Elezioni 2022: La strategia “rassicurante” del Partito Democratico

Dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle e del suo tentativo di svolta a sinistra, cerchiamo ora di comprendere meglio quali sono le scelte in campagna elettorale del Partito Democratico.

Prima di iniziare bisogna premettere che la strada del partito di Enrico Letta, segretario del partito, si trova a dover affrontare una strada tutta in salita.

Innanzi tutto il Partito Democratico negli ultimi dieci anni è stato quasi sempre al Governo – se si esclude la parentesi del governo gialloverde – e quasi mai è riuscito ad incidere sulle sorti del Paese se non in peggio.

Bisogna ricordare che alcune delle peggiori riforme del mercato del lavoro (Jobs Act) e riforma della scuola (Buona Scuola) portano la firma proprio del Partito Democratico.

Visti i non facili richiami al passato Letta ha deciso di incentrare la campagna elettorale su due punti in particolare: puntare sul senso di responsabilità del partito negli ultimi anni e soprattutto demonizzazione dell’operato dell’avversario.

Seguendo uno schema ormai collaudato nella sinistra (soprattutto quando la sinistra non ha niente da dire) si attacca l’avversario senza fare alcun accenno al proprio programma elettorale o facendo accenni molto ridotti alla fatidica domanda “Che cosa farete una volta al Governo?”.

Il Partito Democratico è stato al governo per almeno dieci degli ultimi 13 anni, alternando sconfitte elettorali e Governi tecnici dando spesso anche spettacolo portando in Parlamento quelle che erano le guerre interne al partito.

L’ultima esperienza di governo prima del Governo Draghi non può essere di certo definita un successo politico: appoggio incondizionato al Conte II (dopo che questi ha trasferito quasi per intero il governo con Lega in quello con il PD), una gestione della pandemia quantomeno confusa e non sempre irreprensibile e soprattutto – al livello politico – la scissione con Renzi che appena esce dal partito inizia sin da subito a far cadere il governo giallorosso (o giallorosa) che lui stesso aveva contribuito a creare mettendo il partito di fronte al fatto compiuto e costringendolo de facto ad appoggiare il Governo Draghi.

Tutto condito dal solito mantra del PD “non possiamo andare al voto in questo momento altrimenti vincono gli altri”.

Questa scelta di fare “non politica” da parte del PD ha portato nel corso degli anni ad una vera e propria emorragia di consensi, si è passati dal 40% di Renzi a poco più del 21% di oggi da considerare un successo dopo il 18% preso alle ultime elezioni.

Enrico Letta decide di puntare – soprattutto per recuperare voti al centro – sulla prosecuzione dell’esperienza del Governo Draghi: presenta il Partito Democratico come la sola forza in Parlamento fedele sino alla fine a Draghi (anzi, rivendicando di essere stati i soli a cercare di salvare il Governo), cerca un accordo con Azione di Carlo Calenda (considerato forse il più draghiano tra i partiti presenti in Parlamento) escludendo però a priori un accordo con Italia Viva (probabilmente per le antiche ruggini con Matteo Renzi) e con il Movimento Cinque Stelle (considerato al livello morale il vero artefice della caduta del Governo Draghi) decidendo però di chiudere un “accordo elettorale e non di Governo” con Sinistra Italiana e Verdi scatenando le ire di Calenda (il quale però sapeva benissimo dell’accordo prima di sedersi al tavolo).

Da lì in poi è stato tutto un continuo aumentare di dichiarazioni ed errori uno dietro l’altro.

Gli ultimi in ordine di tempo sono le dichiarazioni contro la legge elettorale e contro la riduzione del numero dei parlamentari in Senato, provvedimenti entrambi sostenuti dal Partito Democratico stesso (il secondo presentato anche come una grande vittoria della lotta ai costi della politica) dando l’impressione di chiedere un aiuto per i casini fatti dal partito stesso.

Il Partito Democratico paga ancora (a distanza di anni dalla sua nascita) il suo “non essere” un partito di sinistra ed il suo “non voler essere” un partito di destra.

La campagna elettorale di Enrico Letta, impostata quasi solo sulle colpe degli altri con qualche timido accenno al programma del partito è figlia proprio di questa costante indecisione del Partito Democratico sulla sua collocazione politica e soprattutto sulla sua assenza di ideologia.

Il Partito Democratico paga di essere stato per anni un “partito delle istituzioni” quello che si caricava la responsabilità del Paese di fronte alla necessità dei governi tecnici, quello che assumeva decisioni scomode per salvare l’Italia, ma soprattutto era il partito che non riusciva mai a realizzare il proprio programma di governo.

Dalle elezioni “non vinte” da Bersani il PD ha costantemente perso la sua connotazione di forza di sinistra per assumere il volto rassicurante di una destra liberale snaturando completamente il suo “essere di sinistra”, rinunciando non solo all’ideologia comunista ma anche e soprattutto a quella socialista e socialdemocratica.

Tutto questo ha portato il proprio elettorato ad una sostanziale disaffezione verso quelle che sono le istituzioni ed i vertici del partito dando vita a quell’emorragia di voti di cui abbiamo parlato sopra. Probabile che di fronte alle difficoltà del Governo di centrodestra il PD torni al Governo con un nuovo esecutivo tecnico, proponendo sé stesso nuovamente come architrave di un governo di salvezza nazionale. Il fatto è che, ancora una volta, lo farà a scapito della propria identità politica e sulla pelle dei suoi elettori.

25 settembre: se la Destra “fascista” appare più unita della sinistra “progressista”

La caduta del Governo Draghi ha aperto la strada alle prime elezioni della storia repubblicana che si svolgeranno in autunno.

Viste le urgenze che avremmo dovuto affrontare le elezioni sono una vera e propria iattura per la tenuta economica e sociale del Paese, soprattutto perché esiste il rischio (a mio avviso molto concreto) che risulterà particolarmente complicato formare una maggioranza di Governo in grado di dare al Paese quella stabilità di cui avrebbe bisogno per poter tornare ad avere un ruolo da protagonista nel mondo occidentale. Non possiamo sapere con anticipo come andranno le prossime elezioni (non pretendiamo di avere la palla di vetro), possiamo limitare la nostra analisi sul risultato elettorale all’ipotesi che vincerà il centrodestra.

Detto questo però dai primi giorni di campagna elettorale possiamo già trarre alcune conclusioni, una su tutte: il centrodestra appare essere molto più compatto del centrosinistra. Alla coalizione Salvini-Berlusconi-Meloni è bastato un incontro per decidere la modalità con cui la coalizione sceglierà il prossimo leader. Si tratta di un’idea piuttosto semplice, che potremmo definire banale: sarà il partito della coalizione che prende più voti ad indicare quale leader di partito dovrà provare a formare un Governo.

Un modo questo per evitare guerre fratricide per decidere chi dovrebbe guidare la coalizione prima del voto.

In un sistema che progressivamente sta tornando al modello parlamentare della Prima Repubblica, dove a farla da padrone erano i partiti (anche se in questa fase politica i partiti appaiono particolarmente deboli con qualche rara eccezione) la scelta di indicare il nome del Presidente del Consiglio sulla base dei voti ai partiti appare la sola scelta logica, una scelta che avrebbe dovuto fare anche il centrosinistra.

Invece, il fronte progressista non solo non è stato in grado di trovare ancora un accordo sulla composizione delle prossime liste, ma non è stato ancora nemmeno capace di costruire una sorta di patto di Governo sulla base di un progetto comune per governare il Paese: ci si limita ed evocare l’Agenda Draghi sperando che questi possa tornare in campo dopo le elezioni. Un po’ lo stesso errore commesso da Pierluigi Bersani nel 2013 quando l’intera campagna elettorale del Partito Democratico venne incentrata sulla prosecuzione dell’agenda Monti, il quale nel frattempo era entrato in politica e non aveva nessuna intenzione di allearsi con il Partito Democratico.

Ora, questa situazione rischia di ripetersi, con l’aggravante che il centrosinistra non ha nemmeno stabilito un perimetro ben definito che stabilisce chi sono gli alleati di Governo e soprattutto perché bisogna essere alleati.

Non basta unirsi per sconfiggere la Meloni, serve un’idea seria su come bisogna ricostruire il Paese, su come vadano distribuiti i fondi del PNRR e di come si debba far fronte al crescente malessere sociale di diverse frange di popolazione.

L’ipotesi di un fronte progressista che unisca Partito Democratico – Azione e Articolo Uno sarebbe un progetto di governo che avrebbe un senso logico, ma per essere attuato ha bisogno che tutti i leader dei partiti coinvolti mettano da parte velleità di supremazia e divisioni personali e si uniscano per far fronte alle emergenze del Paese.

Spiace per Bersani (che ancora sogna di imbarcare Conte) ma un progetto simile non può assolutamente imbarcare il Movimento Cinque Stelle, non tanto per una questione di vendetta per aver fatto cadere il Governo Draghi, dimostrando di essere ancora troppo spesso degli alieni nella politica italiana.

Nella gestione della crisi Conte ha dimostrato di non essere ancora particolarmente avvezzo ai meccanismi della politica.

La crisi di Governo da lui innescata per una questione di principio gli è sostanzialmente scoppiata in mano, isolandolo completamente dalla scena politica italiana ed alienandogli la possibilità di essere l’eventuale ala sinistra di una possibile alleanza di Governo con il Partito Democratico.

Conte sembra non aver capito la gravità della situazione e non solo: il Movimento Cinque Stelle sta attraversando una fase piuttosto delicata della sua storia politica.

Il dibattito sul vincolo dei due mandati sembra non aver fine e sebbene Conte spinga per una deroga Beppe Grillo sembra non avere nessuna intenzione di cedere su quello che è uno dei punti fondamentali dello Statuto del Movimento.

Nessuno sembra considerare che proprio il vincolo è stato uno dei motivi fondamentali a spingere alcuni esponenti di spicco del Movimento ad abbandonare il Movimento stesso .

Questo li rende inaffidabili per una eventuale alleanza di Governo che deve progettare un piano politico della durata di una intera legislatura.

Discorso diverso, ma per molti versi simili deve essere fatto per Italia Viva.

Il partito di Matteo Renzi, a differenza dei Cinque Stelle sa bene come muoversi nelle stanze del potere, ma questo lo rende ancora più pericoloso per la stabilità di un eventuale Governo.

Inoltre, i punti di contatto tra Italia Viva ed una eventuale coalizione di sinistra e progressista, intenzionata a lavorare ad un progetto socialdemocratico, sono quasi nulli.

Italia Viva – per come si è mossa negli ultimi anni -. spesso è stata molto più vicina al centrodestra che non al centrosinistra.

Possiamo considerare questi due partiti le “ali estreme di una eventuale coalizione di centrosinistra” e questo basterebbe ad escluderla da un progetto unitario come quello che avrebbe in mente il segretario del Partito Democratico Enrico Letta.

Una coalizione troppo larga sarebbe rischiosa perché sarebbe unita solo della logica dello stare uniti “contro i sovranisti” (qualunque cosa questo voglia dire).

Se il centrosinistra vuole competere alle elezioni è invece fondamentale costruire un progetto di Governo che metta al centro della propria azione politica diritti e lotta alla povertà.

Due anni di pandemia hanno fiaccato il Paese, hanno aumentato la povertà ed hanno aumentato il tasso di disoccupazione a livelli molto più alti rispetto a due anni fa.

Bisogna puntare su un nuovo patto con i cittadini che impedisca la vittoria della Destra non perché populista ma perché le sue proposte puntano a smembrare quel poco di stato sociale che abbiamo ancora in piedi in Italia.

Nel caso si dovesse perdere, inoltre, non bisogna fare il solito psicodramma cercando un capro espiatorio per la sconfitta ma bisogna rimboccarsi le maniche coerentemente con la propria storia e fare un’opposizione credibile, ideologica e coerente con le proprie idee di società.

2022, l’anno che verrà (idee per un socialismo moderno)

Gli eventi da cui voglio partire per il solito articolo di prospettive per il 2022 sono due: la prima, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi, conferenza in cui il Presidente del Consiglio de facto decide di buttare là la sua nomina a prossimo Presidente della Repubblica.

Quella definizione di “nonno d’Italia al servizio delle istituzioni” sembra essere quasi un richiamo ad altri nonni d’Italia: Sandro Pertini, Francesco Cossiga (il nonno esuberante è un po’ matto), Oscar Eugenio Scalfaro (il nonno severo), Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Questa dichiarazione, se unita al fatto che lo stesso Mario Draghi sostiene che la attuale maggioranza possa andare avanti anche senza di lui (magari trovando una figura altrettanto autorevole per guidare il Governo sino alla fine della legislatura, un nome su tutti quello di Marta Cartabia, attuale Ministro della Giustizia e già membro della Corte Costituzionale), possiamo ipotizzare uno scenario in cui Draghi viene eletto Presidente della Repubblica e nomina il Presidente del Consiglio.

Siamo di fronte a quella che potrebbe essere una svolta epocale nel modo di intendere la politica italiana, una svolta che allo stesso tempo rischia di creare un pericoloso “corto circuito costituzionale” dove il Presidente della Repubblica viene nominato dal Parlamento che presiede e decide il suo successore senza passare dalle urne.

Si arriverebbe insomma ad un semi-presidenzialismo senza elezione diretta del Presidente e senza elezione del Parlamento. Semmai dovesse verificarsi uno scenario simile servirebbero alle due presidenze due figure di alto spessore costituzionale e politico in grado di guidare una svolta che deve necessariamente passare da una riforma costituzionale.

Arrivare al semi-presidenzialismo sarebbe una svolta per un Paese come l’Italia, da anni ingessato in un sistema come quello parlamentare spesso ancorato ad una visione della politica di impronta gattopardesca dove “tutto cambia per non cambiare niente”.

E qui arriviamo al secondo evento della settimana: la vittoria di Boric, candidato socialista alle elezioni in Cile.

Ora, la domanda che ci si potrebbe porre è: che correlazione esiste tra i due eventi? Apparentemente nessuna, ma se cerchiamo di dare una lettura “alternativa” a questa notizia possiamo cercare di stilare una lista di buoni propositi per la sinistra italiana.

La vittoria in Cile di un candidato socialista dimostra senza alcuna ombra di dubbio che le idee socialiste non sono morte ma anzi possono ancora convincere una larga parte di popolazione a votare per una parte politica che a quei principi si richiama.

Prenda lezione il Partito Democratico: accanto alle battaglie sociali (giustissime) bisogna portare avanti anche quelle battaglie politiche ed economiche che sono alla base della costruzione di uno stato ispirato da principi socialisti: redistribuzione della ricchezza, diritto al lavoro, diritto alla casa, diritto alla salute, diritto alla libertà di scelta, tutte battaglie che negli ultimi anni sembrano essere state abbandonate dal Partito Democratico impegnato nel tentativo di “umanizzare la globalizzazione”.

Va ammesso – come già sostiene Massimo D’Alema – che la globalizzazione non può essere umanizzata, non si tratta di un processo economico a favore delle masse, ma si tratta di un sistema economico fondato sull’individualismo, sul processo di homo homini lupus.

La sinistra deve recuperare il senso della collettività, rimettere il “noi” al centro della politica dopo che per anni ha portato avanti battaglie incentrate sul concetto di “io”.

La sinistra deve ritrovare la sua strada, ripartire da quella che definisco essere la “trilogia dei Maestri della sinistra”: Gaetano Azzariti, Mariana Mazzuccato e Thomas Piketty.

Si riparta da questi tre pensatori per rimettere al centro un forte pensiero ideologico, in grado di giustificare le scelte politiche e conquistare voti.

Si riparta da alcune idee base, dalla ricostruzione del pensiero socialista, invece che continuare con la sua distruzione perché si cerca di inseguire la destra per occupare il centro.

Per il nuovo anno insomma, si lavori alla costruzione sì della nuova Italia, ma anche di una nuova sinistra che possa assumere la guida di quel processo di transizione del Paese, una sinistra che riparta da una delle idee più semplici della politica, che poi è una delle idee più belle del socialismo: “indietro non resti nessuno”.

Buone Feste e Hasta la victoria, Siempre!

Leopolda 10, qualche considerazione

Matteo Renzi alla Leopolda

Domenica si è conclusa a Firenze la decima edizione della Leopolda, la kermesse politica che dieci anni fa ha lanciato un giovanissimo Matteo Renzi a diventare uno dei protagonisti politici (nel bene e nel male) degli ultimi anni.

A margine della manifestazione, spesso e volentieri definita “fucina di idee” si sono sempre mossi politici, personaggi noti e meno noti dello spettacolo, che hanno messo in campo la propria esperienza nella prospettiva di costruire qualcosa (questo sempre a quanto dicono gli organizzatori).

Innanzi tutto ci tengo a precisare una cosa: questo articolo non vuole essere polemico nei confronti di nessuno (alla manifestazioni ho potuto vedere le foto di diversi amici con cui ho condiviso un pezzo di strada) e le mie considerazioni sono da prendere come una pura analisi basata su un fattore politico ideologico, non personale.

Questa edizione della Leopolda è stata per molti versi diversa dalle altre, visto che ha sancito la nascita ufficiale di Italia Viva, il partito che Matteo Renzi aveva un testa da un po’ di tempo, almeno da quando alla fine del referendum del 4 dicembre il PD iniziò ad andargli un po’ troppo stretto.

Simbolo di Italia Viva

Con la nascita di Italia Viva possiamo affermare in maniera definitiva che Matteo Renzi ha abbandonato l’equivoco di fondo della sua segreteria nel Partito Democratico (e quindi della sua visione politica) dichiarando finalmente di non essere di sinistra (semmai ci fossero ancora dei dubbi).

Non voglio entrare nel merito della polemica con il Partito Democratico, ma vorrei limitarmi ad una serie di notazioni su quello che è emerso dalla visione politica di Italia Viva.

Innanzi tutto possiamo dire che il partito si richiama in maniera aperta ai valori espressi da Forza Italia e da Silvio Berlusconi (lo stesso Renzi ha ammesso che è sua intenzione andare a conquistare i voti dai delusi di Forza Italia – da cui nascono i vari ammiccamenti agli elettori di Berlusconi proprio in sede leopoldiana) e quindi un campo di valori che si allontana di molto da quelli che dovrebbero essere i valori della sinistra propriamente detti.

Già durante la sua esperienza di Governo molti dei provvedimenti portati a casa (per quanto giusti) nascono da una forma mentis più vicina a quella dei partiti conservatori anglosassoni che non (ad esempio) ad un partito laburista comunque legato ad un modello di società marxista. Al massimo possiamo dire che il modello di partito che ha in mente Matteo Renzi è un modello “all’americana” comunque lontano da quella che è una visione ed una prospettiva “di sinistra”.

Un modello di “partito liquido”, come lo voleva Veltroni, ed un modello di partito che nasce da quel “superamento delle ideologie” che ha fatto tanto male alle sinistre, soprattutto perché a loro si contrappone un modello di destra che tutto è tranne che “post ideologica” ma che anzi, proprio delle ideologie sembra essere sempre più intenzionata a costruire il suo consenso elettorale.

Staremo a vedere come costruirà il consenso e come si comporterà in vista delle prossime elezioni (quindi quali saranno le alleanze e con chi sarà intenzionato a dialogare) perché sulla base di questo sarà possibile capire i margini di dialogo che con una simile forza possono esistere.

La nascita del partito di Renzi potrebbe essere la prima vera opportunità per il Partito Democratico di “aprire” a sinistra (non solo ai Cinque Stelle ma anche a tutte quelle forze che dal 2008 ad oggi sono state lasciate fuori dal Parlamento con una serie di leggi elettorali volte a creare una sorta di oligarchia partitica), cercando di essere parte di un progetto che non guarda al centro ma inizia a rispondere (nuovamente) a quei cittadini che naturalmente formano il bacino elettorale della sinistra e del centrosinistra, ma su questo avremo ancora modo di tornare.

Elezioni, analisi di una sconfitta annunciata (?)

destra-sinistra-591141-660x368

Ho deciso di iniziare questo articolo con una foto ironica.

Una foto che spiega bene lo sconforto di un elettorato che domenica alle urne non sapeva che cosa votare semplicemente perché non aveva idea di quale fosse la scelta migliore per sè stesso.

Certo, ci sono stati quelli che hanno votato senza pensare, per ideologia o per “amore incondizionato” nei confronti del candidato di turno ma ci sono anche quelli che una volta dentro l’urna hanno iniziato a sudare freddo perché davvero non avevano idea di che cosa barrare sulla scheda elettorale.

Anche l’elettorato normalmente di sinistra questa volta ha avuto difficoltà a capire perché votare anche secondo la logica del voto utile.

Risultato?
La sinistra arriva al minimo storico dai tempi del PCI, scendendo sotto quella che era stata definita la soglia psicologica del 20%  e prende poco più della LEGA che alle scorse elezioni aveva preso il 4% e che con la “cura Salvini” riesce ad arrivare al 17%.

Una sconfitta simile avrebbe dovuto essere analizzato da subito, il partito avrebbe dovuto ammettere le proprie colpe nella gestione della campagna elettorale e comprendere cosa abbia creato uno scollamento tale tra elettorato e classe dirigente da portare ad una simile disfatta.

Mi sono già occupato di quelle che possiamo definire le “colpe” della sinistra, chiedendo praticamente ad ogni tornata elettorale che venisse fatta una approfondita analisi su quanto succedeva nella società civile.

La prima reazione della “sinistra di Governo” – se la vogliamo contrapporre a quella antagonista – è stata quella di dare la colpa agli elettori che hanno votato Cinque Stelle perché ignoranti e Lega perché razzisti. Ma è davvero così o questo rifiuto del voto a sinistra ha radici più profonde?

Cercare di capire che cosa ha portato alla sconfitta del PD è uno dei punti nodali da affrontare per capire cosa fare da domani. Con questo articolo vorrei cercare di dare qualche spunto di riflessione (più a me stesso che ad altri) e cercare di offrire magari qualche spunto di riflessione anche  a sinistra.

Partiamo da un aspetto che potrebbe essere marginale ma che in realtà non lo è: perché l’elettorato vota a sinistra? Quali sono quei valori e quelle idee che un elettore fa sue quando vota a sinistra?

LAVORO Le politiche che la sinistra governista ha portato avanti sul lavoro in questi anni sono state poche e spesso contradditorie. Le riforme della sinistra sul mercato del lavoro partono dal PACCHETTO TREU, quello che di fatto ha dato il via alla precarizzazione del mercato del lavoro per arrivare sino al JOBS ACT, una riforma che funziona, che ha anche creato dei posti dei lavoro, ma lo ha fatto in una concezione di un mercato del lavoro comunque precarizzato. Certo, meglio lavorare tre mesi che stare a casa a non fare niente, ma non sarebbe meglio fare in modo che lavorino tutti, secondo il vecchio slogan lavorare tutti lavorare meno? Inoltre sono anni che i sindacati ed i movimenti vari chiedono una regolarizzazione dei salari attraverso un adegueamento del salario alle condizioni di vita perché sono aumentati i costi e diventa sempre più difficile per una famiglia di quella che un tempo era la media borghesia far quadrare i bilanci.

Analizzare punto per punto quello che è il programma della sinistra sarebbe solo un esercizio di pura accademia per cui mi limito a fare alcune considerazioni generali, cercando di capire che cosa sia successo in sede di elezione.

La sinistra ha perso contatto con la realtà. Lentamente, nel corso degli anni il progetto di una sinistra di Governo si è sempre più trasformato nell’idea di una sinistra al servizio dei potentati economici e delle lobbie elementi che di fatto hanno snaturato il rapporto di fiducia nell’elettorato classico della sinistra.

Non è un caso che molti militanti del Partito Democratico esprimessero disagio sulla questione delle banche e del salvataggio di Banca Etruria. Il disagio non era tanto legato allo scandalo che fosse implicato il padre della Boschi, ma era qualcosa di molto più profondo: il disagio di un popolo che vedeva il proprio partito abbandonare i propri valori in nome di altri che di solito venivano legati alla destra. A questo andrebbe poi aggiunta quella incapacità di comprendere il disagio bollandolo come “veterocomunista” e dando sostanzialmente dei cretini a tutti quelli che non avrebbero votato PD.

Cretinismo, populimo e razzismo

Si può pensare di analizzare il voto di domenica dicendo “hanno vinto i populisti”? Assolutamente no, si tratta di una analisi parziale, fuorviante ed ipocrita.

Quella volontà di scaricare tutta la colpa non sulle classi dirigenti ma su un elettorato che non ha risposto agli stimoli della bellisima campagna elettorale fatta dalla dirigenza di sinistra.

Chi la scelto di votare Lega o Movimento Cinque Stelle non lo ha fatto solamente perchè razzista o perché cretino (nel caso dei Cinque Stelle subentra anche la sottile ironia del fancazzismo: voto Movimento Cinque Stelle perché voglio il reddito di cittadinanza) ma semplicemente perché non aveva altro modo per esprimere il proprio disagio. Certo, avrebbe potuto farlo votando per Potere al Popolo ma il punto ora è un altro.

Le crisi migratorie e la difficoltà a vedere i risultati della tanto decantata ripresa economica hanno di fatto consegnato il Paese a quelle forze che hanno fatto una campagna impostata sulla demagogia, rispondendo però alle richieste di un elettorato smarrito e deluso da quanto avveniva attorno a lui.

Insomma, una sinistra che ha completamente smarrito il senso della propria esistenza e che ha difficoltà a comprendere che cosa sia realmente successo al voto.

Una classe dirigente frastornata, che pensava di avere in mano il Paese e che invece ha avuto un brutale risveglio.

Diventa a questo punto costruire una nuova connessione con il proprio elettorato, ma a questo punto la domanda è: qualcuno è in grado di farlo, almeno all’interno del PD?

 

Le primarie confermato Renzi, ora al lavoro

image_file_112105Le primarie del Partito Democratico hanno visto per la seconda volta vincere le elezioni a MATTEO RENZI segretario uscente con il 71% dei voti,  secondo è arrivato ANDREA ORLANDO  e terzo MICHELE EMILIANO.

Partiamo subito dal concetto che non mi appassiona molto la diatriba su quanti hanno votato se un milione e otto o forse sette o se erano due milioni, perché la questione da discutere è un’altra in questa fase storica del nostro Paese.

Però è necessaria una doverosa premessa storica: dal 2007 (anno della sua nascita) ad oggi il Partito Democratico ha perso due milioni di voti.

Nel dettaglio su Repubblica del Primo maggio era uscito il seguente schema: 

2007: Veltroni segretario eletto con il 75,8% dei voti a quelle primarie votarono 3 milioni 550 mila persone;

2009: Pierluigi Bersani segretario del PD eletto con il 53,2% dei voti hanno votato 3 milioni e 100 persone (400 mila in meno rispetto al 2007)

2013: Matteo Renzi segretario del Partito Democratico eletto con il 67,7%  hanno  votato 2 milioni ed ottocento mila persone

2017: Matteo Renzi eletto segretario del PD con il 72% hanno votato un milione ottocentomila persone.

Su questa tabella ci sono alcune cose interessanti da notare: innanzi tutto Renzi risulta essere il segretario eletto con la maggioranza più alta (escluso Veltroni che del PD era stato ispiratore e fondatore) mentre Bersani sui quattro risulta essere (almeno stando ai numeri) quello che maggiormente ha diviso gli elettori del Partito Democratico; a questo punto andrebbe fatta una doverosa precisazione storica: la candidatura di Bersani era subito dopo le dimissioni di Walter Veltroni da Segretario del Partito, dimissioni a cui era seguita la reggenza dell’attuale ministro DARIO FRANCESCHINI in quell’occasione a contrapporsi alla visione di Bersani del partito come “Ditta” c’era ancora FRANCESCO RUTELLI  che insieme a Veltroni potrebbe essere considerato uno dei massimi ispiratori del processo di nascita del Partito Democratico.

In quell’occasione contro Bersani c’erano proprio Dario Franceschini (che prese il 34,27%) ed Ignazio Marino (12,5%).

I primi due dati (quella con il numero di votanti più alto) era in un contesto politico totalmente diverso: di fatto esisteva un sistema bipolare più o meno accettato; la sinistra cosiddetta massimalista era fuori dal Parlamento e quindi aveva come rappresentante proprio il Partito Democratico, unico a rispecchiare quei valori di sinistra che erano stati sino a quel momento portati avanti da altri; dall’altra parte c’era un Silvio Berlusconi che rappresentava un modello di destra da combattere votando anche per il candidato di quello che all’apparenza era il partito nemico. E con questo schema si arriva alle primarie 2012 (non messe nella griglia perché erano di coalizione e quindi il loro dato sarebbe necessariamente più alto di quelli presi in considerazione) ed alle primarie del 2013, dove abbiamo il primo consistente calo di voti: dai 3 milioni e 100 del 2009 ai due milioni ed 800 mila del 2013. Vero, il calo era di “appena” 300 mila voti ma non è un dato da sottovalutare, anche perché nel mentre era cambiato il clima politico: il PDL di Berlusconi era scomparso ed erano comparsi i Cinque Stelle, di fatto il sistema non è più bipolare ma tornava ad essere “tripolare” o “quadripolare” se vogliamo includere nello schema anche la destra di Salvini e Meloni.

Il Movimento Cinque Stelle però è stato in parte il vero artefice del primo crollo di voti del partito: molti a sinistra, orfani di un modello massimalista, hanno deciso di votare per i Cinque Stelle togliendo quindi il loro voto al Partito Democratico.

Il secondo dato, quello del 2017 deve tenere conto anche di un partito che ha perso un pezzo per strada (non è qui mio compito cercare colpevoli ma solo riportare dati) e che aveva il 4 dicembre perso una riforma costituzionale, quella che aveva definito la Madre di tutte le Riforme se a questo si aggiungono gli scandali che hanno travolto il Partito negli ultimi anni appare piuttosto chiaro perché ci sia stato un simile crollo di voti, non si può attribuire insomma la colpa al solo Matteo Renzi (che non è esente tuttavia).

Tutta questa premessa per dire che le polemiche lanciate su Orlando sulla percentuale di voto cambiano poco il dato delle primarie, dato comunque notevole se si tiene conto del clima teso in cui queste primarie di sono svolte.

Ora però credo sia il momento di seppellire l’ascia di guerra e lavorare insieme per un nuovo partito e per un nuovo progetto.

Bene alcune parole di Michele Emiliano, a partire dal fatto che non ha intenzione di abbandonare il PD adesso che ha perso (anche se le sue parole non sono chiarissime in materia) bene anche le parole di Orlando che parla di “coesione e di inclusione” e bene anche Matteo Renzi che ha detto che dalle mozioni della minoranza possiamo imparare molto per costruire una partita diversa, rimettere la palla al centro e ricominciare una nuova partita, perché quello che stiamo vivendo non è lo strascico del 4 dicembre o la rivincita di quella giornata è una cosa ben diversa, è una partita nuova che dobbiamo giocare tutti insieme, vincitori e vinti.

Ho già detto in altre occasioni, anche pubbliche, di come il nemico non sia da cercare dentro il partito ma fuori: nemici sono tutti quelli che vorrebbero ridurre al silenzio i giornali, portarci fuori dall’Europa in nome di un ritorno di fiamma a principi autarchici, il nemico è chi parla di sparare ai barconi di migranti per affondarli, chi alla parola “integrazione” storce la bocca come se fosse una bestemmia, chi parla di “fascismo” come se fosse un valore, chi a quei valori si richiama.

Ovviamente all’interno del partito non dovrà mancare il dialogo anche aspro, anche difficile, come si dice “che finisca anche a sediate” a patto che poi la posizioni fuori dal circolo, dal direttivo, dalla segreteria sia unica ed unitaria. Che non si vedano più scene di rappresentanti che parlano su canali diversi con toni diversi e con parole spesso opposte. Non si tratta di “dittatura” si tratta di semplice buonsenso: un partito deve avere una linea comune almeno nel comunicare all’esterno, con questo ovviamente nessuno vuole tacitare nessuno ma spingere al convivere insieme anche con posizioni diverse quello sì, e vale per tutti non solo per chi ha perso ma anche per chi ha vinto che adesso ha l’onere e l’onore di rappresentare il Partito alle prossime elezioni.

Innanzi tutto bisogna fare un passo avanti: il Partito Democratico deve superare la fase di sommatoria di due partiti per diventare finalmente un partito che del “riformismo” e del “progressismo” ha fatto il suo manifesto e la sua vocazione. Recuperare laddove possibile quella vocazione maggioritaria che aveva spinto alla sua creazione, se non è possibile perché andremo verso una legge elettorale in senso proporzionale allora deve trovare in Parlamento la forza ed il coraggio di costruire una strada nuova che porti ad una riforma radicale del sistema politico italiano, riforma non solo a parole ma anche e soprattuto nei fatti compiuti.

La strada da percorrere insieme, ma nessuno può essere perso per strada, nessuno può pensare e sentire di avere la verità in tasca, perché prima di tutto esiste il Partito Democratico, le sue idee e le persone che lo compongono.

Questo è a mio avviso quello che deve essere il percorso da intraprendere insieme, riprendere il cammino interrotto, riprenderlo insieme, perché uniti si può vincere, con buona pace di quelli che invece anche dopo il risultato di ieri hanno pensato di cominciare di nuovo a dividere.