Il voto europeo e la fine del “centrismo”

Le ultime elezioni europee, al di là del risultato che non cambia nulla all’interno degli assetti del Parlamento Europeo ha comunque lanciato un segnale politico importante: la fine del centrismo come pratica politica.

Partendo dal fallimento del Terzo Polo in Italia (sia a causa di divisioni politiche incomprensibili agli elettori sia a causa di un programma politico completamente sballato) per arrivare alla sconfitta di Macron in Francia (talmente tanto netta da costringere il Presidente alle elezioni anticipate) la sconfitta delle politiche centriste andrebbe analizzata (e metabolizzata, soprattutto a sinistra) come un dato di fatto.

Prima di parlare della Francia (la cui situazione complessa merita più di qualche attenzione) cerchiamo di analizzare quello che è successo a casa nostra (sempre tenendo conto, come già ricordato nell’articolo sulle elezioni europee, che l’affluenza era al di sotto del 50%).

La vittoria di Fratelli d’Italia che si assesta al 29% (circa) conferma che la linea governista e populista di Giorgia Meloni sembra riscuotere un notevole successo tra le masse.

La Presidente del Consiglio è riuscita, dal momento che ha vinto le elezioni, a tenere in piedi da un lato la politica moderata capace di rassicurare l’Unione e scongiurare così il pericolo fascista (ne sono testimonianza anche le frequenti visite negli Stati Uniti ed i frequenti incontri con il Presidente americano Joe Biden) e dall’altro presentare un programma politico decisamente sbilanciato a destra sia un campo politico (premierato) sia nel campo dei diritti (difesa della famiglia tradizionale), quasi o nulla in campo economico dato che le nostre decisioni sono vincolate alle direttive europee (lasciando pertanto ai singoli governi pochissimo margine di manovra).

Peraltro un risultato in controtendenza quello italiano: laddove tutti i governi in carica hanno perso l’Italia è il suo Paese ad aver confermato il voto delle urne, rafforzando la posizione di Giorgia Meloni tra gli italiani e soprattutto tra gli alleati di governo.

La luna di miele tra il Paese e il Governo sembra dunque continuare, sebbene le notizie dal Parlamento Europeo sembrano non essere buone: non solo Giorgia Meloni rischia di essere completamente ininfluente nella decisione della prossima presidente del Parlamento Europeo (e tutto sembra indicare una riconferma della Von der Layen) ma, se l’Unione Europea dovesse iniziare a battere casse dove aver indicato una procedura per effrazione a danno dell’Italia (stavolta in compagnia di Francia e Germania) il Governo sarebbe costretto ad operare ancora più tagli a sanità, istruzione e welfare per far fronte a quelle che sono le richieste dell’Europa.

Il Partito Democratico dal canto suo ha visto premiato il suo nuovo corso che lo pone come “antagonista naturale di Fratelli d’Italia”. La decisione di puntare sulla costruzione di un fronte progressista sembra stia dando i suoi frutti (se il PD è passato dal 17% delle scorse europee al 24% delle elezioni attuali) sebbene rimanga un progetto ancora in fieri e soprattutto rimane un processo monco (soprattutto se l’emorragia di consensi ai Cinque Stelle dovesse continuare a salire).

La situazione italiana, insieme alla vittoria di AFD in Germania e soprattutto di Marine le Pen in Francia indicano due cose: innanzi tutto uno spostamento verso destra dell’opinione pubblica europea (complice la decisione delle sinistre di accettare le logiche del neoliberismo e farle proprie) ma soprattutto indica la necessità di polarizzare lo scontro politico tra destra e sinistra, se è vero che alle prossime elezioni Macron rischia di rimanere schiacciato tra appunto il partito di Marine le Pen e il neonato Fronte Popolare che mette insieme tutte le forze della sinistra francese con un programma decisamente orientato ad una politica sempre meno orientata verso il centro e sempre più spostata a sinistra (appunto).

Allo stesso modo l’Unione Europea rischia di restare invischiata (per l’ennesima volta) in un Governo di larghe intese che rischia di scontentare tutti i Paesi e tutte le forze politiche, da destra a sinistra. Il centrismo sembra dunque essere arrivato alla fine, per cedere il posto alla radicalizzazione dello scontro destra-sinistra riportando la politica degli Stati nazionali ad una politica di radicalizzazione e di polarizzazione delle posizioni politiche.

Una radicalizzazione meno netta del passato (poiché la maggior parte delle forze appartenenti al PSE sono per il mantenimento dello status quo almeno nel Parlamento Europeo) ma che allo stesso tempo rischia di sconvolgere gli equilibri nazionali e di conseguenza quelli europei, soprattutto se (come sembra) in Francia dovessero vincere le forze della destra lepenista la quale a quel punto potrebbe pensare sul serio di dettare legge in Europa ed essere la base per la costruzione di un ampio fronte di opposizione alle politiche dell’Unione Europea.

Bisogna dunque aspettare per capire se questa analisi è corretta, ma sino a questo momento i segnali sembrano essere inequivocabili: la stagione politica della conquista dei voti al centro sembra essere definitivamente archiviata.

L’Europa al voto: come cambiano gli assetti dell’Unione Europea dopo le ultime elezioni

Terminato lo spoglio delle Europee è possibile iniziare a delineare quelli che potrebbero essere gli scenari futuri del prossimo Parlamento Europeo.

Partiamo dai numeri del voto italiano: Fratelli d’Italia si conferma essere il primo partito italiano (con il 28,9%); il Partito Democratico ottiene un buon risultato confermando la leadership interna di Elly Schlein (un buon 24% che conferma il Partito Democratico come architrave di una eventuale alleanza di centro-sinistra); crollo del Movimento Cinque Stelle (che scende al di sotto della soglia psicologica del 10% fermandosi al 9,95%); sostanzialmente identici le percentuali di Lega e Forza Italia (9,72% per Forza Italia e 9,12% per Lega con il secondo trascinato dall’intuizione di candidare Vannacci come capolista); risultato notevole anche per l’Alleanza Verdi/Sinistra che sostanzialmente doppia il risultato delle scorse Europee (6,67% segno che le scelte di Fratoianni si stanno rivelando essere “vincenti”); deludente crollo del fu Terzo Polo (Azione si ferma al 3,34% mentre Stati Uniti d’Europa si ferma al 3,72%)

Fratelli d’Italia

Il buon risultato ottenuto da Giorgia Meloni consolida la forza di Giorgia Meloni all’interno del Governo e rafforza la sua leadership come architrave del centrodestra, di fatto polarizzando lo scontro con il Partito Democratico (che come vedremo si è spostato a sinistra). Allo stesso tempo Fratelli d’Italia si conferma interlocutore credibile al livello europeo per la formazione di una nuova maggioranza spostata verso destra, anche se il PSE potrebbe essere di nuovo determinante nella scelta del prossimo presidente della Commissione (anche questo lo vedremo quando parleremo della sinistra).

Fratelli d’Italia si conferma il solo partito di governo in tutta Europa a consolidare il suo consenso, un segnale importante sia sul piano europeo che sul piano interno, anche se il 24% ottenuto dal Partito Democratico consolida la radicalizzazione della politica italiana con una destra sempre più orientata verso un conservatorismo molto simile a quello britannico ed una sinistra che si avvicina sempre più ad un partito laburista dove convivono moderati e progressisti.

Partito Democratico

Sebbene molti preannunciavano un crollo del Partito Democratico causato dallo spostamento a sinistra fortemente voluto dalla segretaria del PD Elly Schlein il PD aumenta i propri consensi passando dal 17% delle scorse elezioni Europee al 24% di queste consultazioni (migliorando anche il 21% delle scorse elezioni politiche), scongiurando la tanto temuta emorragia di voti.

Vero, l’astensione a queste consultazioni europee resta altissima (ha votato meno del 50% degli aventi diritto al voto) però resta il fatto che il PD esce finalmente dallo steccato della zona ZTL e recuperare qualche consenso tra i lavoratori e soprattutto tra gli under 30.

La scelta di Elly Schlein di condurre una campagna elettorale “casa per casa, strada per strada” (utilizzando un’espressione coniata da Enrico Berlinguer negli anni Ottanta) alla fine dei conti si è rivelata essere una scelta vincente.

Il risultato del PD è importante per due motivi: innanzi tutto perché conferma il ruolo del PD in vista di una qualunque alleanza per sconfiggere la destra (in termini di voti resta insieme a Alleanza Verdi e Sinistra il solo partito che aumenta in maniera esponenziale i propri voti) ma soprattutto perché ancora una volta nel blocco del socialismo europeo il Partito Democratico resta il partito più votato. Alla segretaria democratica va dato il merito di essere riuscita a spostare a sinistra l’asse del partito (riportando dentro i “dissidenti” di Articolo Uno) e di essere riuscita a farlo tenendo dentro l’ala moderata del partito senza drammatici strappi. L’asse Schlein-Bonaccini si conferma vincente anche per tenere in piedi le due anime del partito (la conferma arriva dal fatto che entrano al Parlamento le anime più radicali espressione della volontà della Schlein e tutti i sindaci dell’ala moderata, da Nardella a Gori).

Il lavoro di costruzione di un asse veramente competitivo resta ancora lungo (anche perché i 5 Stelle sono crollati al 10% e il cosiddetto Terzo Polo sembra non avere nessuna intenzione di lavorare alla costruzione di quel “fronte largo” necessario per battere le destre preferendo tenersi le mani libere in fatto di alleanze)

Movimento Cinque Stelle

Il vero sconfitto di queste elezioni europee. Passa dal 18% del tanto contestato di Maio al 10% (dopo aver rischiato per lungo tempo di scendere sotto la soglia psicologica del 10%), pur confermandosi il vero “partito del Sud” dove Conte ha fatto il pieno di voti.

L’astensionismo ha punito soprattutto i Cinque Stelle (dato che il travaso di voti tra 5 Stelle e PD è stato minimo) visto che molti elettori che alle scorse europee avevano votato per il partito di Conte non si sono ripresentati alle urne. Cercare di comprendere le ragioni di quella che appare a tutti gli effetti una sconfitta è fondamentale per la sopravvivenza dei Cinque Stelle anche perché il risultato spegne ogni ambizione di Antonio Conte a presentarsi come federatore di una possibile alleanza a sinistra. Se si volessero capire le cause di questa sconfitta dobbiamo innanzi tutto risalire alle ambiguità dei Cinque Stelle in campo europeo: l’incertezza di una posizione precisa nel Parlamento Europeo così come l’incertezza di una linea politica che resta ambigua (fattore su cui pesa anche l’aver governato sia con la Lega che con il PD) unita ad un sentimento di delusione (soprattutto dei più giovani) che non vedono più nei Cinque Stelle quella spinta al cambiamento inizialmente promessa (quando presero quel 33% di preferenze alle elezioni politiche) ha portato a questa sconfitta del Movimento.

Ora per Conte si apre una fase piuttosto delicata: da “portavoce” deve decidere dove collocare (politicamente) il movimento, se a sinistra o se rimanere una forza ambiguamente centrista che adegua le proprie politiche all’alleato di turno.

Lega per Salvini Premier

Analizzare il voto della Lega appare piuttosto complesso: da un lato Matteo Salvini recupera (grazie all’intuizione di candidare il Generalissimo Vannacci) un buon 2% (soprattutto al Sud) rosicchiando qualcosa a Forza Italia (il vero antagonista della Lega nella lotta ai voti tutta interna al centrodestra) ma perdendo nettamente voti al Nord.

Del resto non poteva essere altrimenti: la scelta fatta ormai da tempo da parte di Salvini di trasformare la Lega in un partito sovranista nazionale è una scelta che ha avvicinato molte persone al Sud ma ha di fatto allontanato quella parte di elettorato della Lega ancora convinto del federalismo e dell’autonomia del Nord (non a caso la Lega ha perso le elezioni amministrative a Pontida, da anni sede dei raduni della Lega) e si è alienato una parte della sua stessa classe dirigente a partire proprio da Umberto Bossi, il Senatur che ha dichiarato di aver votato Forza Italia alle elezioni Europee di fatto sconfessando la linea politica di Salvini e la sua segreteria.

Del resto non poteva essere altrimenti: la Lega Nord si è sempre dichiarata “federalista” ed “antifascista” idee entrambe sconfessate dalla segreteria di Matteo Salvini.

Ora, per il leader della Lega la sola speranza è che il partito della Le Pen non lo abbandoni in Europa (per aderire ai Conservatori) abbandonando la linea “fascista” per adottare un profilo più gollista per conquistare la presidenza della Repubblica Francese alle prossime elezioni presidenziali.

Alleanza Verdi Sinistra

Sono i veri vincitori delle elezioni: dati a poco meno del 3% prima delle elezioni raggiungono il 6,2% triplicando il risultato delle scorse elezioni europee, recuperando consensi (soprattutto tra i più giovani), togliendo voti soprattutto ai Cinque Stelle.

Un successo costruito tanto da Bonelli (segretario dei Verdi) ma soprattutto da Nicola Fratoianni che ha messo in piedi una lista con delle candidature politicamente forti (andando spesso anche contro l’opinione pubblica ed il Governo). Una su tutte, la candidatura di Ilaria Salis, sotto processo in Ungheria e ora “liberata” dall’immunità parlamentare e di Ignazio Marino (che torna alla politica dopo la fine della sua avventura come sindaco di Roma).

AVS diventa così un alleato prezioso per il Partito Democratico nella costruzione del campo progressista permettendo alla segreteria PD di avere un interlocutore fermo nelle sue posizioni ma allo stesso tempo molto più dialogante rispetto a Conte che cerca di ritagliarsi un ruolo di leader nella coalizione di centrosinistra.

Terzo Polo (Azione-Italia Viva- +Europa)

Ultimo (in tutti i sensi) il Terzo Polo non riesce a raggiungere il quorum anche perché si è presentato diviso alle elezioni europee che avrebbero dovuto segnare il successo del movimento Renew Europa vicino alle posizioni di Macron (il quale peraltro è stato pesantemente sconfitto tanto da dover indire elezioni anticipate). Pensare che andando insieme avrebbero potuto avere il 7% deve far riflettere tanto Matteo Renzi quando Carlo Calenda.

Il problema del Terzo Polo è che nessuno dei due maggiori azionisti (Renzi e Calenda) sembrano avere intenzione di deporre le armi e lavorare per una vera e propria unione politica. Insomma, il Terzo Polo rischia di essere l’ennesimo tentativo fallimentare di costruire un polo centrista in Italia, anche perché la maggior parte delle realtà centriste (quella di Noi moderati di Lupi per esempio) ha deciso di sostenere (e per ora confluire) in Forza Italia piuttosto che nel Terzo Polo.

Ora si tratta di rimettere insieme i cocci di una coalizione iniziata male e finita peggio, segnata per tutta la sua esistenza dalle litigate tra Renzi e Calenda che sembrano essere i capponi di Alessandro Manzoni, incapaci di allearsi anche di fronte alla certezza di poter evitare la morte (si intende politica in questo caso) solo stando alleati.

Cosa cambia in Europa?

Queste elezioni europee di fatto lasciano la situazione politica dell’Unione Europea sostanzialmente invariata. Difficilmente il centrodestra potrà nominare il Presidente della Commissione senza l’apporto del PSE (a meno che non apra ai sovranisti di Marine Le Pen) per cui si rischia una seconda maggioranza Von der Layen, eventualità che segnerebbe una sconfitta per i Conservatori sia nel caso venissero esclusi dalla formazione del prossimo Governo (nonostante la netta affermazione in Europa) sia nel caso venissero costretti a sostenere una maggioranza che comprende anche il PSE.

Staremo a vedere che cosa succederà, qualunque cosa questo voto è riuscito a dare una scossa ad un’Unione Europea da troppo tempo ferma su posizioni conservatrici, incapace di avere una linea politica comune e incapace di parlare sulle questioni internazionali con una sola voce.

L’ultimo Cavaliere (Il Re è morto, viva il Re!)

Mi sono preso qualche giorno di tempo per scrivere qualche considerazione sulla morte di Silvio Berlusconi.

Lo ho fatto perché in qualche modo ho dovuto “metabolizzare” la morte di colui che, volenti o nolenti, ha segnato la vita politica, sociale ed economica dell’Italia degli ultimi quarant’anni almeno. Inoltre, non ho commentato niente a caldo, non volendo prestarmi al gioco mediatico di chi lo ha osannato come un novello “Santo subito” e chi lo ha presentato come l’incarnazione dell’Anticristo.

Servirà tempo per superare il “berlusconismo” e ne servirà ancora di più per poter esprimere un giudizio equo su quella che è stata la figura di Silvio Berlusconi: imprenditore visionario, “grande statista”, uomo di pace, criminale, cantore dei vizi e delle virtù italiane, l’uomo che si è fatto da solo, Silvio Berlusconi è stato tutto questo.

Per anni ha incarnato il mito del self made man all’italiana, l’incarnazione dello spirito reaganiano del capitalismo con tutti i suoi vizi e le sue virtù. Quando si parla di Berlusconi non si può non tenere conto che le sue televisioni hanno plasmato la mente degli italiani, in qualche modo hanno narrato un Paese in cambiamento, smarrito dopo la fine della classe dirigente post-Tangentopoli.

Sul politico e sulla persona è stato detto tutto: sulle sue inchieste, sui suoi vizi, sulle sue gaffes, sulla fine inglorioso del suo impero politico con le risatine di Sarkozy e della Merkel e il Parlamento che vota sostenendo che “Ruby era la nipote di Mubarak”.

Silvio Berlusconi ha inventato il concetto di “partito azienda” in almeno trent’anni di attività politica ha plasmato la mente degli italiani, dividendo il Paese in folle osannanti che lo amavano e folle di persone che lo odiavano. Non è facile essere obiettivi quando si parla di una figura tanto divisiva, soprattutto perché qualunque cosa si dica rischia di essere interpretata come “odio mediatico” o come “santificazione di un criminale” per questo sarebbe il caso di andare con ordine e capire prima di tutto chi era Silvio Berlusconi e perché è stato tanto amato (e odiato) dalla popolazione italiana.

Fino al 1994 era un imprenditore spregiudicato, quello che aveva comprato la casa di Arcore ad un costo molto più basso del suo effettivo valore di mercato (a seguito dello scandalo dell’omicidio/suicidio del Marchese Casati Stampa), che aveva capito il potenziale della televisione prima che lo comprendessero altri e che nel 1980, con la nascita di Canale Cinque (nata dopo aver comprato le frequenze di un canale privato della Mondadori), creando un modo alternativo di “intrattenimento televisivo”, una televisione che fosse svago vero e proprio e non didascalica, pedagogica e moralista come era la Rai. Con la sua “discesa in campo” le sue televisioni sono diventate l’amplificatore della sua visione politica, una vera e propria macchina da guerra da usare all’occorrenza contro gli odiati comunisti.

Già, i comunisti: la brillante intuizione politica di Silvio Berlusconi fu quella di creare letteralmente da zero il centrodestra, sdoganando l’antico dogma della Prima Repubblica che i post- fascisti del Movimento Sociale Italiano non potessero fare politica: potevano essere tollerati, ma non avevano nessun legame con la democrazia “nata dall’antifascismo”.

Il patto del 1993, quando disse a sorpresa “se fossi un cittadino romano voterei per Gianfranco Fini, non per Rutelli”, rompendo un tabù della politica italiana.

Nel 1994, si presenta alle elezioni con un partito che ha fatto del marketing il suo mantra già nel nome “Forza Italia”, un nome in cui tutti possono identificarsi, perché tutti almeno una volta nella vita hanno gridato Forza Italia. Il centrosinistra, la gioiosa macchina da guerra di Occhetto è convinto di poter vincere, perde malamente le elezioni e viene relegato all’opposizione, costretto poi nei fatti a diventare moderato (sino a vincere le elezioni nel 1996 candidando Romano Prodi, un democristiano moderato, il solo che lo batterà alle urne per ben due volte).

Vince con la promessa di una “rivoluzione liberale” che nei fatti non viene mai realizzata, quando lascia il potere nel 2011 il sistema è molto più corporativo di prima, ingessato in rituali da Prima Repubblica con una Seconda che, nei fatti, non è mai nata. Del resto non poteva essere altrimenti, il Ventennio berlusconiano è stato segnato dalla polarizzazione sulla persona non sulle politiche che sono sempre state messe in secondo piano (colpevolmente anche dalle opposizioni che hanno in parte rinunciato alla loro identità nel tentativo di sconfiggere il nemico comune).

La sua morte pone veramente fine ed un’era della politica italiana. Un’era in cui la politica è stata fondata da personalismi, politica estera fondata sulle personali amicizie del leader (Putin e Gheddafi su tutti).

Il tutto viziato dalle inchieste giudiziarie, le condanne per evasione fiscale, lo scandalo di “fine impero” del bunga bunga tutto accompagnato dalle barzellette, le figuracce in diretta mondiale gli insulti agli elettori avversari (“non posso credere in che in Italia ci sono così tanti coglioni che votano a sinistra”), la costruzione del mito attorno a se stesso, la mitomania di un leader che non ha mai accettato l’idea di poter essere messo in secondo piano.

Tutto questo ed anche di più è stato Silvio Berlusconi; servirà tempo per poter analizzare a mente fredda gli ultimi vent’anni di storia italiana perché, come disse Montanelli “ci vorranno trent’anni per uscire dal berlusconismo” e come diceva Gaber “io non ho paura di Berlusconi, ma del Berlusconi dentro di me” perché l’uomo Berlusconi per tutta la sua vita ha incarnato vizi e virtù di un Paese allo sbando, orfano di una classe politica dopo la fine di Tangentopoli.

La sinistra guardi all’esperienza del Portogallo per un programma di Governo

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un progressivo abbandono da parte della sinistra di quelle che erano le peculiarità dei programmi politici della sinistra.

Da una parte abbiamo assistito alla progressiva scelta da parte delle sinistre europee di accettare i principi di quella che possiamo definire la Terza Via e la progressiva accettazione delle politiche di austerity imposte dall’Europa seguendo lo schema del “non esiste alternativa” e del successivo “senza l’austerity si rischia la bancarotta”.

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La stessa crescita dell’Italia è avvenuta sulla base dei vincoli di bilancio imposti dall’UE con una serie di politiche di fatto hanno abbassato il costo del lavoro aumentando in questo modo la crescita, una scelta politica che ha messo a posto alcuni conti del Paese ma non ha di certo aiutato la crescita del benessere dei cittadini e dei lavoratori, anzi ha creato le condizioni per un sistema costruito sulla precarietà e sulla difficoltà di creare impresa rispondendo sempre alla logica del mercato unico imposto dall’Europa.

Il progressivo cedimento della sinistra a quelli che sono i valori di una società liberista sono stati per anni oggetto di discussione e di contestazione a cui però si dava sempre la stessa risposta: in un sistema economico in cui sono mutate le condizioni non esiste altra risposta possibile se non quella delle politiche di austerity e del pareggio in bilancio e la sinistra deve abbandonare la strada della socialdemocrazia (non prendo nemmeno in considerazione quella che dovrebbe essere la via del comunismo perché quella è stata progressivamente abbandonata già negli Anni Novanta) per governare i processi della società capitalista lavorando non più a tutela del lavoratore ma del capitale.

Questi processi, che sono stati in parte mutuati dalla logica della Terza Via di Tony Blair, hanno portato alla progressiva scomparsa del disegno socialdemocratico in Europa relegando i partiti della sinistra a dei veri e propri comprimari delle destre liberiste di tutta Europa.

Basti citare il caso della Francia, della Germania e della Spagna per comprendere cosa intendo, tre Paesi dove la sinistra è costretta a fare da stampella ai governi di destra relegando sè stessa ad un ruolo marginale nella politica internazionale.

Eppure in Europa esiste un caso limite, un Paese dove si è costruita una alleanza tra socialdemocratici e comunisti sulla base di un programma di Governo improtando alla crescita pur non rispettando quelli che erano i vincoli imposti dall’Europa: sto parlando del Portogallo, dove il Partito Socialista governa insieme ai comunisti e ha risanato il bilancio migliorando anche le condizioni di vita del cittadino.

Facciamo un passo indietro: il Portogallo, negli anni in cui emerse l’acronimo PIIGS (che identificava a detta dell’Europa i Paesi membri a rischio bancarotta se non avessero rispettato i parametri imposti dalla Trojka – BCE, FMI e Banca Mondiale – e che altro non era la sigla di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) era il primo dei Paesi a rischio bancarotta se non avesse accettato i prestiti della Trojka e restituendo i prestiti a costi esorbitanti (come ad esempio successo alla Grecia).

L’accettazione delle politiche di austerità aveva portato il Portogallo ad una sostanziale instabilità politica molto simile a quella della Grecia e dell’Italia dove sembrava essere impossibile formare un Governo in grado di governare i processi politici per uscire dalla crisi.

In questo contesto il Partito Socialista Portoghese decide di fare una scelta in controtendenza rispetto al resto dei partiti socialisti europei: invece che andare nella direzione di una “Grossa Coalizione” tra destra e sinistra decide di formare una alleanza “rossa” insieme al Partito Comunista Portoghese ed il Partito di Bloco de Izquierda (nato nel 1999).

I tre partiti decidono di mettere da parte le loro divergenze (il Partito Comunista ad esempio è fortemente antieuropeista) in nome della stabilità per il Portogallo mettendo in piedi un governo di alternativa a sinistra che ha progressivamente portato il Portogallo ad una costante crescita del PIL ed ad un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini.

Il GOVERNO COSTA sarà ricordato come il Governo della crescita

I dati sono sotto gli occhi di tutti: il PIL è al 2,7% (mai così alto dal 2000), il deficit è sceso ai minimi storici mentre la disoccupazione è scesa all’8%.

Tuttavia per comprendere la situazione portoghese occorre fare un passo indietro: prima di questo esperimento nel 2011 al Governo c’erano proprio i socialisti con Socrates, il quale cadde proprio per aver avviato le politiche di austerity chieste dall’Europa. Le elezioni del 2011 consegnano la vittoria alla destra liberista, che procede alla macelleria sociale con le linee guida della Trojka con la forte opposizione dei socialisti in Parlamento.

Alle elezioni successive i socialisti si resero conto di non poter cambiare linea politica dopo le dure contestazioni alla destra ed allora decide di guardare ad una alleanza di sinistra, magari non in grado di vincere le elezioni ma che avrebbe consentito al Partito Socialista di non vedersi completamente abbandonato dal suo elettorato. Contro ogni previsione questa coalizione socialista-comunista non solo vince le elezioni ma porta avanti delle politiche che permettono la crescita del Paese, permettendo in questo modo la rinascita del Portogallo (vedi i dati citati sopra).

COSA HA FATTO IL GOVERNO PORTOGHESE PER MIGLIORARE LE CONDIZIONI DI VITA DEI LAVORATORI?

La scelta del Governo è stata quella di stimolare i consumi con un semplice restauro dei salari pre Trojka in settori come ad esempio quello della ristorazione e una riduzione progressiva dell’IVA (che comunque, va detto, rimane tra le più alte in Europa). Il resto lo ha fatto (come afferma Left nella sua analisi sul caso portoghese) la liberalizzazione del mercato immobiliare della destra che ha consentito di smuovere il mercato immobiliare aprendo le porte agli investimenti di turisti stranieri anche facoltosi (tra coloro che hanno acquistato in Portogallo troviamo anche la stessa Madonna) ed ha aperto le porte allo sviluppo della Sharing- economy.

Sebbene non sia tutto oro quello che luccica (ci sono ancora diverse questioni che vanno portate avanti come ad esempio il promesso aumento dello stipendio degli statali del 12% fermo da anni)  o il progressivo rischio sulla perdita di identità nazionale per “colpa del turismo” va fatto notare come quello portoghese possa essere un esempio per buona parte delle realtà socialdemocratiche e comuniste in Europa.

Come riportato nell’ultimo numero di Left nell’intervista a Andrè Freire, docente universitario presso l’istituto universitario di Lisbona:

Più che un modello direi che il caso portoghese possa essere visto come una via da percorrere per la socialdemocrazia europea. Non scordiamoci che una soluzione di questo tipo è possibile solo quando le sinistre hanno i numeri per formare un Governo.

Questa è una questione non da poco conto, almeno se andiamo ad analizzare il caso italiano e ci chiediamo se una simile via può essere percorsa.

L’Italia paga una totale assenza di partiti di sinistra, soprattutto di un partito socialdemocratico in grado di allearsi con una sinistra radicale fuori dai radar della politica da almeno dieci anni.

Si rende dunque necessario da una parte di ripensare i metodi della comunicazione di quella parte di sinistra radicale, ripensando ad un modo di comunicare senza abbandonare i propri valori e contestando quelle che sono le linee guida della propria politica, mentre da parte della sinistra che si richiama a principi socialdemocratici andrebbe presa coscienza del fatto che le politiche liberiste non solo si sono rivelate un fallimento ma sono anche alla base delle disuguaglianze sociali che si vuole combattere.

Dopo aver preso atto di questi elementi – che devono essere alla base della costruzione di un processo di costruzione di una alleanza governativa – va costruito un programma che risponda alle esigenze dei lavoratori ma che allo stesso tempo possa evitare i timori dell’Europa sul cedimento strutturale della politica economica dell’Italia.

Una strada lunga da percorrere, ma allo stesso tempo la sola strada possibile per vedere di nuovo la sinistra al Governo con la speranza che porti avanti una politica di sinistra anche nei fatti e non solo nelle parole.

Un auspicio che può e deve diventare reale se vogliamo tenere alto il PIL dell’Italia ed allo stesso tempo consentire agli italiani una vita migliore.

Se l’Europa tratta con il Cremlino

Sarà forse per effetto della possibilità di uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, sarà perché ci si è resi conto che la Russia è il partner principale del commercio dell’Unione Europea è che il più naturale fornitore di energia all’Europa (sicuramente più degli Stati Uniti) fatto sta che al forum di San Pietroburgo abbiamo assistito ad un riavvicinamento se non politico almeno economico tra Unione Europea e Federazione Russa.

Il messaggio lanciato da Putin all’Europa è stato chiaro, ed un messaggio di disgelo. Il Presidente russo chiede di guardare oltre la crisi ucraina (di cui non parlerò in questa sede perché ci sarebbero troppe cose da scrivere e si correrebbe il rischio di fare analisi superficiali dettate dall’emozione invece che dalla pura analisi) e non solo: il nocciolo del suo discorso era quello di riprendere il dialogo economico tra i due blocchi, dialogo che sarebbe conveniente per entrambi non fosse altro perché la Russia è il più grande esportatore di energia sul continente europeo ed il primo tra i blocchi commerciali al mondo di cui abbiamo assoluto bisogno.

Sono passati due anni dall’embargo alla Russia, due anni dalla guerra asimmetrica in Ucraina e dell’annessione forzata da parte della Russia della Crimea. Dopo due anni il Forum di San Pietroburgo torna ad essere la Davos europea, dove impresa e politica si incontra per poter stabilire una relazione economica e politica e riprendere un dialogo che con ogni probabilità non è mai nemmeno partito.

La Guerra Fredda è finita con il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’URSS e la finanza pare essersene resa conto prima della politica. Basti considerare che al Forum di San Pietroburgo, anche contro il parere della Segreteria di Stato americana era presente anche il gran capo della Exxon Mobil,  REX TILLERSON e l’amministratore delegato della Eni PAOLO DESCALZO il quale ha parlato di “un’occasione di disgelo”.

Forse però al di là di tutti i contratti e le trattative a dare maggior risalto al Forum (e fare maggior effetto sui mercati e sulla politica) sono state le parole di JEAN CLAUDE JUNCKER (in linea con quanto detto da MATTEO RENZI).

Il Capo dell’Unione Europea sarà accolto oggi come ospite d’onore della manifestazioni con tutti gli onori dalla Presidenza Russa. Juncker ha detto “parlare con la Russia è una questione di buon senso ,io sono qui per costruire ponti”. Nonostante l’UE non abbia nessuna intenzione di ritirare le sanzioni per la questione ucraina, il fatto che si sia riaperto uno spiraglio per il dialogo tra le due potenze è un segnale che non va sottovalutato nel futuro della strategia dell’Unione Europea per uscire dalla crisi in cui ormai versa da almeno dal 2008 e che sembra aggravarsi invece che migliorare la situazione.

Insomma, nessuna illusione sulla difficoltà della ripresa di un dialogo politico ma la ripresa è possibile se tutte e due i blocchi faranno la loro parte in questo dialogo. Gli accordi firmati con la Russia hanno valore di 1,4 miliardi di euro a cui andranno aggiunti quelli del memorandum di intesa (Fonte Il Corriere della Sera di venerdì 17 giugno).

Un passo avanti a cui come detto ne dovranno seguire molti altri ma che aprono uno spiraglio necessario all’Europa per venire fuori dalla crisi.

Cercheremo di seguire passo passo questa ripresa del dialogo, con la speranza che le due parti trovino altri margini di dialogo, perché sono e resto convinto che la Russia sia per l’Europa senza ombra di dubbio un partner privilegiato, tanto per quanto riguarda le questioni economiche quando per quando riguarda la soluzione delle questioni di politica internazionali, soprattutto per quello che riguarda la gestione del difficile rapporto con il Medio Oriente.

Il voto austriaco che spacca l’Europa

In Austria hanno vinto i Verdi, sconfiggendo la destra estrema ma c’è poco da festeggiare.

La vittoria del candidato indipendente, ex socialdemocratico ed ora nei Verdi Van der Bellen contro Hofer leader della Destra Populista è una vittoria di misura che non rassicura il fronte europeista e di sicuro è un dato che non può essere sottovalutato.

La crescita del fronte populista anti euro – ben rappresentato in Italia con un fronte che va da Salvini con la Lega, da Meloni con Fratelli d’Italia ed in parte con i Cinque Stelle di Grillo – pone all’Europa una questione fondamentale: come fare per impedire che l’intero progetto europeo venga affossato?

Il 21 aprile avevo pubblicato su questo blog un articolo in cui analizzavo al scelta sucida dell’Europa di procedere con una strategia economica neoliberista che già si era dimostrata fallimentare negli Stati Uniti con la crisi del 2008 aggravata dal voler per forza applicare le politiche di austerity ad un sistema economico che in verità avrebbe bisogno di tutt’altre misure, ora a questo dobbiamo aggiungere la palese difficoltà dell’Europa a gestire la situazione dei migranti, una situazione che rischia di tracollare appena con l’estate riprenderanno sbarchi e migrazioni di massa dalla Siria, dall’Eritrea e con ogni probabilità anche dall’Egitto dove la situazione appare tutt’altro che calma.

L’Europa dei populismi anti euro e contro i migranti è in crescita, almeno a vedere gli ultimi risultati elettorali e pare che non ci sia un forte contrasto al populismo da parte di quelle forze tradizionali che sempre si sono definite pro Europa.

Ripensare il concetto stesso di Europa, ripartendo proprio dal quel Manifesto di Ventotene scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi (ricordato pochi giorni fa da alcuni esponenti del partito radicale tra cui lo stesso Marco Pannella prima di morire) deve essere la base per contrastare questa forma becera di populismo anti europeo.

Innanzi tutto tornare alle frontiere sarebbe un danno economico per l’Europa che si troverebbe da sola in un mondo sempre più polarizzato e contrapposto per blocchi dove a farla da padrone sono le economie americana e cinese, ma non basta: i nazionalismi nel corso della storia sono stati da sempre affiancati da una polarizzazione dello scontro e da una emergente cultura di destra che nel corso del Novecento ha portato a due guerre mondiali e ad un sistema polarizzato contrapposto per blocchi che rischia di portare di nuovo a pulsioni nazionaliste molto forti anche oggi, il che comporterebbe l’emergere di forze politiche che della lotta al diverso hanno fatto la loro ragione d’essere e su questo volontà di potenza  la cui diversità è stata spesso oggetto di campagna elettorale marcando la superiorità della razza (anche se almeno per adesso in maniera più blanda rispetto al nazismo od al fascismo) ribadendo come con l’immigrazione cresca il tasso di criminalità perché gli immigrati sono socialmente portati a delinquere.

Ovvio che per contrastare questa deriva andrebbe costruita una vera cultura europea a partire dalle scuole, spiegando come l’integrazione sia uno dei principi fondamentali del vivere insieme e di come le frontiere non sempre sono un bene.

Perché questo sia possibile però, perché la gente si innamori  del concetto di Europa noi dovremmo essere pronti a ripensare il concetto stesso di Europa, fare in modo che la nostra idea di Europa non sia quella degli sprechi e delle spese pazze denunciate da più parti, ma elaborare un pensiero ed un progetto di cui il Parlamento Europeo deve essere la guida ed epicentro.

Pensare ad esempio (come chiesto dal Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi) ad un sistema elettorale potrebbe essere il primo deciso passo verso la costruzione dell’Unione Federalista degli Stati Europei, per iniziare a pensare di realizzare una vera e propria confederazione di Stati dove ogni Paese membro possa decidere il proprio leader ed il proprio rappresentante, mantenendo la propria radice culturale e senza annullarsi in nome della globalizzazione, attraverso un sistema di votazione il più trasparente possibile, con l’identificazione di un leader  per ognuna delle correnti e con una competizione elettorale pensata non più semplicemente come un’elezione dei parlamentari ma come una vera e propria elezione del Presidente del Consiglio europeo, una figura con poteri ben definiti in grado di “nominare” un Parlamento con incarichi politici e con dei veri e propri ministeri con un peso.

Mi rendo conto che questa strada è forse quella più difficoltosa da percorrere, ma è la sola strada per salvare l’Europa altrimenti destinata ad una fine ingloriosa.

 

Emirati Arabi, il nuovo Medio Oriente

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Esiste un posto in Medio Oriente dove il crollo del prezzo del petrolio si sente meno che in altri Paesi della stessa zona.

Mentre in Arabia Saudita si teme il crollo del prezzo del greggio (l’economia saudita si basa praticamente solo ed interamente sul petrolio), sono gli Emirati Arabi, unico paese del Golfo Persico a non essere impensierito del crollo del prezzo del greggio a barile a 30 dollari.

Gli Emirati sono il quinto produttore di petrolio e gas, terzo al mondo per riserve di idrocarburi.

Attraverso una visione politica ed economica più oculata rispetto agli altri Paesi del Golfo Persico, portata avanti da Zayeb Bin Sultan al Nahyan e del figlio di Khalifa (che è succeduto alla morte del primo nel 2004) basata sul diversificare gli investimenti, gli Emirati sono riusciti a diventare da piccolo paese una vera e propria potenza mondiale, patria del lusso e dell’alta finanza.

Oggi il petrolio pesa sul PIL dello Stato solo per il 22%.

Metà del PIL degli Emirati Arabi Uniti è interamente basato sui servizi, anche grazie ad una legislazione più tollerante e più snella ed una tassazione basata su regimi fiscali che incentivano l’afflusso di investimenti stranieri.

Una vera e propria terra promessa per gli scambi commerciali insomma.

Terra cosmopolita nel quale gli italiani sono arrivati in notevole ritardo rispetto al resto del mondo – come riportato da Capital di aprile nell’intervista al Segretario Generale della Camera di Commercio Mauro Marzocchi che afferma:

Prima della fine degli anni Novanta-Duemila gli imprenditori italiani non sapevano nemmeno dove fosse Dubai. Adesso continuiamo a registrare un tasso di crescita rapidissimo. Il 2015 è stato il periodo di importazione più fertile da sempre per le esportazioni italiane negli Emirati. 

Quasi tre miliardi di euro nel mese dell’anno trascorso.

Oggi come oggi le imprese italiane sono al settimo posto tra i Paesi  fornitori ed al terzo tra quelli europei.

Una tendenza continua a crescere – grazie soprattutto all’esportazione dei beni di lusso come la gioielleria (23,5% delle esportazioni) . Le opportunità comunque si conquistano in loco, e lo dimostra la seconda voce di export, i macchinari (che pesano per il 23%).

Insomma, pare che la tecnologia italiana piace, ed il fatto che gli Emirati abbiano bisogno di una rete di trasporti, aeroporti più efficienti, strutture recettive all’altezza. L’acceleratore di tutto questo ovviamente è la preparazione di Expo 2020. Questo vale tanto per i grossi contractor quanto per le piccole e medie imprese che possono essere interessate ad investire in quelle zone.

Sfruttare il made in Italy classico, che soprattutto negli Emirati Arabi hanno dimostrato di saper apprezzare è un modo per l’Italia di costruire una interessante partnership  con una potenza in continua crescita, cosa che non può che far bene alla crescita economica dell’Italia ed al suo prestigio internazionale

 

Europa, tra Austerity e neoliberismo rischia il tracollo

Quando all’inizio degli anni Ottanta Ronald Reagan propose di applicare agli Stati Uniti un modello di economia neoliberista molti lo presero per pazzo.

Il mondo della finanza che prende il sopravvento sulla politica, investimenti selvaggi e applicazione della shock economy questi sono solo alcuni dei punti cardine della storia economica degli ultimi trent’anni.

La storia alla fine ha dato ragione a quelli che pensavano che quel modello economico alla lunga fosse fallimentare, tanto che diversi economisti (tra cui Paul Krugman e Joseph Stiglitz) hanno ricercato proprio in quel modello economico le cause della crisi strutturale del capitalismo del 2008.

La vittoria di Barack Obama alle prime elezioni americane del 2008 nasceva proprio dalla promessa di raddrizzare la barra di un modello economico ormai fuori controllo che aveva sancito la fine del sogno che il mercato fosse in grado di auto regolamentarsi senza la politica.

Quando si iniziò a parlare di Europa unita e di Unione Europea il modello che si era deciso di costruire era decisamente diverso da quello che si vedeva applicato negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna (solo per citare i due Paesi dove il neoliberismo per almeno vent’anni la aveva fatta da padrona): l’idea era quella di un modello economico basato sul principio cattolico della sussidiarietà (questo era quello che venne proposto da De Gasperi ed Adenauer ad esempio) e sulla possibilità di costruire un fondo di assistenza agli Stati in difficoltà per evitare derive totalitarie dovute al cattivo andamento economico come era successo in Germania ad esempio alla fine della Prima Guerra Mondiale.

L’Unione Europea invece sin dalla nascita della moneta unica ha scelto una linea suicida, applicando al neoliberismo politiche di austerity che non solo si sono rivelate fallimentari ma che unite al neoliberismo hanno costruito un modello economico schizofrenico che sta portando al tracollo l’intero sistema europeo a partire da uno dei suoi fondamenti: la libera circolazione delle persone e delle merci, perché la crisi dell’immigrazione che sta portando alla chiusura delle frontiere pressoché in tutta Europa è un segnale preoccupante di come questo potrebbe essere l’inizio della fine dell’intero impianto che sinora aveva più o meno retto a Bruxelles.

Austerity e neoliberismo sono due modelli economici tra loro incompatibili che creano una spirale economica che porterebbe qualunque nazione al tracollo da una parte incentivando investimenti e dall’altro chiedendo una contrazione delle spese sostenibili comportando un incremento della tassazione per supportare l’espansione economica.

A questo punto l’Europa deve scegliere: o procedere tra due modelli che si sono rivelati fallimentari (come hanno dimostrato gli Stati Uniti) oppure cercare di correggere la rotta pensando ad una seria politica di investimenti per risollevare il progetto degli Stati Uniti d’Europa.

Ci sarebbe anche una “terza via” (che tuttavia reputo essere impraticabile) che imporrebbe di scegliere tra due modelli sbagliati proseguendo sino alla fine nella strada del tracollo. Tra i modelli esposti ovviamente il preferibile è quello di cambiare decisamente rotta, riprendendo il progetto originale che aveva pensato l’Europa come un modello di stati federati sul modello americano con un organismo centrale capace di intervenire in aiuto degli Stati in crisi invece che abbandonare i Paesi in difficoltà a loro stessi imponendo delle misure suicide solo per intervenire con nuovi prestiti che non portano fuori dalla crisi ma indebitano ancora di più impedendo in questo modo agli Stati non solo di crescere ma anche di essere di “aiuto” alla crescita dell’Europa.

Trump, il candidato repubblicano che fa paura (ai repubblicani)

Nelle primarie americane sta succedendo quello che nessuno sino a qualche mese fa avrebbe anche solo potuto immaginare nelle analisi più improbabili: Donald Trump rischia di essere (a questo punto possiamo anche dire che è una certezza) il candidato dei Repubblicani alle prossime elezioni.

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Il GOP (Acronimo per Grand Old Party) non è riuscito ad arginare il suo candidato meno probabile e più scomodo optando per qualcuno di più credibile e soprattutto più moderato. I repubblicani avevano puntato sul giovane governatore della California Marco Rubio e su Ted Cruz nella speranza di arginare Trump ma ambedue i candidati sono stati travolti da un vero e proprio terremoto politico che ha  proiettato Trump direttamente dall’essere outsider per eccellenza ad essere il candidato che sfiderà Hillary Clinton alle primarie. Il fenomeno Trump è un fenomeno da analizzare per comprendere come sia cambiato il modo di pensare di una parte del popolo americano: Donald Trump è stato votato da quella parte di popolo americano che non va a votare da anni e che sino a questo momento non si era sentita rappresentata da nessuno. Trump rappresenta un modello di sogno americano di “persona che ce la ha fatta” un poco come era stato Berlusconi nel 1994. Facendo una interessante analisi sulle parole maggiormente usate da Donald Trump quello che emerge dai discorsi di Trump è che con discorsi brevi e frasi non troppo complicate riesce a far leva sul sentimento di paura degli americani delle classi più povere: paura del terrorismo, dell’immigrazione, di perdere il lavoro, di vedere snaturata la propria natura americana. Donald Trump – così come era stato per Bernie Sanders nel fronte democratico – riesce ad intercettare voti in quella Middle Class ormai scomparsa che non si sente più rappresentata da nessuno.

Una vittoria di Donald Trump in questo momento secondo me è ancora altamente improbabile: nonostante le sue vittorie il personaggio resta forse uno dei più controversi personaggi americani: palazzinaro, noto bancarottiere e amico intimo di alcuni esponenti del KKK e di altri movimenti della supremazia bianca pare stia spaventando non poco la parte moderata dei repubblicani che stanno studiando un modo per farlo fuori in modo da non contravvenire alle regole. L’ultima speranza di poter fermare Trump è sul voto della Florida, lo Stato dove venne eletto Marco Rubio, il giovane esule cubano che è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di “uomo dei Tea Party”, un’etichetta che potrebbe essere ancora considerata scomoda per diventare presidente americano.

Hillary Clinton rischia di avere la strada spianata alla Presidenza a patto che non sottovaluti troppo il suo avversari: i democratici hanno un candidato capace di prendere voti in quel bacino elettorale che da Trump non si sente rappresentato, tenendo anche però a mente che la maggior parte degli americani, quelli della classe più povera pare guardare a Trump come il solo in grado di dare risposte alle loro domande, per vincere le elezioni questa volta insomma non si deve guardare solo alle lobbie, ma anche al singolo cittadino, come fece Barack Obama nel 2008.

Il futuro dell’Unione Europea

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L’Unione Europea è in crisi, inutile negarlo.

L’impianto europeo basato su un modello di sviluppo imposto dalla Germania sta entrando in crisi per le difficoltà di contenere i flussi migratori provenienti dalla Siria e dai paesi in guerra del Medio Oriente e dall’Africa per la mancanza di controlli alla frontiera libica.

Le migrazioni e la disaffezione verso le politiche europee (soprattutto quelle economiche percepite come imposizione da parte della Germania) stanno facendo crescere quelle forze anti europeiste che chiedono il ritorno agli Stati nazionali ed alla singola sovranità distruggendo in questo modo tutto quello che negli ultimi vent’anni è stato tanto faticosamente costruito.

Il progetto europeo non inizia con l’euro, la moneta unica doveva solo essere il compimento del progetto, anche se in questa fase rischia di essere la sua tomba. La moneta unica e la scelta di procedere con una costruzione basata solo su un progetto finanziario che non tiene conto dei bisogni delle persone rischia di seppellire quanto di buono è stato fatto sino a questo momento. La scelta di mantenere intatta le politiche di austerity (che hanno funzionato in Germania ma che nel resto d’Europa non si sono rivelate tanto fortunate) e la scelta di non concedere autonomia nel risanamento dei conti insieme alla scelta di non concedere la possibilità di creare moneta alla BCE sul modello della Federal Reserve americana di fatto sta rischiando di affossare il modello europeo così come era stato disegnato da quelli che possono essere considerati i padri dell’Unione: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, autori del Manifesto di Ventotene, e successivamente Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Schumann (ministro degli Esteri francese) che quel modello hanno iniziato a costruire formando prima la CECA e poi la CEE.

Il progetto europeo, concepito da Spinelli sul modello di stato federalista degli Stati Uniti (tanto che il nome che lui aveva scelto era quello di Stati Uniti d’Europa) è naufragato nel momento stesso in cui si è pensato che bastasse la moneta unica per creare l’unione mentre era necessario prima di tutto un passaggio politico che non è stato fatto da nessuno stato: ognuno avrebbe dovuto rinunciare ad un pezzo della propria sovranità, contribuendo a quello che era il bene comune dell’Europa. Tutto questo non solo non è stato fatto,  ma il processo politico di formazione di un progetto comune europeo si è bruscamente interrotto con l’emergere di forze politiche in giro che di fatto si pongono su una posizione decisamente anti europea sostenendo non una revisione dei trattati ma un abbandono dell’Unione per tornare alle proprie monete nazionali.

Qualcuna di queste forze si era spinto anche oltre proponendo una sorta di ritorno al protezionismo di matrice fascista, non tenendo conto di come questa posizione in questa fase della storia dell’umanità non farebbe che affossare gli stati nazionali scatenando dei veri e propri conflitti di classe.

La soluzione alla crisi non può essere quella di abbandonare il progetto unitario dell’Europa in nome della spinta del populismo, ma fare in modo che quel progetto diventi qualcosa di più amplio: una vera e propria confederazione di stati, con un Presidente e con un governo eletti democraticamente; un sistema che renda tutti i cittadini europei più partecipi di quelle che sono le decisioni del Parlamento di Strasburgo e fare in modo che ognuno si senta rappresentato nel Parlamento Europeo. Non solo, è necessario che l’Unione Europea conceda agli stati una propria “autonomia finanziaria” tanto nella gestione dei fondi quando nelle modalità di uscita dalle crisi rispettando quelle che sono le necessità dei singoli stati (quindi basta procedure di effrazione e richieste di applicare procedure di austerity a Stati che non sono in grado di sostenerle) e soprattutto basta allo strapotere tedesco sulle decisioni del Parlamento Europeo.

Le proposte del PSE vanno in questa direzione, ed il contributo che in questa sta dando l’Italia chiedendo che per legge le primarie si possano fare anche al livello europeo e per eleggere i rappresentanti delle singole coalizioni è un progetto ambizioso ed utopico ma che proprio per questo non deve essere abbandonato: nel 2001 abbiamo iniziato un lungo cammino scegliendo di entrare nell’euro ed ora (che lo si voglia o meno) quel progetto non può e non deve essere abbandonato, anzi deve proseguire perché i nostri figli domani possano dire non più di essere cittadini italiani,  ma un italiano residente negli Stati Uniti d’Europa. Questo era il sogno di Spinelli e prima ancora di Giuseppe Mazzini, e questo deve essere il nostro orizzonte.