposizione credibile, ideologica e coerente con le proprie idee di società.

Mattarella bis. Chi vince, chi perde

Le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica si sono di fatto concluse con un nulla di fatto: alla fine del Grande Gioco il Parlamento non è stato in grado di trovare un nome condiviso, un candidato decente in grado di prendere il posto di Mattarella.

Eppure queste elezioni hanno comunque dato dei segnali politici interessanti per capire quali sono gli equilibri dentro le forze politiche in Parlamento in vista delle elezioni del prossimo anno.

Una nota a margine, prima di dare le pagelle va fatta: quella che abbiamo vissuto più che una crisi parlamentare è stata una vera e propria crisi politica, dove i leader di partiti non solo hanno perso la loro capacità di attrattiva sulle masse ma hanno anche perso il controllo dei loro partiti sempre più in difficoltà.

Matteo Salvini

Partiamo dal grande sconfitto.

Matteo Salvini. Avrebbe dovuto essere il king maker dell’elezione del Presidente della Repubblica.

Questa elezione sarebbe dovuta essere per Salvini il battesimo del fuoco che lo legittimava come capo indiscusso del centrodestra, il primo che riusciva a far eleggere un Presidente alla destra.

Invece questa elezione è stata la sua Caporetto. Una sconfitta peggiore di quella subita da Bersani nel 2013, quella dei famosi 101 franchi tiratori.

Andiamo però con ordine: inizialmente Salvini decide di giocare di rimessa. Nelle settimane precedenti le elezioni ha cercato in tutti i modi di smarcarsi dalla pesante autocandidatura di Silvio Berlusconi.

Nel corso delle elezioni è riuscito a dire tutto ed il contrario di tutto.

Prima presenta la rosa di nomi composta da Moratti, Pera e Nordio. I nomi a prova di bomba del centrodestra, tre nomi che avrebbero dovuto avere il consenso del centrosinistra perché “non hanno tessere di partito e perché sono nomi al di là di ogni sospetto” una conferenza stampa fantozziana, dove ad un certo punto a proposito di Pera dice “mica è da tutti scrivere un libro con Benedetto XVI”.

Peccato che poi si lascia abbindolare dal centrosinistra che boccia i nomi costringendo Salvini ad iniziare un disperato inseguimento per cercare un nome che potesse piacere al centrosinistra.

Cerca di far virare i suoi su Casini, ci ripensa, poi ritorna su Casini e crea confusione nella sua stessa coalizione.

Alla richiesta di nome super partes propone Elisabetta Casellati – cercando una sponda con Renzi che però lo lascia appeso – puntando sul fatto che non “si possa dire di no al Presidente del Senato”. Risultato, la Casellati viene bruciata non ottenendo nemmeno i voti della Lega. In poco meno di due giorni riesce a distruggere il fragile equilibrio del centrodestra, perdere consensi nel suo partito e portare alle quasi dimissioni di Giorgetti dal Governo.

Distruttivo: Voto 3

Giorgia Meloni

Di certo nemmeno Giorgia Nazionale può cantare vittoria.

La sua speranza era quella di mandare Mario Draghi al Colle per tornare al voto il prima possibile e la rielezione di Mattarella non è di certo una vittoria.

Nonostante il nome proposto da Fratelli d’Italia non avesse nessuna chance di vittoria (Nordio) è stato utile per dare un segnale importante alla coalizione di centrodestra: Fratelli d’Italia è apparso l’unico partito coeso e con una strategia.

La loro idea era quella di mandare Draghi al Colle per andare al voto anticipato, visto che non era possibile tanto valeva restare all’opposizione e votare per un proprio candidato.

Tattica: Voto 6,5

Enrico Letta

Il segretario del PD sapeva solo due cose quando tutto è iniziato: non aveva i numeri del Parlamento e doveva evitare i franchi tiratori nel suo partito.

Decide allora di adottare la strategia migliore: tirare i remi in barca ed aspettare che fossero gli altri a fare proposte e bruciare candidati nella migliore tradizione democristiana.

Con i suoi no e le sue non risposte manda fa saltare i nervi a Salvini che va letteralmente in tilt, fa saltare il banco dell’asse Conte-Salvini per il nome della Belloni, fino a portare tutto il Parlamento dove voleva lui: ovvero scegliere un nome tra Draghi e Mattarella.

Alla fine viene eletto il secondo, Letta esprime soddisfazione anche se non era il suo candidato ideale (visto che anche lui come la Meloni avrebbe preferito andare al voto anticipato per non logorare troppo il partito

Democristiano: Voto 7-

Luigi di Maio

Se proprio si dovesse cercare un vincitore nelle giornate convulse che abbiamo vissuto, il vincitore è proprio lui.

Il ragazzo di Pomigliano d’Arco, quello che venne usato come figurina da Beppe Grillo nel 2013, che parlava del partito di Bibbiano e che tutti prendevano in giro perché aveva fatto il bibitaro a San Paolo negli anni in cui è stato in Parlamento ha studiato ed ha capito benissimo come funzionano i meccanismi del potere.

Di Maio aveva in mente tre obiettivi: prendere il posto di Draghi come Presidente del Consiglio, lasciare tutto com’è e liberarsi della morsa di Conte e Grillo per riprendersi il movimento.

Di tutti quelli menzionati sinora è il solo che sarebbe caduto in piedi in qualunque caso.

Resta in silenzio per buona parte delle elezioni, lasciando a Conte la patata bollente di parlare con la stampa, salvo poi affossarlo con un colpo di teatro quando boccia il nome della Belloni dicendo “Elisabetta è una sorella, ma non la voto”.

Doroteo: Voto 9.

Giuseppe Conte

Forse perché non troppo avvezzo ai giochi di potere in una situazione simile, forse perché troppo buono ed ingenuo, fatto che sta che l’ex Avvocato degli Italiani viene asfaltato su tutta la linea.

Va detto che in molti casi ha fatto tutto da solo: sino a pochi giorni prima delle elezioni sostiene Mattarella, poi inizia a spingere per un candidato donna, chiunque esso sia.

Cerca di liberarsi del duo Di Maio-Letta che trama alle sue spalle cercando di stringere un accordo sulla Belloni con Salvini ma viene sconfessato dalla stesso di Maio che lo lascia con il cerino in mano, perde completamente contatto con la realtà e con il suo stesso partito ed è costretto ad accettare obtorto collo la rielezione di Mattarella.

Ingenuo: Voto 4

Matteo Renzi

La sua strategia era semplice: far eleggere Pierferdinando Casini.

Il fatto è gioca la sua partita come un consumato giocatore di poker che ha in mano un full mentre ha una coppia di due.

Va detto che ci prova sino alla fine, tessendo trame, cercando un asse che vada da destra a sinistra sperando di conquistare consensi per il suo candidato senza farlo sapere troppo in giro. Depista i giornalisti parlando della cessione di Vlahovic alla Juventus e tiene la bocca cucita su qualunque nome possibile per la presidenza.

Quando si accorge che non ha chance lo molla in maniera cinica e fa convergere i voti su Mattarella per intestarsi almeno una parte della vittoria degli altri.

Ha il merito di essere il primo ad affossare il nome della Belloni e costringe tutti gli altri a seguirlo sulla stessa strada che avrebbe portato in maniera inevitabile alla rielezione di Mattarella.

Cinico: Voto 7,5

Anna Maria Casellati

Cade nella trappola di credere che Salvini abbia i voti per eleggerla e rimane spiazzata quando si rende conto non solo di non avere i voti della sinistra (come era ovvio) ma di non avere nemmeno quelli del centrodestra.

Commette il grave errore di restare al suo posto mentre nello spoglio facendosi inquadrare più volte mentre manda messaggi al cellulare, incurante di tutto quello che le succede attorno.

Non contenta, al momento dello spoglio con il suo nome, compie l’errore di restare seduta al suo posto mentre avviene lo spoglio, costringendo Salvini a difenderla con parole improbabili.

Disperata: Voto 5

Altri attori

Pierferdinando Casini

Il Grande Sconfitto.

Come ogni elezione che si rispetti entra da papa e ne esce cardinale ma ha il merito di uscirne a testa alta.

Per tutta la durata delle elezioni non rilascia una dichiarazione che sia una, posta sui social una sua foto da giovane parlando di “passione politica” e tesse trame con gli altri parlamentari cercando di conquistarsi il più ampio consenso possibile, sapendo benissimo che la sua potesse essere una battaglia persa. Non si espone al carrozzone mediatico e quando viene eletto Mattarella evita accuratamente gli schizzi di fango prodigandosi in complimenti per la scelta dei partiti e nei complimenti al Presidente rieletto.

Vero Democristiano: Voto 7,5

Mario Draghi

Anche lui, entra da papa e ne esce cardinale se non vescovo.

Dopo aver lanciato la sua personale opa alla carica di Presidente della Repubblica con il discorso di fine anno e convinto che tutti i partiti lo eleggeranno al Colle rischia di restare con il cerino in mano, senza la Presidenza e soprattutto con un governo spaccato.

Per quanto rispetto a Mario Monti (recentissimo predecessore Presidente di un Consiglio di un Governo tecnico) Mario Draghi è indubbiamente più “politico” ma in questo frangente dimostra di non avere la minima idea della politica.

Incapace di leggere gli equilibri su cui si regge il Parlamento, analizzare le forze in campo, si lancia in una improponibile autocandidatura visto il momento che si trova a vivere l’Italia.

Si salva in corner chiamando personalmente Mattarella implorandolo di accettare un secondo mandato.

Egocentrico: Voto 6,5

Sergio Mattarella

Il vero convitato di pietra di queste elezioni presidenziali.

Il nome che aleggia per tutta l’elezione in ogni angolo del Parlamento.

Cerca in tutti i modi di evitare di essere tirato in ballo, parla ogni volta dei rischi costituzionali in caso di rielezione ed apre alla sua rielezione solo nel caso in cui ci fosse una larga maggioranza sul suo nome.

Scompare dai radar per tutti e cinque i giorni, non rilascia dichiarazioni, diventa un fantasma.

Ricompare solo per accettare il mandato presidenziale per la seconda volta dopo essere risultato il Presidente eletto con più voti nella storia repubblicana.

Accetta l’incarico esordendo con una frase che secondo me entrerà nella storia: “Avevo altri piani, ma mi metto al servizio delle istituzioni” dimostrando di essere un buon servitore delle istituzioni da una parte e dall’altra lasciando comunque intendere che serve una profonda riorganizzazione dei partiti, che comunque non tocca a lui.

Vero mattatore: Voto 10

Silvio Berlusconi

Altro convitato di pietra alle elezioni del Presidente, a differenza di Mattarella, si muove come un caterpillar giocandosi tutte le carte a disposizione per essere eletto Presidente.

Sconfessato prima ancora della sua elezione dai suoi stessi alleati prova sino alla fine a giocare una partita che era già persa in partenza e si fa male.

Quando si rende conto che non ha nessuna possibilità prova a minare il centrodestra dall’interno spingendo i suoi a votare per Mattarella quando tutto il centrodestra vota per Casellati (i 49 voti per Mattarella sono quasi tutti di Forza Italia).

Politicamente forse è finito ma riesce comunque con un colpo di coda a non consegnare il centrodestra a Salvini e Meloni e non è detto che alle prossime elezioni non avrà comunque voce in capitolo pur essendo di fatto fuori dai giochi.

Stratega: Voto 5,5.

2022, l’anno che verrà (idee per un socialismo moderno)

Gli eventi da cui voglio partire per il solito articolo di prospettive per il 2022 sono due: la prima, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, conferenza in cui il Presidente del Consiglio de facto decide di buttare là la sua nomina a prossimo Presidente della Repubblica.

Quella definizione di “nonno d’Italia al servizio delle istituzioni” sembra essere quasi un richiamo ad altri nonni d’Italia: Sandro Pertini, Francesco Cossiga (il nonno esuberante è un po’ matto), Oscar Eugenio Scalfaro (il nonno severo), Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Questa dichiarazione, se unita al fatto che lo stesso Mario Draghi sostiene che la attuale maggioranza possa andare avanti anche senza di lui (magari trovando una figura altrettanto autorevole per guidare il Governo sino alla fine della legislatura, un nome su tutti quello di Marta Cartabia, attuale Ministro della Giustizia e già membro della Corte Costituzionale), possiamo ipotizzare uno scenario in cui Draghi viene eletto Presidente della Repubblica e nomina il Presidente del Consiglio.

Siamo di fronte a quella che potrebbe essere una svolta epocale nel modo di intendere la politica italiana, una svolta che allo stesso tempo rischia di creare un pericoloso “corto circuito costituzionale” dove il Presidente della Repubblica viene nominato dal Parlamento che presiede e decide il suo successore senza passare dalle urne.

Si arriverebbe insomma ad un semi-presidenzialismo senza elezione diretta del Presidente e senza elezione del Parlamento. Semmai dovesse verificarsi uno scenario simile servirebbero alle due presidenze due figure di alto spessore costituzionale e politico in grado di guidare una svolta che deve necessariamente passare da una riforma costituzionale.

Arrivare al semi-presidenzialismo sarebbe una svolta per un Paese come l’Italia, da anni ingessato in un sistema come quello parlamentare spesso ancorato ad una visione della politica di impronta gattopardesca dove “tutto cambia per non cambiare niente”.

E qui arriviamo al secondo evento della settimana: la vittoria di Boric, candidato socialista alle elezioni in Cile.

Ora, la domanda che ci si potrebbe porre è: che correlazione esiste tra i due eventi? Apparentemente nessuna, ma se cerchiamo di dare una lettura “alternativa” a questa notizia possiamo cercare di stilare una lista di buoni propositi per la sinistra italiana.

La vittoria in Cile di un candidato socialista dimostra senza alcuna ombra di dubbio che le idee socialiste non sono morte ma anzi possono ancora convincere una larga parte di popolazione a votare per una parte politica che a quei principi si richiama.

Prenda lezione il Partito Democratico: accanto alle battaglie sociali (giustissime) bisogna portare avanti anche quelle battaglie politiche ed economiche che sono alla base della costruzione di uno stato ispirato da principi socialisti: redistribuzione della ricchezza, diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto alla salute, diritto alla libertà di scelta, tutte battaglie che negli ultimi anni sembrano essere state abbandonate dal Partito Democratico impegnato nel tentativo di “umanizzare la globalizzazione”.

Va ammesso – come già sostiene Massimo D’Alema – che la globalizzazione non può essere umanizzata, non si tratta di un processo economico a favore delle masse, ma si tratta di un sistema economico fondato sull’individualismo, sul processo di homo homini lupus.

La sinistra deve recuperare il senso della collettività, rimettere il “noi” al centro della politica dopo che per anni ha portato avanti battaglie incentrate sul concetto di “io”.

La sinistra deve ritrovare la sua strada, ripartire da quella che definisco essere la “trilogia dei Maestri della sinistra”: Gaetano Azzariti, Mariana Mazzuccato e Thomas Piketty.

Si riparta da questi tre pensatori per rimettere al centro un forte pensiero ideologico, in grado di giustificare le scelte politiche e conquistare voti.

Si riparta da alcune idee base, dalla ricostruzione del pensiero socialista, invece che continuare con la sua distruzione perché si cerca di inseguire la destra per occupare il centro.

Per il nuovo anno insomma, si lavori alla costruzione sì della nuova Italia, ma anche di una nuova sinistra che possa assumere la guida di quel processo di transizione del Paese, una sinistra che riparta da una delle idee più semplici della politica, che poi è una delle idee più belle del socialismo: “indietro non resti nessuno”.

Buone Feste e Hasta la victoria, Siempre!