La conversione dell’Innominato, una delle pagine più toccanti della Letteratura Italiana

Per intere generazioni di studenti i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è stato un vero e proprio incubo. Spesso letto per “costrizione” e spiegato in maniera pedissequamente didattica il romanzo di Manzoni è diventato uno dei più odiati dagli italiani.

Eppure, nella sua complessità (non si tratta sicuramente di un romanzo di facile lettura me ne rendo conto) il romanzo riesce a colpire per la toccante sensibilità di alcuni episodi e per la grande capacità di Manzoni di “raccontare” storie e personaggi che (se “raccontati bene”) possono essere parte dell’immaginario collettivo.

Uno dei personaggi in questione è senza ombra di dubbio la figura dell’Innominato che ci viene presentata nei capitoli che vanno dal XX al XXIII. Ammetto che la presentazione non è delle migliori: l’Innominato viene descritto come il “peggiore dei criminali”, una di quelle figure che oggi chiameremmo “boss” che incute timore ai disgraziati quando ai potenti. Eppure Manzoni riesce sin da subito a mostrarci una figura complessa, piena di dubbi e con la volontà di mettere in discussione la propria vita ed il proprio operato. Già nel capitolo XX Manzoni inizia a “preparare” il lettore ad una possibile redenzione del personaggio (protagonista di un vero e proprio romanzo nel romanzo) visto che possiamo leggere:

Era aspettata dall’Innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che di tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel mettere le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore.

Già in questo breve passaggio possiamo notare come l’Innominato inizi ad avere dei dubbi “etici” sulla sua vita. Colpisce anche la scelta dei termini utilizzati dal Manzoni, a partire proprio dalla parola finale: terrore. Come a dire, colui che ha terrorizzato tutta la Lombardia con i suoi crimini prova a sua volta terrore all’arrivo di Lucia, rapita per una promessa fatta a Don Rodrigo ed ennesimo crimine commesso dall’Innominato.

L’Innominato ci viene presentato (sin da questo breve passaggio) come una figura tormentata, complessa, alla fine quasi della sua vita e per questo pieno di dubbi, costretto a fare un bilancio della propria vita e chiedendosi “che cosa ho fatto per essere ricordato? Cosa ho fatto per meritare la salvezza?” la risposta “niente, hai fatto solo del male” è un vero e proprio pugno allo stomaco, una risposta che lo atterrisce e lo spaventa, una risposta interiore che lo costringe e restare da solo con sé stesso e scoprire che non si piace.

La conversione dell’Innominato ci viene raccontata da Manzoni con un crescendo di colpi di scena: dalla volontà di ordinare ai suoi bravi di mandare direttamente Lucia da Don Rodrigo e togliersi la “seccatura”. Una scelta egoistica dettata da un motivo “nobile” quello della redenzione, anche se ancora viziata dal proprio egoismo.

Il punto di svolta è forse proprio l’incontro con Lucia, con la sua bontà. Le domande che si affollano nella mente dell’Innominato durante l’incontro con Lucia sono domande che scuotono la mente del criminale. Come può una persona che è stata rapita e sequestrata, a cui è stato impedito il matrimonio parlare di “perdono”? Come può una simile persona riporre la fiducia in Dio se quello stesso Dio la ha abbandonata? Tutti questi pensieri si affollano nella mente tormentata dell’Innominato sino al punto di svolta vero e proprio: il suono delle campane a festa che annuncia l’arrivo del cardinale Federigo Borromeo.

Qui siamo al secondo colpo di scena: l’incontro tra i due è indubbiamente una delle pagine più belle della letteratura italiana. Potremmo definire l’incontro come “l’incontro del diavolo con l’acqua santa”. Prima di andare avanti però parliamo un attimo della figura del cardinale. Ci troviamo sin da subito di fronte ad una figura che ha un alone di santità attorno a sé. Già quando viene annunciata la presenza dell’Innominato dal cappellano il quale (visto che santo non è) prova timore di fronte a quella figura, non vuole farla entrare perché è un peccatore che potrebbe mettere a rischio la vita del cardinale, il quale invece vive la fede come una missione e quindi è ben contento di accogliere una “pecorella smarrita” che vuole tornare all’ovile. Salvare un’anima come quella dell’Innominato nella sua visione del mondo vale molto di più che salvare mille anime di “fedeli”. In questo passaggio Manzoni tra le altre cose esprime la sua visione della religione, vista come elemento salvifico dell’umanità intera e come vero e unico elemento in grado di “cambiare” realmente le cose nel mondo. Il ruolo della Divina Provvidenza, sempre molto presente nel romanzo di Manzoni si vede chiaramente anche in questo caso. La salvezza di Lucia arriverà proprio per mano di colui che è il peggiore di tutti i cattivi presentati sino a questo momento, da un animo malvagio, che non ha mai conosciuto il bene. Arriva per mano del cardinale, che con la sua sola presenza e con un semplice gesto riesce a redimere l’animo corrotto dell’Innominato, il quale dopo aver confessato i suoi peccati (non una confessione diretta, ma una vera e propria “ammissione di colpa”) si abbandona completamente sulla spalla del cardinale e piange. Un pianto liberatorio, di inesprimibile felicità che segna una rinascita morale e spirituale che sarà fondamentale nel procedere della storia.

Possiamo dire che l’episodio della conversione dell’Innominato è quel punto di svolta nella storia che si attendeva dall’inizio in attesa del lieto fine (anche a causa di questo Manzoni lo mette nella parte centrale del romanzo).

Da un punto di vista emotivo, possiamo lasciarci con un commento: che valore ha un abbraccio?

Ayutthaya, Thailandia, ovvero “l’altra Thailandia”

La Thailandia è un altro di quei luoghi che almeno una volta nella vita andrebbe visitato.

In questo articolo non parlerò di Bankock ma di un posto nelle vicinanze, meno conosciuto forse della Capitale della Thailandia ma di sicuro non meno suggestivo.

Si tratta del sito archeologico di Ayutthaya, la antica capitale del Regno thailandese, suggestiva tanto per la maestosità dei templi che si sono conservati nel tempo quanto per alcune “particolarità storiche” utili soprattutto a coloro che vogliono scoprire un altro lato della Thailandia, non solo quello del divertimento.

Innanzi tutto un consiglio pratico: se avete intenzione di passare una giornata tranquilla è molto meglio rivolgersi ad un tour operator del posto che vi organizzi gli spostamenti, questo nonostante i collegamenti tra la capitale ed il posto di cui parliamo sono relativamente buoni (autobus e ferrovia) lo dico perché se la vostra intenzione è quella di visitare i templi non sempre questi sono raggiungibili e non sempre è pratico spiegare dove si vuole andare (soprattutto tenendo conto che sono molto pochi i thailandesi che parlano e capiscono bene l’inglese).

Detto questo possiamo iniziare il nostro tour, come abbiamo cercato di fare per Singapore possiamo suddividere l’articolo in due parti: la prima che si occupa dei templi e dei siti archeologici che vale la pena vedere, la seconda (per chi avrà intenzione di fermarsi da queste parti) su che cosa fare la sera (ci sono diversi mercati notturni di particolare interesse da visitare).

Partiamo dunque con i templi, visto che proprio questi sono considerati come una delle maggiori attrattive da visitare.

Il primo tempio che va visitato è senza dubbio il Wat Phanan Choen, il più moderno dei templi che incontreremo sul nostro cammino.

Statua del Buddha al Wat Phanan Choen

Questo tempio, rispetto a quanto potremo vedere in seguito, segue uno stile architettonico molto cinese, quindi sarete accolti da tegole in ceramica e colori particolarmente brillanti.

La particolarità di questo tempio (a differenza degli altri che visiteremo in questa zona della Thailandia) è che è ancora abitato dai monaci, quindi avrete qualche possibilità tanto di incontrare dei monaci buddhisti (a me è capitato di vederli mentre lavoravano la terra) quanto se siete fortunati di assistere a qualche rito, particolarità che da un punto di vista antropologico ha sempre il suo interesse (osservando il buddhismo “sul posto” mi sono reco conto di come spesso la percezione occidentale di quella religione risulti essere sballata e fallace).

La seconda tappa del nostro viaggio sarà uno dei templi più antichi: il Wat Yai Chai Mongkhon

Quello che colpisce subito di questo tempio è la grandissima presenza di statue del Buddha in posizione di meditazione, alla maniera thai, ma soprattutto il maestoso Buddha sdraiato (anche lui coperto da un drappo arancione) – a questo proposito apro una parentesi a titolo di curiosità: in Thailandia esistono diverse versioni del Buddha sdraiato, per quanto possano sembrare tutte uguali vi consiglio di fare attenzione agli occhi: se sono aperti il Buddha sta riposando, se sono chiusi abbiamo di fronte un Buddha morente. La cosa comunque che colpisce in tutte le statue del Buddha è la serenità del volto anche quando lo troviamo in meditazione; si tratta di un Buddha di sette metri, che si incontra passeggiando tra i viali. Sembra quasi una sorpresa trovarselo davanti, tanto per la sua grandezza quanto per il fatto che la sua mole copre buona parte della superficie del tempio.

Immagine del Buddha disteso

Questo tempio, oltre ad essere uno dei più antichi, è anche uno dei più isolati dal centro della città per cui si adatta particolarmente anche a coloro che vogliono dedicarsi alla meditazione oltre che all’aspetto turistico.

La terza tappa del viaggio non può che non essere il Wat Phra Mahatat, non fosse altro perché questo tempio è diventato un vero e proprio simbolo della Thailandia, il perché lo scopriremo subito.

Il tempio risale al XIV secolo, e tutta l’area è disseminata di piccoli chedi in buone condizioni (altro nome per indicare i monumenti funerari meglio conosciuti come Stupa).

La particolarità di questo tempio però non sono tanti gli stupa quanto la testa di una statua del Buddha, caduta a terra a seguito della distruzione del tempio) attorno al quale sono cresciute le radici di un albero, come se quell’albero fosse un “padre amorevole”.

Non so se sia il termine esatto ma non è facile trovare una parola meno adatta di “miracolo” perché si tratta di un vero e proprio miracolo.

Testa del Buddha nell’albero al Wat phra mahathat

Una cosa entusiasmante, quasi miracolosa appunto, che ci porta sino alla prossima tappa del nostro viaggio: il  Wihaan Mongkhon Bophit; rispetto agli altri si tratta di un tempio dall’architettura forse più moderna ma non per questo meno interessante, anche perché al suo interno è conservata una delle più grandi statue del Buddha di tutta la Thailandia e rispetto a tutte le statue in oro che abbiamo visto in giro per la Thailandia sarà quasi una sorpresa sapere che questo Buddha immenso è in bronzo.

Wihaan Mongkon Bophit, esterno

L’ultima tappa del nostro viaggio è il bellissimo e suggestivo Wat Phra Si Sanphet, caratteristico soprattutto per i tre stupa posti in fila al centro del tempio.

Le tre stupa del tempio di Wat Phra Si Sanphet

Anche qui (a costo di essere ripetitivo) vi posso consigliare di non fare assolutamente niente: perdetevi a vagare tra le rovine ed ammirate la bellezza del posto, tornerete sicuramente alle vostre case cambiati, con un ricordo di una bellezza senza tempo nel cuore.

Il nostro viaggio si è concluso in bellezza con una visita alla residenza estiva dell’imperatore: la reggia estiva di Bang Pa-In.

Un posto particolare da visitare, non tanto per la sua bellezza (rispetto ad altri posti è decisamente meno bello), quanto per la sua stravaganza, visto che qui è possibile incontrare diversi stili, da quello orientale classico (soprattutto nelle strutture dedicate al culto degli avi presenti in una buona parte della residenza) ma allo stesso tempo uno stile occidentale di ispirazione britannica, con statue di divinità greche e architettura decisamente occidentale.

Una curiosità: nel percorso troverete un paio di case aperte, per entrare (solo nel patio però) dovrete togliere le scarpe, si tratta delle case delle concubine dell’imperatore, interessante nel caso vi venisse il dubbio di sapere “come vive una concubina”.

Visuale di Bang Pa In

Come muoversi

Come detto all’inizio, la cosa più semplice è quella di rivolgersi ad un tour operator del posto che organizza visite (come ho fatto io), per una serie di motivi: innanzi tutto non tutti i posti sono facilmente raggiungibili. Per quanto in Thailandia si trovino ovunque tuc tuc in alcuni siti descritti dell’articolo non solo non è semplice trovarli ma non è nemmeno detto che voi riusciate a spiegare ai presenti che cosa esattamente cosa state cercando. La seconda questione è relativa ai prezzi: per quanto non costi molto spostarsi in taxi farlo per un aerea vasta come Ayutthaya inizia ad avere dei costi non proibitivi ma di sicuro contenuti, soprattutto se non siamo da soli.

Cosa mangiare

Allora, qui la questione inizia a farsi complessa. Se avete deciso di fare da voi, dovete sapere che ci sono diversi punti di ristoro nei vari siti archeologici, cercate sempre di andare sul sicuro quando ordinate qualcosa, giusto per non incappare nell’inconveniente di dover mangiare uno scorpione, la cosa migliore è quella di ordinare del riso, la cosa più sicura che potete ordinare da queste parti.

Detto questo (e con la speranza di essere almeno riuscito a farvi comprendere un po’ della bellezza dei luoghi visti ed avervi incuriosito) vi saluto, il prossimo viaggio sarà in Spagna, a Siviglia per la precisione, la terra del Flamenco insomma, quindi alla prossima.

Intanto vi saluto dalla Thailandia con la bellissima immagine di un tuc tuc, immaginate che con questo arriverò a Siviglia.

Singapore, la scoperta di un pezzo di Oriente

Vista della baia di Singapore

Avrei dovuto scrivere questo pezzo all’inizio del viaggio, cercando di fare un resoconto giornaliero di quello che aveva visto, ma visto il fuso orario (e vista la mole di cose fatte in due settimane per cercare di concentrare tutto quello che si poteva in così poco tempo) mi sono ridotto a scrivere le mie impressioni agli ultimi due giorni di viaggio, una decisione che nasce innanzi tutto dalla volontà di “consigliare” a coloro che ancora non ci sono mai stati a visitare l’Oriente, perché la visione del mondo orientale è così distante dalla nostra che vale la pena vederla (e scoprirla).

Certo, se si vuole avere un sentore di come sia la vita in Oriente Singapore non è che un assaggio, una sorta di paradiso funzionante dove tutto gira secondo un ordine prestabilito e dove ogni cosa (rispetto all’Italia ad esempio) sembra essere perfettamente funzionante.

La prima cosa che dovete sapere è che la popolazione è composta principalmente da cinesi, ma ci sono consistenti minoranze indiane, giapponesi, pakistane, europee, filippine e qualunque altra minoranza che può venire dall’Est Europa, perché dico questo?

Perché è il modo per introdurre una delle caratteristiche della città di Singapore: ogni minoranza etnica ha il proprio quartiere, ed ogni quartiere porta con sé la tradizione ed il modo di vivere di coloro che ne sono parte, per essere ancora più chiaro: se andate a Chinatown respirerete ovunque aria ed odori della Cina, andando a Little India vi sembrerà di essere stati trasportati da Singapore a Calcutta direttamente, solo con un viaggio in autobus.

Ma andiamo con ordine: a Little India ci arriveremo, intanto cerchiamo di fare un elenco dei posti che devono assolutamente essere visti a Singapore.

Marina Bay

Visuale dell’albergo Marina Bay sulla baia di Singapore

Se andate a Singapore non potete non fare un giro dalle parti della baia, anche se non riuscite a prenotare una notte al Marina Bay – quella cosa là in alto che vedete a forma di nave – un giro per la baia va sicuramente fatto (nel caso foste invece interessati a prenotare una notte in albergo di seguito il link da cui lo potete fare https://reserve.marinabaysands.com/search?locale=en&offerCode=&flow=tf tenete conto che una notte costa in media tra gli 880/900 dollari di Singapore, in euro parliamo di una cifra che si aggira tra i 500 ed 600 euro).

Una cosa che non potete assolutamente perdere è il giro in barca sulla baia

soprattutto di notte, quando i giochi di luce illuminano la baia con colori del tutto spettacolari.

Chinatown

Singapore è una città sostanzialmente moderna, con grattacieli altissimi e centri commerciali all’avanguardia (in seguito parleremo anche dei centri commerciali per consigliare dove mangiare) eppure la sua bellezza sta proprio nel riuscire ad essere una “città nella città”, sensazione che si ha esempio andando nel quartiere di Chinatown.

Quando si entra a Chinatown da queste parti sembra davvero di essere in Cina, niente a che vedere con le varie Chinatown in Italia. Architettura, negozi, cibo, tutto rimanda alla Cina (a questo proposito va detto che la cucina cinese è molto diversa da quella che abbiamo in Italia che di cinese ha molto poco) e sicuramente è un ottimo posto dove comprare qualche souvenir per ricordare il proprio viaggio a Singapore o qualche ricordino da prendere per gli amici.

Da visitare qui c’è il tempio buddhista di Chinatown, da visitare anche per capire come funziona la religione buddhista (di cui molto spesso abbiamo una percezione molto occidentalizzata).

Se entrate nel tempio con lo spirito adatto difficilmente non proverete una sensazione di pace osservando il Buddha (oltre che rimanere colpiti dalla bellezza dei templi buddhisti, così lontani dalla nostra concezione di luogo di culto) .

Se invece volete fare shopping da queste parti non avete che da perdervi nelle mille e più bancarelle che si snodano lungo tutto il quartiere, così come non avrete problemi a mangiare (a condizione che siete amanti della cucina cinese, perché qui raramente troverete qualcosa di diverso dalla cucina cinese).

Little India

Ingresso a Little India

Un altro posto da visitare se siete a Singapore (anche se non so se qualche guida turistica lo consigli) è il quartiere di Little India. Da visitare perché se a Chinatown eravamo in Cina entrare a Little India sembra viaggiare nello spazio e nel tempo e precipitare di colpo a Calcutta. Colori, negozi, caos, tutto rimanda all’India in questa parte di Singapore. E qui, oltre che consigliarvi di mettervi a cercare un ristorante pulito nel caso voleste mangiare (questa parte di Singapore non eccelle per pulizia indubbiamente) non posso che consigliarvi di fare una capatina alla zona commerciale Mustapha, perché?

Ma perché potrete trovare di tutto: dai negozi che vendono oro (e anche cellulari e qualunque altra cosa vi salti in mente) e soprattutto potreste respirare quella che a tutti gli effetti è l’aria di un suk, un clima completamente diverso dalla apparente freddezza dei centri commerciali del resto di Singapore, dove vi troverete a fare la spesa accalcati con altre migliaia di persone che cercano di muoversi con carrelli in un supermercato dai corridoi strettissimi dove tutto è ammassato come se davvero fosse un mercato.

Il motivo per cui consiglio di provare questa esperienza (oltre che per il fatto che vale veramente la pena) è perché da queste parti potreste acquistare facilmente ogni tipo di spezia e di the a costi contenuti (io ho comprato ad esempio un ottimo the al gelsomino e altre varietà di the cinese ed indiano e diverse quantità di ogni genere di spezia difficili da trovare in Italia).

Orchard

Altro posto che non si può non visitare è la zona commerciale di Orchard, non fosse altro per vedere la zona di quello che possiamo definire “shopping di lusso”.

Dimenticatevi di poter comprare qualcosa (a meno che non andate nei negozi non di marca) perché qui i prezzi non sono accessibili a tutti – a conferma che il costo della vita a Singapore non è particolarmente basso ed i singaporeani non guadagnano nemmeno tanto poco – ma indubbiamente è un posto da vedere, anche perché il sabato sera da queste parti ci sono spettacoli dal vivo e concerti di vario genere, quindi di sicuro troverete come “svoltare la serata”.

Qui tra le altre cose troverete eccezionali posti dove mangiare cibo orientale, come ad esempio l’ottimo Din Tai Funv (https://www.dintaifung.com.sg/) dove potrete non solo mangiare i ravioli ma anche ammirare come i ravioli vengono fatti, una vera e propria catena di montaggio dove ognuno lavora in maniera meticolosa per dare vita ad un prodotto perfetto non solo nel gusto ma anche esteticamente. Nel caso veniste da queste parti vi consiglio di accompagnare la cena non con acqua o con vino ma con del the verde, una cosa molto tipica da queste parti.

Fullerton Hotel

Ingresso del Fullerton Hotel

Altro posto che vale la pena visitare, anche perché all’interno si trova una bellissima galleria d’arte è il Fullerton Hotel, anche qui i costi sono piuttosto alti, però vale la pena visitarlo anche solo per vedere un albergo in completo stile liberty e coloniale.

Trasporti

Una volta detto tutto questo la domanda quasi obbligata è: come spostarsi a Singapore? Il modo più rapido e veloce è quello della metropolitana, che collega letteralmente ogni parte della città, mezzo consigliato anche per capire (e vedere) la differenza tra le metropolitana di Singapore e quelle italiane: anche qui, come nel resto del Paese del resto, tutto appare perfettamente in ordine, non una cosa fuori posto e soprattutto ogni metropolitana ha posti a sedere per tutti ed è dotata di aria condizionata.

La metropolitana di Singapore è divisa principalmente in tre linee: la rosso-verde , la gialla e la viola che collegano tutte le zone della città (di seguito vedrete un’immagine con le foto proprio delle linee) e quindi ogni zona che abbiamo menzionato in precedenza è raggiungibile dalla metropolitana o con la linea diretta o facendo un cambio (o due a seconda della zona dove siamo diretti).

Un motivo per prendere la metropolitana da queste parti è che la vita si sviluppa principalmente sottoterra per cui viaggiare in metro vuol dire scoprire che esiste tutto un altro mondo oltre quello di superficie, dove si trovano negozi, punti di ristoro e negozi dove fare shopping.

Un consiglio: la cosa migliore per spostarsi è prendere la carta ricaricabile (con venti dollari dovreste riuscire più o meno a girare tutta Singapore senza ricaricare di nuovo visto che il costo del viaggio è a chilometro e non fisso).

Singapore Linea Rosso-Verde
Singapore Linea Viola
Singapore Linea Gialla

Credo di avervi detto più o meno tutto quello che può esservi utile per un primo approccio alla città di Singapore.

Ovviamente le indicazioni sono più che altro per un viaggio turistico, le considerazioni su tutto il resto (sul modo di vivere, sulla loro filosofia e sul modo in cui vive Singapore) saranno rimandate, semmai ad altra sede.

Spero con questa (imperfetta) descrizione di Singapore di essere riuscito in qualche modo a stimolare la vostra curiosità su quello che è un mondo completamente nuovo, diverso da noi, un mondo in qualche modo tutto da scoprire (nelle prossime settimane vi parlerò anche di Bangkok, altro posto da visitare almeno una volta nella vita, per cui se vi va restate connessi).

Post scriptum: Nel caso voleste chiedere qualcosa o avete qualche curiosità in generale non esitate a scrivere o contattarmi e cercherò di rispondere a tutte le vostre domande.

Riprendere la “Politica”

La scissione di Matteo Renzi che lo ha portato fuori dal Partito Democratico (e che ha fatto seguito a quella di qualche tempo fa di Carlo Calenda che anche lui ha lasciato il Partito Democratico) mi porta a fare qualche considerazione di carattere generale su quanto sta accadendo in Italia.

Per avere un quadro più o meno consapevole della situazione forse sarebbe il caso di partire dalla crisi di Governo di questa estate, quella in cui Matteo Salvini (Segretario della Lega ed al momento della caduta anche Ministro degli Interni) decide di staccare la spina a quel Governo formato da Movimento Cinque Stelle e Lega che ha retto poco meno di un anno.

La giustificazione che è stata addotta da Salvini per giustificare il fatto di aver fatto saltare il banco del Governo è stato “troppi no da parte del Movimento Cinque Stelle”, a questo punto Matteo Renzi apre uno spiraglio per trattare con i Cinque Stelle, formare un nuovo Governo con il Partito Democratico che fino al giorno prima diceva “mai con i Cinque Stelle” (per i quali peraltro il Partito Democratico era il Partito di Bibbiano) mentre Renzi twittava a tutto spiano #senzadime.

Dopo la formazione del Governo (avvenuta secondo molti grazie alla lungimiranza di Renzi) lo stesso Renzi decide (dopo aver incassato nel suo Governo ministri e sottosegretari) di andarsene dal PD portandosi via tutti per dare vita ad u partito che somiglia molto ad una operazione di palazzo che si chiamerà “Italia Viva”.

Non ci avete capito nulla?

Bene, perché è tutto perfettamente normale.

In un contesto politico in cui la politica è stata completamente privata di qualunque forma di ideologia è più che normale non capire che cosa sta succedendo perché tutto appare confuso, difficile da capire e da spiegare perché senza senso e perché correlato solo ad un continuo scambio di posti e di poltrone per mantenere il potere.

Sono appassionato di politica, lo sono da circa vent’anni e per un lungo periodo della mia vita sono stato anche militante (ed in qualche caso ho avuto anche incarichi di dirigenza all’interno di partiti) di diversi partiti, sempre alla costante ricerca di un posto dove poter portare avanti quelle che ritengo essere le mie battaglie per la costruzione di un “posto migliore”, non solo in Italia ma in Europa, nel mondo.

Sono state tante le persone che nel corso della mia azione politica mi hanno accompagnato (molte delle quali sono diventati amici) e molti altri sono quelli che si sono allontanati.

Eppure nella fase attuale, con tutta la passione che mi ha spinto, non vedo possibilità di crescita per il Paese ma solo la costante corsa al posto migliore a scapito di quelli che sono gli interessi del Paese. Non voglio entrare troppo nel dettaglio dei singoli partiti o movimenti ma fare una considerazione che potrebbe essere utile per ripartire: quella che stiamo vivendo non è politica, almeno io non la percepisco come tale.

Lo scopo della politica (e quindi di una classe dirigente) dovrebbe essere quella di perseguire il bene della collettività tutelando quelli che allo stesso tempo sono i diritti del singolo individuo costruendo quindi una società il più efficiente possibile e capace di rispondere alle esigenze dei singoli.

Prima ancora di avere un politico o della scelta di un leader dunque è necessario che la politica rimetta al centro di tutto l’individuo, inteso come essere umano in generale, dando avvio ad un nuovo Rinascimento che possa essere in grado di smuovere le coscienze collettive e lavorare davvero per quelli che sono gli interessi di tutta la nazione.

Idee, proposte, progetti, tutto quello che può essere alla base della crescita economica, sociale ed individuale, deve essere preso in considerazione da quella che dovrebbe essere la “nuova classe politica”, una classe capace di formare coalizioni non per “battere le destre” ma per “costruire nuovamente l’Italia”, ridare al Paese la propria coscienza smarrita, il proprio posto nel mondo.

Perché questo sia possibile è necessario “formare” le classi dirigenti, dando vita ad un progetto di ampio respiro che non guardi solo a destra o a sinistra ma sia capace di intercettare quelle che sono le necessità oggettive del Paese.

Rimettiamo dunque la politica al centro di tutto, fondiamo un nuovo Umanesimo e restituiamo alla politica quel ruolo nobile che le spetta.

Pensare ad un nuovo modo di “stare in campo” è la strada che abbiamo da percorrere per poter tornare a crescere e competere, compito della classe politica deve essere quello di guidare i processi della società in cambiamento senza tralasciare nessuno, senza lasciare nessuno indietro.

Torneremo ancora su questi aspetti (lo ho già fatto in altri post) perché ritengo sia fondamentale che la politica abbia la sua dignità per tornare a fare gli interessi del popolo, cercherò di elaborare tanto un processo ideologico quanto un programma sperando che qualcuno possa cogliere lo spunto alla costruzione di qualcosa di nuovo.

“Maternità surrogata” nell’Antica Roma…

Uno degli argomenti che più di altri tiene banco in questi ultimi anni è quello della “maternità surrogata” ovvero le donne che mettono in affitto il proprio utero per mettere al mondo figli di altri. Una pratica che da molti è considerata una aberrante pratica della modernità che stravolge il “ruolo della donna madre” all’interno della famiglia, ma è davvero così?

Quale sarebbe la vostra reazione se ad esempio vi dicessi che la pratica dell’utero in affitto era già conosciuta e praticata nell’antica Roma senza nessuno scandalo? Un articolo uscito su Focus di questo mese parla proprio di questa pratica dell’Antica Roma. Personaggi noti e meno noti (anche considerati dei veri e propri moralisti per l’epoca) non si facevano scrupolo di “affittare” l’utero della propria moglie per fare un favore ad un amico o per creare delle alleanze con le famiglie più potenti.

Ci sono alcuni esempi eclatanti di romani che hanno “usufruito” di questa possibilità, molti dei quali sono anche saliti agli onori delle cronache per le loro imprese storiche o per le loro gesta.

Prendiamo ad esempio la figura di Marzia, citata anche da Dante nella Divina Commedia tra le “anime magne” dell’Inferno.

Marzia visse in tarda età repubblicana (siamo nel 62 A.C.) e come tutte le ragazze della sua età viene costretta dal padre a sposarsi giovanissima per volontà del padre con il console Lucio Marcio Filippo. Bisogna innanzi tutto ricordare che le spose romane sono spesso delle bambine di 12 o 13 anni, come dice l’articolo “vergini pronte a sottomettersi alla virilità del maschio per garantirgli una discendenza”. La donna romana per essere considerata un esempio di virtù doveva essere casta, restare in casa a filare (raramente era presente sulla scena pubblica). Le donne che parlavano troppo o che bevevano erano considerate delle prostitute, considerate dedite allo scandalo ed al vizio.

Marzia risulta essere in questo un raro esempio di virtù: dà a Catone due figli ed “obbedisce” a tutti i voleri del marito, il quale a sua volta la ama profondamente ed è sempre pronto ad esaudire ogni suo desiderio. Fin qui sembra essere un matrimonio perfetto finché non entra in scena un terzo personaggio: Quinto Ortensio Ortalo.  Per chi si occupa di storia romana e letteratura latina Ortensio Ortalo è un personaggio noto, considerato uno dei più illustri oratori romani. Ortensio Ortalo viene citato spesso anche da Cicerone, il quale gli dedicò un’opera perduta appunto dal titolo Hortensius.

Tornando a noi, Ortensio chiede al suo amico Catone di “affittare” la moglie (ovviamente sposandola) visto che non può avere figli dato che la moglie è sterile. Le parole di Ortensio le conosciamo grazie a Plutarco che le riporta nel suo Vite Parallele: 

Tua moglie ti ha già dato un numero sufficiente di eredi, ed è abbastanza giovane per averne altri: lascia che li faccia, questa volta per me.

A dire il vero Ortensio inizialmente aveva chiesto a Catone di sposare sua figlia Porzia (che avrebbe sposato in seconde nozze Bruto, l’assassino di Cesare), offerta rifiutata da Catone il quale non voleva concedere la figlia, considerata il suo bene più prezioso ad un uomo troppo anziano. Ortensio però aveva insistito: se non la figlia perché non la moglie?

Nessuna fonte riporta se Marzia fosse contenta o meno di andare in prestito ad un altro uomo, però sappiamo che secondo la legge di Roma il marito aveva tutto il diritto di prestare la moglie ad un amico affinché questa generasse dei figli per lui. Nessuna donna aveva il potere di opporsi a questa volontà.

La pratica di concedere l’utero della propria moglie in “affitto ” non ha niente a che vedere comunque con il nostro contemporaneo desiderio di “maternità” o di “paternità”, si tratta più che altro di un vero e proprio “dovere civico della donna”.

A partire dal I secolo A.C. la natalità a Roma era in calo e le autorità erano non poco preoccupate. Oltretutto bisogna considerare che i troppi schiavi liberati avevano acquisito la cittadinanza “romana”, insomma si trattava più che altro di una politica per “dare nuovi figli alla patria”.

I Romani del resto (come sappiamo dalle norme che regolavano il matrimonio nell’Antica Roma) raramente si sposavano per amore.

Questo ovviamente non vuol dire che non provassero sentimenti, ma di certo il matrimonio era più che altro dettato da interessi economici e ambizioni di ascesa sociale (come del resto avveniva anche nel passato recente, dove spesso i matrimoni rispondevano più ad interessi dinastici che ad un amore vero e proprio).

Il caso più celebre resta quello di Livia, andata in sposa al cugino Tiberio Claudio Nerone e ceduta proprio dal marino ad Ottaviano nel 38 A.C. Leggenda vuole che Livia e Ottaviano fossero travolti dalla passione. Secondo un ragionamento molto più pratico pare che ad Ottaviano convenisse non poco prendere in prestito Livia per imparentarsi con la sua famiglia, la Gens Claudia, una delle famiglie più ricche e nobili di Roma.

Questi sono solo alcuni degli esempi (alcuni dei più noti), come al solito nel leggere questo articolo vi chiedo di sospendere ogni “giudizio morale” poiché si tratta di storia.

La società odierna (anche se non ovunque) è cambiata, quindi prendete questo articolo per quello che è: una curiosità storica per conoscere il nostro passato, un pezzo di società e di storia romana per comprendere meglio chi siamo, da dove veniamo ed il prezzo delle nostre conquiste.

Buon 2019

“Quali sono i propositi per il nuovo anno”? Come ogni fine anno si riapre il dibattito su quelli che sono i propositi e le speranze per il nuovo anno, con la speranza che per molti possa essere l’anno della svolta. Tempo di bilanci lo è anche per chi governa, e non parlo solo della politica ma anche per chi necessariamente si trova ad amministrare posizioni di potere.

Come ogni anno la rivista #Wired ha pubblicato un numero speciale su quelle che saranno (o che almeno dovrebbero essere) le parole chiave del nuovo anno. Consiglio la lettura della rivista a tutti coloro che in qualche modo pensano che il “progresso” sia alla base dell’evoluzione dell’essere umano e per tutti coloro che in qualche modo hanno interesse a pensare a come migliorare le condizioni di vita dell’essere umano.

In particolare sono rimasto colpito da una parola: Umanesimo.

In un’epoca dove la tecnologia prende sempre più potere ed in momento in cui l’uomo sembra scomparire è necessario andare in controtendenza e riproporre un modello di visione della società in grado di rimettere l’uomo al centro dell’azione anche se attraverso l’interazione con la macchina. Quello che si legge nella spiegazione è: “Da disciplina tecnica a umana: questo è il passaggio necessario affinché la tecnologia sia un elemento positivo per collettività” (Wired, edizione Inverno, nr. 87 p. 87).

La parola “Umanesimo” mi affascina da tempo, sin da quando me la sono trovata davanti nei miei studi di storia, di filosofia, di comprensione dei processi dell’evoluzione umana, ritengo che il termine sia ben più importante di quello molto più conosciuto di “Rinascimento”, perché il secondo non ci sarebbe mai potuto essere senza il primo. La “Rinascita” del pensiero umano – tanto osannata – avvenuta negli anni che vanno dalla fine del Quattrocento sino più o meno alla fase dell’Illuminismo non sarebbe stata possibile se prima non si fosse deciso di rimettere al centro dell’azione umana l’uomo nella sua dimensione naturale, come essere dotato di ragione e come tale capace di comprendere quelle che sono le ragioni del pensiero umano.

Umanesimo quindi, un processo che oggi deve necessariamente assumere una nuova connotazione, deve essere capace di rimettere al centro di tutto l’uomo non in quanto “individuo” ma in quanto “essere umano” quindi non in quanto appartenente ad una razza o ad una religione ma in quanto appartenente al “genere umano”. Come può questo termine essere correlato alla tecnologia? Come può una cosa apparentemente fredda come la “tecnologia” essere di aiuto a rimettere l’essere umano al centro dell’evoluzione?

La tecnologia è ancora una dimensione dell’azione umana che spaventa, spesso si sente dire “tutta questa tecnologia dove ci porterà?” e ci si lamenta di come la tecnologia abbia “spento il nostro cervello” è vero, ma è vero solo in parte.

Se è vero che tecnologia da una parte ha “semplificato” la nostra vita, rendendo il nostro cervello sempre più pigro, è anche vero che i processi tecnologici hanno portato alla creazione di strumenti che migliorano decisamente la nostra mente ed il nostro modo di agire.

L’essere umano ha sempre guardato con timore alla “tecnologia” intesa in senso filosofico, probabilmente perché la tendenza è quella di temere ciò che non siamo in grado di comprendere.

Probabilmente è quanto successo quando sono state messe in discussione le certezze della “Terra come centro dell’universo” e probabilmente i contemporanei di Galileo o di Copernico hanno fatto le stesse obiezioni che oggi i nostri genitori fanno alla costante evoluzione tecnologica.

Eppure, Intelligenze Artificiali, macchine pensanti, telefoni che somigliano sempre più a dei computer capaci di interagire tra loro con altri strumenti tecnologici oggi sono una certezza del nostro mondo e attraverso questa certezza l’uomo deve recuperare il proprio centro nel mondo.

Pensare solo agli aspetti negativi della tecnologia vuol dire non comprendere la portata di quello che sta accadendo nel mondo e qui allora torniamo al nostro punto di partenza “la costruzione di un nuovo Umanesimo”.

Per quanto elaborare concetti troppo elaborati su un semplice articolo di un blog possa essere complicato (le argomentazioni sarebbero troppe) possiamo però provare a tracciare delle linee guida auspicando più che consigliando quello che dovrebbe avvenire.

Innanzi tutto perché l’uomo possa sviluppare una forma di comprensione maggiore della tecnologia ( e delle implicazioni di questa sulla propria vita) è necessario aprire la propria mente ad una forma di “empatia”, che si possa allargare non solo alla comprensione dei bisogni e delle necessità degli altri uomini suoi simili ma anche e soprattutto alla “comprensione” (anche se non è propriamente corretto il termine “comprensione”) delle macchine. Una maggiore empatia tra gli uomini non può che agevolare una maggiore empatia nell’integrazione uomo – macchina e non possiamo che considerare questo aspetto come una forma di “evoluzione della specie post darwiniana”.

In questo sviluppo “empatico” della società deve aiutare anche la classe politica, la quale deve iniziare a mettere al centro della propria azione “l’uomo” non in base al semplice tornaconto elettorale ma anche e soprattutto sulla base dell’evoluzione come essere umano. Pensare a politiche che sempre più vadano in direzione del miglioramento della condizione umana e che sempre più aiutino l’uomo a sviluppare quei processi empatici necessari per una maggiore integrazione e di conseguenza di un maggiore progresso in grado di superare le differenze di razza, religione, colore della pelle, e tutte quelle cose che oggi vengono considerate in qualche modo “discriminatorie”.

Per ora ci fermiamo, però torneremo ancora sui procedimenti e processi che potrebbero in un futuro (si spera nemmeno tanto lontano) essere elementi chiave per la costruzione di una nuova forma di umanesimo.

E vorrei chiudere (se mi è concesso) con un altro termine che in questa fase deve tornare ad essere sulla bocca di tutti, perché strettamente correlato alla parola “Umanesimo”, ed è la parola Ottimismo.

Dobbiamo guardare al futuro con ottimismo, pensare che tutto con il tempo non potrà che migliorare, perché il cambiamento, diceva Buddha

“Il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è”

Lavoro e salario in Italia, prospettive per il 2018

Utilizziamo un vecchio slogan sindacale per parlare di lavoro, nello specifico per parlare di precariato e lavoratori dei call center.

Secondo i dati ISTAT nel mese di dicembre del 2017 la stima degli occupati è calata dello 0,3% (-66 mila posti di lavoro) tornando al livello di ottobre, mentre il tasso di occupazione scende al 58,0% (0,2% punti percentuali).

Rileviamo che il calo dell’occupazione nell’ultimo mese interessa tutte le componenti di genere e di tutte le classi di età eccetto la fascia che riguarda gli ultracinquantenni. Risultano in diminuzione i lavoratori dipendenti, sia permanenti sia a tempo determinato, mentre rimangono stabili gli indipendenti.

Nel trimestre ottobre-dicembre si registra un lieve incremento degli occupati rispetto al periodo precedente (+0,1%, +16 mila).

La stima delle persone in cerca di occupazione a dicembre diminuisce per il quinto mese consecutivo (-1,7, -47 mila).

La diminuzione della disoccupazione interessa donne e uomini e riguarda tutte le classi ad eccezione di quella 25-49 anni. Il tasso di disoccupazione si attesta attorno al 10,8% (-0,1% rispetto a novembre), mentre quello giovanile scende al 32,2% (-0,2%).

Cresce invece la stima degli inattivi tra i 15 ed i 64 anni e cresce dello 0,8% (+112 mila), interessando tutte le età e tutte le componenti di genere. Il tasso di inattività sale al 34,8% (+0,3 punti percentuali).

Eppure a queste notizie positive è strettamente correlata una negativa: secondo i dati del Trades Union Congress (TUC), il quale ha fatto una analisi partendo dai dati OCSE, è prevista in Italia una progressiva decrescita dei salari, ma vediamo nel dettaglio cosa dice l’analisi.

L’analisi riguarda il salario reale, ovvero la quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare con il suo stipendio, che si traduce con nel suo POTERE DI ACQUISTO.

Il salario reale viene calcolato sulla base del rapporto tra salario nominale (la quantità di moneta ricevuta come stipendio) e l’inflazione.

Questo calo ci sarà nonostante in Italia nel 2018 entrerà in vigore il nuovo contratto del pubblico impiego che prevede un aumento di stipendio di 85 euro lordi per tutti gli statali. L’aumento però rischia di non essere sufficiente per far fronte all’inflazione: i prezzi dei beni di servizio cresceranno ben più dei salari con la conseguente decrescita del valore salariale.

Il motivo di questo calo non è da attribuire all’ingresso nell’Unione Monetaria (anche in virtù del fatto che in altri Paesi dell’UE i salari sono destinati a crescere nel 2018). Secondo Luigi Marattin, consulente economico della Presidenza del Consiglio il problema è lo stretto legame tra i salari medi e la produttività del lavoro (ossia la quantità di cose che vengono prodotte in un Paese in un anno in rapporto al numero ed alle ore) con quest’ultima che dal 1996 è cresciuta solamente del 5,8%. A questo punto è necessario porsi una domanda: perché la produttività del lavoro non cresce in Italia?

Una risposta la fornisce NICOLA BORRI, economista della LUISS di Roma, che nel 2016 ha affrontato la questione in un’intervista rilasciata all’Ansa.

Secondo l’analisi di Borri si possono identificare due motivazioni che rallentano la produttività italiano: l’arretratezza della tecnologia e la totale o quasi mancanza di specializzazione del nostro Paese in settori – come ad esempio la moda ed il turismo – che risultano essere meno trainanti di altri più tradizionali come ad esempio la meccanica.

Dunque una soluzione potrebbe essere proprio questa: incrementare gli investimenti nel settore meccanico, chimico o manifatturiero dove gli effetti della tecnologia sono più evidenti, e fare in modo che facciano da traino per tutti quei settori che devono crescere.

Parallelamente è necessario migliorare la qualità del lavoro.

Perché questo sia possibile è innanzi tutto necessario ripartire dalla formazione universitaria – visto che tra i Paesi OCSE l’Italia risulta essere quello con la percentuale di laureati più bassa nella fascia d’età 25-64 anni.

Un suggerimento per il prossimo governo, che avrà il compito di riportare i salari medi ai livelli pre-crisi del 2008.

(I sull’aumento salariale sono presi dal sito Money.it mentre la prima parte è stata presa dal sito dell’Istat)

Senza Rete

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Sono mancato per un poco su queste pagine, vero?

Non so quanti mi leggessero, o quanti avessero la costanza di seguire le mie elucubrazioni mentali , ma in questi mesi che sono mancato avevo anche pensato di dare una evoluzione al mio blog, fare una pagina che parlasse più di me, di quello che sono, avrei voluto, ma sino a questo momento non ho potuto farlo.

Perché direte?

Perché ad agosto di quest’anno ho cambiato casa, sono andato a vivere al centro storico e prima di farlo avevo chiamato la società telefonica della Tim per sapere se era possibile avere la connessione internet.

Le prime risposte sono state rassicuranti,  era solo questione di giorni e poi avrei avuto la connessione.

Bene, da quel momento inizia un calvario che ancora oggi non ha fine.

La società telefonica della Tim dopo sette mesi di ripetuti contatti, richieste, promesse evase, appuntamenti non rispettati, telefonate  a prese in giro non solo non ha ancora installato la connessione ma non si capisce nemmeno se sono in grado di attaccarla.

Ma andiamo con ordine, partendo dal mese di settembre, quando tutta questa storia ha inizio.

LA RETE LA METTE SOLO TELECOM (?)

Tutto inizia quando inizio a girare per avere una connessione a casa.

Dopo aver contattato la Tim per chiedere se fosse possibile avere la rete e fissare un appuntamento con un tecnico con l’installazione ricevo nel mese di settembre una visita del tecnico che mi spiega in maniera piuttosto chiara che non è possibile mettere la rete perché la Tim non ha spazio nelle cabine in quel momento, quindi la mia unica alternativa sarebbe quella di contattare la Tim e chiedere la possibilità di avere una cabina dove poter collegare la rete oppure aspettare che si liberi la Rete.

Dopo la visita del tecnico inizio a sentire altri operatori telefonici: Fastweb, Libero, Vodafone, e tutti danno la stessa risposta: senza la Tim che mette la Rete non è possibile intervenire, perché la sola compagnia che ha il monopolio della messa in posa degli impianti è proprio la Telecom (o Tim) ed allora da qui il primo problema: se una sola compagnia ha in mano il monopolio dell’intero mercato delle infrastrutture, come può avere interesse a metterti l’impianto sapendo che io posso cambiare operatore? E non solo, chi mi dice che questo loro comportamento non serva per far scadere offerte vantaggiose della concorrenza? Ma questo tralasciamolo, limitiamoci a riportare i fatti.

Siamo a settembre, dunque.

A dicembre scopro che il solo modo per avere la connessione è fare richiesta alla Tim della cabina, lo comunico alla mia amministrazione di condominio che prontamente chiama il reparto tecnico della Tim per posizionare la cabina all’interno del palazzo condominiale.

Nel frattempo vengo contattato di nuovo dalla Tim (Ufficio commerciale) che mi consiglia di accettare l’offerta comunque per bloccarla nonostante non abbia ancora la rete (un pò come comprare il casco prima di comprare la moto in attesa che la moto arrivi), tanto ci vogliono massimo “due mesi” perché tutti i lavori vengano portati avanti, ed in effetti ci sono voluti due mesi, per mettere la cabina.

Nel mese di febbraio effettivamente avevo la cabina posizionata, pronta per essere posizionata e per essere utilizzata con la mia bellissima offerta Telecom: avrei finalmente potuto navigare, tornare a lavorare occupandomi di programmazione e social network , tralasciando quello che era l’aspetto ludico, perché ormai senza connessione non si vive, tanto che “la libertà di accesso alla Rete” viene tutelata da un comma dell’art. 21 della Costituzione come un “diritto dell’individuo”.

Ovviamente alla compagnia telefonica di bandiera di tutto questo non frega niente per cui ce ne freghiamo anche noi ed andiamo avanti con il racconto.

Dunque, dopo aver messo la cabina contatto il 187 (numero del servizio  clienti) e vengo rassicurato: entro il mese di marzo dovrei avere la connessione.

Siamo nel mese di aprile inoltrato (quasi a maggio) e non solo non si vede ancora la connessione ma non si vede all’orizzonte nemmeno la possibilità di averla nonostante le ripetute sollecitazioni da parte mia, rassicurazione da parte loro,  altri appuntamenti con tecnici mancati (addirittura più di una volta o sono stato costretto a chiamare io il Servizio Clienti per sapere che il loro appuntamento era saltato oppure venivo a sapere dell’appuntamento DOPO che questo era stato effettivamente fissato a mia insaputa).

Ovviamente la Tim ha messo a disposizione due numeri di telefono, uno quello della sede legale l’altro della sede amministrativa: due numeri inesistenti che rimandano al 187, ovviamente senza averti detto nulla.

In questi otto mesi non sono riuscito a parlare con  un tecnico, un dirigente, un contatto utile, mi sono trovato spesso a dover parlare con operatori di Call Center che non solo non conoscono la situazione ma in alcuni casi mi hanno anche chiamato per offrirmi di passare a Tim (!).

Perché succede questo?

MA perché la Tim ha subbalpaltato la gestione del servizio clienti a compagnie di call center che non sono in grado di risolvere i problemi ma che hanno il solo compito di “rabbonire” il cliente senza offrire alcuna soluzione.

Quindi io mi trovo costretto a spendere almeno 30/50 euro dal telefono perché sono costretto a lavorare dall’Hotspot del telefono cellulare (quello non Tim però, ed un giorno parleremo anche della telefonia in generale perché anche quello è un mondo tutto da scoprire).

Dunque tornando a noi: siamo al mese di aprile e da almeno due settimane la Tim continua a non fornire risposte alle mie richieste di attivazione della Rete ed ovviamente evitando accuratamente di ammettere le proprie responsabilità di quella che è una vera e propria presa in giro ai danni di chi vorrebbe tanto avere la connessione.

Probabile che alla fine ceda e cambi operatore,  ma non credo che nel momento in cui succeda se mi chiedono una rete buona possa dire “Passa a Telecom, sicuramente ti troverai bene”