La conversione dell’Innominato, una delle pagine più toccanti della Letteratura Italiana

Per intere generazioni di studenti i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è stato un vero e proprio incubo. Spesso letto per “costrizione” e spiegato in maniera pedissequamente didattica il romanzo di Manzoni è diventato uno dei più odiati dagli italiani.

Eppure, nella sua complessità (non si tratta sicuramente di un romanzo di facile lettura me ne rendo conto) il romanzo riesce a colpire per la toccante sensibilità di alcuni episodi e per la grande capacità di Manzoni di “raccontare” storie e personaggi che (se “raccontati bene”) possono essere parte dell’immaginario collettivo.

Uno dei personaggi in questione è senza ombra di dubbio la figura dell’Innominato che ci viene presentata nei capitoli che vanno dal XX al XXIII. Ammetto che la presentazione non è delle migliori: l’Innominato viene descritto come il “peggiore dei criminali”, una di quelle figure che oggi chiameremmo “boss” che incute timore ai disgraziati quando ai potenti. Eppure Manzoni riesce sin da subito a mostrarci una figura complessa, piena di dubbi e con la volontà di mettere in discussione la propria vita ed il proprio operato. Già nel capitolo XX Manzoni inizia a “preparare” il lettore ad una possibile redenzione del personaggio (protagonista di un vero e proprio romanzo nel romanzo) visto che possiamo leggere:

Era aspettata dall’Innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che di tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel mettere le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore.

Già in questo breve passaggio possiamo notare come l’Innominato inizi ad avere dei dubbi “etici” sulla sua vita. Colpisce anche la scelta dei termini utilizzati dal Manzoni, a partire proprio dalla parola finale: terrore. Come a dire, colui che ha terrorizzato tutta la Lombardia con i suoi crimini prova a sua volta terrore all’arrivo di Lucia, rapita per una promessa fatta a Don Rodrigo ed ennesimo crimine commesso dall’Innominato.

L’Innominato ci viene presentato (sin da questo breve passaggio) come una figura tormentata, complessa, alla fine quasi della sua vita e per questo pieno di dubbi, costretto a fare un bilancio della propria vita e chiedendosi “che cosa ho fatto per essere ricordato? Cosa ho fatto per meritare la salvezza?” la risposta “niente, hai fatto solo del male” è un vero e proprio pugno allo stomaco, una risposta che lo atterrisce e lo spaventa, una risposta interiore che lo costringe e restare da solo con sé stesso e scoprire che non si piace.

La conversione dell’Innominato ci viene raccontata da Manzoni con un crescendo di colpi di scena: dalla volontà di ordinare ai suoi bravi di mandare direttamente Lucia da Don Rodrigo e togliersi la “seccatura”. Una scelta egoistica dettata da un motivo “nobile” quello della redenzione, anche se ancora viziata dal proprio egoismo.

Il punto di svolta è forse proprio l’incontro con Lucia, con la sua bontà. Le domande che si affollano nella mente dell’Innominato durante l’incontro con Lucia sono domande che scuotono la mente del criminale. Come può una persona che è stata rapita e sequestrata, a cui è stato impedito il matrimonio parlare di “perdono”? Come può una simile persona riporre la fiducia in Dio se quello stesso Dio la ha abbandonata? Tutti questi pensieri si affollano nella mente tormentata dell’Innominato sino al punto di svolta vero e proprio: il suono delle campane a festa che annuncia l’arrivo del cardinale Federigo Borromeo.

Qui siamo al secondo colpo di scena: l’incontro tra i due è indubbiamente una delle pagine più belle della letteratura italiana. Potremmo definire l’incontro come “l’incontro del diavolo con l’acqua santa”. Prima di andare avanti però parliamo un attimo della figura del cardinale. Ci troviamo sin da subito di fronte ad una figura che ha un alone di santità attorno a sé. Già quando viene annunciata la presenza dell’Innominato dal cappellano il quale (visto che santo non è) prova timore di fronte a quella figura, non vuole farla entrare perché è un peccatore che potrebbe mettere a rischio la vita del cardinale, il quale invece vive la fede come una missione e quindi è ben contento di accogliere una “pecorella smarrita” che vuole tornare all’ovile. Salvare un’anima come quella dell’Innominato nella sua visione del mondo vale molto di più che salvare mille anime di “fedeli”. In questo passaggio Manzoni tra le altre cose esprime la sua visione della religione, vista come elemento salvifico dell’umanità intera e come vero e unico elemento in grado di “cambiare” realmente le cose nel mondo. Il ruolo della Divina Provvidenza, sempre molto presente nel romanzo di Manzoni si vede chiaramente anche in questo caso. La salvezza di Lucia arriverà proprio per mano di colui che è il peggiore di tutti i cattivi presentati sino a questo momento, da un animo malvagio, che non ha mai conosciuto il bene. Arriva per mano del cardinale, che con la sua sola presenza e con un semplice gesto riesce a redimere l’animo corrotto dell’Innominato, il quale dopo aver confessato i suoi peccati (non una confessione diretta, ma una vera e propria “ammissione di colpa”) si abbandona completamente sulla spalla del cardinale e piange. Un pianto liberatorio, di inesprimibile felicità che segna una rinascita morale e spirituale che sarà fondamentale nel procedere della storia.

Possiamo dire che l’episodio della conversione dell’Innominato è quel punto di svolta nella storia che si attendeva dall’inizio in attesa del lieto fine (anche a causa di questo Manzoni lo mette nella parte centrale del romanzo).

Da un punto di vista emotivo, possiamo lasciarci con un commento: che valore ha un abbraccio?

Riprendere la “Politica”

La scissione di Matteo Renzi che lo ha portato fuori dal Partito Democratico (e che ha fatto seguito a quella di qualche tempo fa di Carlo Calenda che anche lui ha lasciato il Partito Democratico) mi porta a fare qualche considerazione di carattere generale su quanto sta accadendo in Italia.

Per avere un quadro più o meno consapevole della situazione forse sarebbe il caso di partire dalla crisi di Governo di questa estate, quella in cui Matteo Salvini (Segretario della Lega ed al momento della caduta anche Ministro degli Interni) decide di staccare la spina a quel Governo formato da Movimento Cinque Stelle e Lega che ha retto poco meno di un anno.

La giustificazione che è stata addotta da Salvini per giustificare il fatto di aver fatto saltare il banco del Governo è stato “troppi no da parte del Movimento Cinque Stelle”, a questo punto Matteo Renzi apre uno spiraglio per trattare con i Cinque Stelle, formare un nuovo Governo con il Partito Democratico che fino al giorno prima diceva “mai con i Cinque Stelle” (per i quali peraltro il Partito Democratico era il Partito di Bibbiano) mentre Renzi twittava a tutto spiano #senzadime.

Dopo la formazione del Governo (avvenuta secondo molti grazie alla lungimiranza di Renzi) lo stesso Renzi decide (dopo aver incassato nel suo Governo ministri e sottosegretari) di andarsene dal PD portandosi via tutti per dare vita ad u partito che somiglia molto ad una operazione di palazzo che si chiamerà “Italia Viva”.

Non ci avete capito nulla?

Bene, perché è tutto perfettamente normale.

In un contesto politico in cui la politica è stata completamente privata di qualunque forma di ideologia è più che normale non capire che cosa sta succedendo perché tutto appare confuso, difficile da capire e da spiegare perché senza senso e perché correlato solo ad un continuo scambio di posti e di poltrone per mantenere il potere.

Sono appassionato di politica, lo sono da circa vent’anni e per un lungo periodo della mia vita sono stato anche militante (ed in qualche caso ho avuto anche incarichi di dirigenza all’interno di partiti) di diversi partiti, sempre alla costante ricerca di un posto dove poter portare avanti quelle che ritengo essere le mie battaglie per la costruzione di un “posto migliore”, non solo in Italia ma in Europa, nel mondo.

Sono state tante le persone che nel corso della mia azione politica mi hanno accompagnato (molte delle quali sono diventati amici) e molti altri sono quelli che si sono allontanati.

Eppure nella fase attuale, con tutta la passione che mi ha spinto, non vedo possibilità di crescita per il Paese ma solo la costante corsa al posto migliore a scapito di quelli che sono gli interessi del Paese. Non voglio entrare troppo nel dettaglio dei singoli partiti o movimenti ma fare una considerazione che potrebbe essere utile per ripartire: quella che stiamo vivendo non è politica, almeno io non la percepisco come tale.

Lo scopo della politica (e quindi di una classe dirigente) dovrebbe essere quella di perseguire il bene della collettività tutelando quelli che allo stesso tempo sono i diritti del singolo individuo costruendo quindi una società il più efficiente possibile e capace di rispondere alle esigenze dei singoli.

Prima ancora di avere un politico o della scelta di un leader dunque è necessario che la politica rimetta al centro di tutto l’individuo, inteso come essere umano in generale, dando avvio ad un nuovo Rinascimento che possa essere in grado di smuovere le coscienze collettive e lavorare davvero per quelli che sono gli interessi di tutta la nazione.

Idee, proposte, progetti, tutto quello che può essere alla base della crescita economica, sociale ed individuale, deve essere preso in considerazione da quella che dovrebbe essere la “nuova classe politica”, una classe capace di formare coalizioni non per “battere le destre” ma per “costruire nuovamente l’Italia”, ridare al Paese la propria coscienza smarrita, il proprio posto nel mondo.

Perché questo sia possibile è necessario “formare” le classi dirigenti, dando vita ad un progetto di ampio respiro che non guardi solo a destra o a sinistra ma sia capace di intercettare quelle che sono le necessità oggettive del Paese.

Rimettiamo dunque la politica al centro di tutto, fondiamo un nuovo Umanesimo e restituiamo alla politica quel ruolo nobile che le spetta.

Pensare ad un nuovo modo di “stare in campo” è la strada che abbiamo da percorrere per poter tornare a crescere e competere, compito della classe politica deve essere quello di guidare i processi della società in cambiamento senza tralasciare nessuno, senza lasciare nessuno indietro.

Torneremo ancora su questi aspetti (lo ho già fatto in altri post) perché ritengo sia fondamentale che la politica abbia la sua dignità per tornare a fare gli interessi del popolo, cercherò di elaborare tanto un processo ideologico quanto un programma sperando che qualcuno possa cogliere lo spunto alla costruzione di qualcosa di nuovo.

Laurea o formazione politica?

Come ogni formazione di un nuovo Governo riemerge la polemica solita sul fatto che ci sono molti ministri “non laureati”. Oltre al caso di Luigi di Maio – promosso agli Esteri – viene citato il caso di Teresa Bellanova, Ministro per l’Agricoltura non laureato e proprio per questo bersaglio delle critiche di una parte della dirigenza politica.

L’ennesimo episodio di “contestazione alla mancata laurea” mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti storici della questione del rapporto che intercorre o quantomeno deve intercorrere tra la laurea e la politica.

Per comprendere e per spiegare esattamente quello che vorrei dire però è necessario partire da una piccola parentesi storica: ovvero, il ruolo che nella “Prima Repubblica” (utilizzo questo termine per identificare il periodo che va dal 1945 al 1991 circa, segnato dalla presenza dei partiti definiti “di massa”) hanno avuto le scuole di formazione politica all’interno dei partiti.

Quando si parla di “scuole di partito” si tende a parlare di un fenomeno culturale ben preciso, che non veniva utilizzato solo per fare propaganda politica ma anche e soprattutto per fornire alle persone meno abbienti gli strumenti per poter essere cittadini indipendenti.

Nelle scuole di partito non veniva insegnata solo la dottrina politica ma spesso si insegnava anche a leggere e scrivere, visto il tasso di analfabeti piuttosto alto (soprattutto al Sud Italia) e visto che non tutti potevano permettersi di andare a scuola regolarmente o permettersi di studiare.

Le scuole di formazione, dunque, non avevano solo una funzione “ideologica” ma anche e soprattutto una funzione “sociale” molto forte.

Ma la “scuola di partito” non aveva solo questa funzione, ne aveva anche un’altra molto più pratica: formare i dirigenti del partito e gli amministratori che avrebbero dovuto amministrare la “Cosa Pubblica”, visto che non tutte le lauree sono adatte alla carriera politica (e del resto sarebbe anti costituzionale limitare la possibilità di lavoro solo ad alcune lauree) da qui la necessità che emergeva di affiancare alla carriera accademica quella più “pragmatica” della scuola di partito.

Inoltre molto spesso chi non era laureato nella Prima Repubblica non lo era perché era iscritto all’università ma era già impegnato nella vita di partito (come avvenne ad esempio a Bettino Craxi – primo Ministro degli Esteri a non essere laureato – oppure a Massimo d’Alema, anche lui prima Presidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nel Governo Prodi II).

Se ci soffermiamo sulla questione della “funzione sociale” della scuola di partito possiamo dire che questa era possibile in un sistema dove i partiti ed i politici avevano ancora a mente la loro funzione sociale prima che politica e quindi avevano interesse ad avere anche un elettorato consapevole che sapesse esattamente che cosa o perché votasse, anche se non si trattava solo di questo (l’aspetto dell’istruzione in Italia spero sarà uno dei prossimi argomenti da affrontare, poiché qui sarebbe un argomento troppo vasto e porterebbe a delle conclusioni completamente sballate rispetto al tema principale).

La questione del rapporto tra laurea e politica è emersa quando la crisi del mondo del lavoro ha creato una condizione per cui ci siamo trovati con una massa di laureati iper specializzati che però non riuscivano a trovare prospettive di lavoro.

Se a questo uniamo la funzione “puramente utilitaristica” assunta dalla politica sin dall’avvento di Berlusconi nel 1994 (politica che quindi ha completamente abbandonato la sua funzione sociale) è facile comprendere come e perché si sia venuta a creare una simile discrasia di idee: la laurea viene visto come sinonimo di preparazione sufficiente per fare politica, come se la politica fosse un posto di lavoro come un altro e non un incarico conferito ai cittadini dallo Stato.

Qui subentra però un altro ordine di problema: quale laurea bisogna prendere per poter fare politica?

A rigor di logica le lauree che sono più vicine a fornire gli strumenti per poter governare un Paese con cognizione sono le lauree di scienze dell’amministrazione (Economia, Scienze Politiche e Giurisprudenza) e quelle più strettamente tecniche per quello che riguarda gli altri incarichi, per cui: Ingegneria, Medicina e via dicendo a seconda dei Ministeri che si devono coprire.

Questa scelta tuttavia rischierebbe di escludere – ad esempio i laureati in Materie Umanistiche (che potrebbero occupare solo la casella del Ministero dei Beni Culturali ad esempio) – perché per assurdo non utili all’aspetto pratico della Pubblica Amministrazione.

Dovremmo pensare ad un corso di laurea in Pubblica Amministrazione per chi vuole occuparsi di politica?

Oppure è sufficiente che i singoli partiti rimettano al centro della propria azione politica anche e soprattutto la formazione delle classi dirigenti e degli amministratori?

La questione rimane aperta e sarebbe un buon modo per “restituire” alla politica il proprio ruolo istituzionale, ripensando alla possibilità di tornare ad un cursus honorum prima di intraprendere la carriera parlamentare.

Un lavoro che si potrebbe anche presentare difficile ma che può essere una strada possibile per restituire – appunto – alla politica la propria dignità.

Prospettive per lo studio della storia

Probabilmente la storia a scuola è una di quelle materie odiate dagli studenti così come lo sono la lingua latina (per gli studenti delle superiori) o come lo sono la matematica o altre materie “potenzialmente noiose”.

Ho già affrontato su questo blog in altri articoli il rapporto che la scuola dovrebbe avere con la storia (nella maggior parte dei casi insegnata male e solo seguendo uno schema dove basta imparare a memoria qualche data per comprendere la storia) ma ho deciso di ritornare sul tema.

Innanzi tutto perché prima di essere qualunque cosa sono uno “storico” e quindi mi interessa che la materia a cui ho dedicato la mia intera vita (o parte di essa) venga studiata nella maniera migliore e venga apprezzata dagli studenti almeno tanto quanto la ho apprezzata io.

Prima di iniziare però cerchiamo di rispondere ad una domanda: chi è lo storico?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo prima rispondere ad un’altra domanda: che cosa è la “storia”?

No, non intendo la materia che ti fa conoscere il passato, insomma quella dove ci sono le date della Seconda Guerra Mondiale o dei Governi Giolitti (giusto per citare due eventi legati alla storia d’Italia) intendo letteralmente: cos’è la storia?

Letteralmente, se risaliamo alla sua etimologia originale greca

obabilmente la storia a scuola è una di quelle materie odiate dagli studenti così come lo sono la lingua latina (per gli studenti delle superiori) o come lo sono la matematica o altre materie “potenzialmente noiose”.

Ho già affrontato su questo blog in altri articoli il rapporto che la scuola dovrebbe avere con la storia (nella maggior parte dei casi insegnata male e solo seguendo uno schema dove basta imparare a memoria qualche data per comprendere la storia) ma ho deciso di ritornare sul tema.

Innanzi tutto perché prima di essere qualunque cosa sono uno “storico” e quindi mi interessa che la materia a cui ho dedicato la mia intera vita (o parte di essa) venga studiata nella maniera migliore e venga apprezzata dagli studenti almeno tanto quanto la ho apprezzata io.

Prima di iniziare però cerchiamo di rispondere ad una domanda: chi è lo storico?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo prima rispondere ad un’altra domanda: che cosa è la “storia”?

No, non intendo la materia che ti fa conoscere il passato, insomma quella dove ci sono le date della Seconda Guerra Mondiale o dei Governi Giolitti (giusto per citare due eventi legati alla storia d’Italia) intendo letteralmente: cos’è la storia?

Letteralmente, se risaliamo alla sua etimologia originale greca
ἱστορία il termine indica letteralmente “indagine, investigazione, ricerca”.

Qui dunque ci possiamo porre la prima domanda: la storia è ricerca di cosa?

Di solito quando si parla di “ricerca” siamo tutti abituati a pensare che la ricerca si faccia in chimica, in fisica, in biologia o in materie appunto che consideriamo “scientifiche”, facendo una distinzione tra “materie scientifiche” e “materie umanistiche”.

Eppure vi posso sorprendere dicendo che quella distinzione non esiste se non nella nostra mente.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: di che cosa si occupa esattamente la storia? Quali sono i suoi campi di ricerca?

Possiamo dare una risposta dicendo che la storia si occupa di studiare l’uomo.

Meglio ancora, la storia “racconta l’uomo ed il modo in cui questo interagisce con l’universo ed il modo in cui lo modifica attraverso le sue decisioni”.

In un articolo precedente ho già ipotizzato la storia attraverso la descrizione di tre eventi tra loro apparentemente scollegati ma che possono invece avere tra loro una connessione logica per cui senza il primo non si sarebbe potuto verificare il secondo. (https://smirnoffsite.wordpress.com/2018/10/13/storia-maestra-di-vita-se-insegnata-nella-giusta-maniera/)

Possiamo provare ad allargare ora lo spettro di quell’esperimento ponendoci una serie di domande su alcuni eventi storici e sulle conseguenze sulla storia dell’evoluzione umana, partendo da una cosa facile di cui tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta, ovvero la Guerra Fredda.

Con il termine Guerra Fredda si indica il periodo che seguì la fine della II Guerra Mondiale e che vide Unione Sovietica e Stati Uniti.

La Guerra Fredda ci sarebbe stata senza la Rivoluzione d’Ottobre di Lenin? Ed ancora la Rivoluzione ci sarebbe mai stata se la Russia fosse rimasta neutrale nella Prima Guerra Mondiale?

Ripetendo questo schema potremmo arrivare ad analizzare ogni evento alla luce degli eventi precedenti cercando di capire come le interazioni dell’uomo nell’universo abbiamo modificato la struttura degli eventi sino a compiere un determinato evento.

Ribaltando questo schema potremmo prevedere gli eventi futuri sulla base degli eventi del passato, non utilizzando qualche potere misterioso ma prendendo in considerazione tutte le variabili che si possono prendere in considerazione nell’analisi di un singolo evento.

Insegnare “La Storia” dunque vuol dire insegnare il modo in cui l’uomo interagisce con l’universo circostante? Se limitiamo la nostra concezione della “storia” allo studio del singolo essere umano allora sì, però possiamo andare oltre e per farlo dobbiamo allargare la nostra mente e cambiare la nostra prospettiva sulla “storia”.

Dunque, con il termine “storia” si inizia a parlare di storia solo nel momento in cui l’essere umano inizia a scrivere prima si parla di “Preistoria” e la materia che ne occupa è la Paleontologia.

Ma quello che era prima dell’uomo non è storia?

Forse dobbiamo uscire dalla nostra visione “antropocentrica” della storia per poterla comprendere meglio e poter spiegare tutta la sua complessità ai nostri studenti, perché si possa fare partiamo da un singolo evento, anche minimo e chiediamoci, come è iniziato tutto? In breve arriveremo a costruire uno “schema scientifico” che va dall’antropologia alla fisica, passando per altre materie che ci possano aiutare a “superare” la visione della storia come materia vuota, chiusa in sé stessa, come semplice materia dove bisogna ricordare due date in fila.

Stili di apprendimento, psicologia dietro la cattedra

“Stili di apprendimento” che cosa sono esattamente e come possono essere utilizzati al meglio da un docente? 

Prima di di iniziare a scrivere vi dico subito che non ho la pretesa di essere il migliore dei docenti ma semplicemente di condividere con quanti sono interessati alla formazione del corpo docente di fornire qualche indicazione su quella che è la mia esperienza “pratica” ed in qualche caso anche “teorica” del lavoro di insegnante. 

Spesso si è pensato che insegnare fosse semplicemente entrare in classe fornire una serie di nozioni agli studenti e che tutti potessero apprendere allo stesso modo, se non apprendevano erano loro a sbagliare di certo non era il metodo di approccio dell’insegnante ad essere errato. 

Quando si insegna bisogna sempre cercare di tenere da conto che ogni studente è una persona ed ogni persona apprende le cose in modo diverso rispetto ad altri.  Per questo la didattica recente ha elaborato un modello che viene definito di stili di pensiero utili per comprendere come apprendono gli studenti e quali possono essere i diversi approcci per diversi stili. 

Innanzi tutto andiamo nel dettaglio cosa intendiamo esattamente con il termine “stile di pensiero”? 

Uno stile di pensiero è un modo di pensare preferito. 

In qualità di individui non abbiamo un solo stile ma quello che viene definito “un profilo di stili”. 

Per questo motivo la didattica ha elaborato quella che possiamo definire una “teoria dell’autogoverno mentale” che cosa vuol dire esattamente? 

L’idea alla base della teoria dell’autogoverno mentale è che le forme di governo nel mondo non siano solo una mera coincidenza ma sono una forma di analogia tra l’organizzazione della mente del singolo e la nostra società. 

Per spiegare meglio il concetto utilizzeremo una terminologia “politica” o per meglio dire una terminologia legata alla forma di governo. 

Un Governo deve svolgere tre funzioni: 

  1. ESECUTIVA 
  2. LEGISLATIVA 
  3. GIUDIZIARIA. 

Applicando lo stesso criterio alle persone possiamo fare una suddivisione più o meno simile. 

PERSONE LEGISLATIVE

Possiamo raggruppare all’interno di questo gruppo quelle persone a cui piace fare le cose a modo loro, ovvero preferiscono stabilire da sole “cosa devono fare” e soprattutto “come farlo”. 

All’interno di questo gruppo possiamo mettere creativi, grafici, e tutte quelle cose che hanno a che fare con la “fantasia”- Questo stile tende a favorire la “creatività” rispetto alla “praticità”. 

PERSONE ESECUTIVE

Rientrano in questa categoria tutte quelle persone che sono propense a seguire le regole. Amano “colmare lacune nelle strutture esistenti” piuttosto che creare, potremmo dire che in questo gruppo rientrano avvocati, dirigenti, politici e tutti quei mestieri in cui si necessita di un “ordine mentale preciso”. 

PERSONE GIUDIZIARIE

All’ultima categoria appartengono tutte quelle persone a cui piace valutare le regole e le procedure, che tendono a preferire problemi che si possono analizzare e che possono essere considerati come esistenti. In questa categoria possiamo mettere storici, filosofi, matematici, fisici. 

Ad ognuno di questi stili corrisponde una tipologia di persona, per la precisione ne abbiamo tre: Monarchica, gerarchica, oligarchica, anarchica andiamo a vedere nel dettaglio le caratteristiche di queste tre persone: 

PERSONA MONARCHICA

Si tratta di un individuo risoluto, che si lancia nelle imprese con tutto sé stesso in qualunque impresa o interesse e che tende a non permettere a nessuno di frapporsi tra lui e la risoluzione del problema. 

PERSONA GERARCHICA

Ha una gerarchia di obiettivi e riconosce la necessità di stabilire delle priorità, dato che non tutti gli obiettivi possono essere raggiunti, o per lo meno non essere raggiunti equamente bene. 7

PERSONA OLIGARCHICA

Assomiglia per molti versi alla persona gerarchica nella misura in cui desidera fare più di una cosa nello stesso cornice temporale, ma a differenza di queste, possono essere motivate da diversi obiettivi. 

PERSONA ANARCHICA

Sembra essere motivata di un miscuglio di bisogni e degli obiettivi che può risultare distinguere tanto a lei quanto agli altri. 

Ognuno di questi stili racconta di una persona con un proprio stile di apprendimento ed ognuna di queste persone ha dunque dei bisogni specifici per apprendere al meglio e sfruttare le proprie potenzialità. 

Per sfruttare al meglio le potenzialità di ogni individuo ovviamente un bravo insegnante dovrebbe innanzi tutto conoscere queste tipologie di persone e poi cercare di valorizzare le capacità specifiche di ogni studente. Perché questo sia possibile è necessario innanzi tutto che il docente deve essere anche un po’ psicologo per comprendere come ogni studente apprende ed allo stesso tempo deve anche avere una capacità di intervenire sui bisogni di ogni singola persona. 

Torneremo ancora sull’argomento “stili di apprendimento” e “tipologia di persone” provando ad elaborare per ogni stile un proprio stile di apprendimento, ricordando che non si tratta di un modello assoluto e generale e che non vuole assolutamente avere un intento polemico ma solo didattico e pedagogico. 

“Valore legale del titolo di studio”, facciamo un poco di chiarezza

Oggi è uscita su Repubblica online l’articolo di una recente intervista a Salvini dove il Ministro parla di una presunta riforma della scuola e dell’università dove viene abolito il valore legate del titolo di studio, ma cosa vuol dire esattamente “abolizione del titolo di studio?”.

Abolire il valore legale del titolo di studio vuol dire innanzi tutto che una laurea in Legge è l’equivalente di una laurea in Lettere.

Questo però è solo l’aspetto meno grave della questione.  Visto che un titolo equivale ad un altro – essendo per esempio presa la laurea all’università di Reggio Calabria senza alcun valore legale rispetto ad una presa per esempio all’università di Bolzano – discriminante per l’assunzione ad un concorso pubblico potrebbe diventare ad esempio non più il titolo di studio la l’Università di provenienza, e non più come già avviene adesso lo specifico valore della laurea che tiene conto – per esempio del voto – e di tutte le altre componenti giuridiche.

I sostenitori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio spingono proprio su questo punto perché a quel punto gli atenei sarebbero costretti a farsi concorrenza tra loro, dato che sarebbe compito del mercato selezionare le persone più in gamba e professionisti del settore.

Ancora: secondo i promotori, compito dello Stato dovrebbe essere quello di stilare una graduatoria delle università migliori in modo che quando lo Stato ha bisogno di attingere al personale delle sua amministrazioni lo faccia non sulla base del voto conseguito – che sino a questo momento ha messo tutti sullo stesso piano tutti i candidati ed i loro rispettivi atenei, ma in relazione all’università di provenienza.

Possiamo esemplificare ulteriormente questa situazione: un ateneo catalogato dall’ANVUR (Istituto di Valutazione delle Università) centesimo garantirebbe che i suoi avvocati sono da considerare superiori a quelli di un ateneo classificato 150 perché la preparazione sarebbe migliore e quindi sarebbero avvantaggiati in partenza. Per essere ancora più chiari (e ragionando sui nomi) potremmo dire che un laureato alla Bocconi con 100 sarebbe superiore (solo perché proviene dalla Bocconi) ad un laureato con 110 all’università di Reggio Calabria).

La parola d’ordine di questo sistema sarebbe insomma concorrenza, infatti per ottenere un ranking superiore le università dalle agenzie di valutazione le università sarebbero costrette a pagare meglio i propri insegnanti scegliendo tra i migliori per aumentare il proprio ranking. Infatti l’unica concorrenza possibile a quel punto sarebbe spostata solo sul delicato versante della docenza, dei professori migliori che verrebbero cooptati e blanditi con la promessa di stipendi più alti e non più su quello della parentela, dell’amicizia e della clientela.

Questo sistema – senza dubbio incentrato su un criterio molto più meritocratico degli attuali criteri di selezione – però ha un grosso ma: la creazione di università di serie A,B,C e oltre – insieme all’aumento esponenziale delle tasse in quelle università ritenute migliori creerebbe una sorta di selezione naturale basata non più sulla bravura effettiva e sulla voglia di riscatto dei ceti sociali meno abbienti. Ad essere danneggiati da questo sistema sarebbero soprattutto gli studenti delle università del Sud Italia, dove il reddito procapite e le sedi universitarie non sono particolarmente floride.

Una proposta avanzata è stata quella di copiare il modello americano, dove – una volta abolito il valore legale del titolo di studio – l’implementazione di Agenzie o di Associazioni professionali che avrebbero il compito di validare la laurea attraverso un esame specialistico. Molti di coloro che sono a favore fanno comunque notare che alcune lauree – come ad esempio medicina, ingegneria, architettura e quei diplomi che hanno a che fare con alte specializzazioni professionali – potrebbero rimanere fuori dalla riforma anche perché sarebbero competenze non assimilabili ad altre.

Recuperare il messaggio di Marx (ed essere attuali)

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Sono anni che la sinistra si scervella su come si possa “superare Marx”, su come si possa conciliare una qualche ideologia di sinistra con un capitalismo sempre più turbo e sempre meno vicino ai bisogni delle persone.

Sembra quasi che il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica abbia dimostrato non solo il fallimento dell’esperimento sovietico, ma abbia dimostrato che l’intero impianto marxista fosse destinato al fallimento.

La fine del sogno sovietico e la conseguente impossibilità di “superamento della fase capitalista della storia” ha portato la sinistra in tutta Europa ad abbandonare le idee marxiste per andare ad abbracciare una dottrina liberista nella speranza di dare vita ad un “liberismo dal volto umano”.

Inutile dire come questo esperimento si sia nel corso del tempo dimostrato essere un fallimento su tutta la linea: il sistema liberista – impostato interamente su una visione individualista della società – ha di fatto portato alla nascita di storture sempre più evidenti nella società ed ad un sostanziale aumento delle differenze di classe, dove classi più ricche sono diventate sempre più ricche mentre quelle che un tempo erano le classi povere sono diventate più povere. Non solo, la crescita esponenziale dei costi della vita ha fatto sì che quella che un tempo era considerata “classe media” venisse con il passare del tempo assimilata ai “poveri” aumentando di fatto il conflitto di classe invece che risolverlo.

Sebbene oggi posso comprendere sia oggettivamente difficile parlare di “padroni” e di “proletariato” bisogna ammettere che quello che Marx alla fine dell’Ottocento definiva “lotta di classe” è tutt’altro che risolto, anzi per molti versi è stato esteso a quelle classi sociali che un tempo erano definite intellighenzia ed avevano il compito di produrre il sapere di una società.

Oggi stiamo assistendo ad una precarizzazione del mondo del lavoro sempre più evidente, un percorso iniziato nel lontano 2001, quando si iniziò a parlare anche in Italia di “flessibilità nel mondo del lavoro”. Flessibilità che è stata in breve trasformata in “precariato”. Inoltre abbiamo visto un aumento sostanziale di quello che possiamo definire “conflitto di classe” o “conflitti di classe”, dove per conflitti dobbiamo intendere tutte le forme di discriminazione e sfruttamento portate avanti da una società capitalista come quella attuale.

Le differenze di razza, colore, orientamento sessuale e spesso religione sono sempre più spesso alimentate da un sistema che crea povertà e creando povertà aumenta anche il conflitto sociale dando vita ad una vera e propria guerra tra poveri con la complicità delle classi dirigenti che quella guerra tra poveri cercano di alimentarla soffiando sul fuoco delle differenze.

Le lotte da portare avanti sono tante, molte diverse tra loro, ma hanno tutte necessariamente lo stesso obiettivo: superare un sistema perverso dove il 99% della popolazione resta soggetto alle decisioni del 1%. 

Perché questo sistema possa essere superato è necessario recuperare il messaggio lanciato da Marx nel 1848, quando parlava della costruzione di una società fondata sulla giustizia sociale e sulla completa assenza delle differenze di classe.

Per quanto ci sia stata la volontà di far passare il messaggio marxista come “antico” e superato dalla società attuale in realtà possiamo affermare che mai come oggi la lezioni (anzi “le lezioni”) di Marx in materia economica, monetaria e finanziaria si sono rivelate tanto esatte.

Recuperare Marx non significa – come molti credono – riportare indietro le lancette dell’orologio dicendo cose impossibili da attuare o “antiche” come dicono molti, facendo leva su un anticapitalismo che ripropone modelli di società superati dall’evoluzione della società umana e storica, tutt’altro.

L’ideologia marxista propone un modello di società basato sull’uguaglianza sostanziale a partire dalle condizioni lavorative, stabilite quelle tutte le altre differenze (derivanti dalla razza, dalla religione, dall’orientamento sessuale) sono destinate a sparire perché le condizioni lavorative sono identiche per tutti ed annullano quelle che sono le differenze di classe. Questo passaggio ovviamente nel pensiero marxista rimane una pura teoria, per essere tradotto in prassi è necessario che tutte le comunità in lotta per i loro diritti si uniscano per “superare la fase capitalista della società” e proprio in questa fase allora che il marxismo torna ad essere attuale. 

Perché questo sia possibile però è necessario tornare alla domanda che si poneva Lenin all’alba della Rivoluzione d’Ottobre, quando chiedeva (con il titolo della sua stessa opera) Che Fare? , ovvero: come fare in modo che quelle che sono le richieste e le prospettive del marxismo possono essere applicate ad una società in trasformazione come quella capitalista attuale? La domanda, che veniva posta nel 1917 rimane in parte ancora senza risposta non solo perché quel percorso elaborato da Lenin non si è mai realizzato ma anche perché in parte quel progetto rimasto abortito rimane – pur con tutte le sue criticità – un progetto ancora valido per pensare ad un superamento del capitalismo o almeno ad un suo miglioramento, per andare nella direzione di una società senza classi (avremo modo nel corso dei prossimi giorni di analizzare anche il pensiero di Lenin, per ora fermiamoci a Marx ed alle sue teorie).

Per questo ho deciso di cercare di ospitare su queste pagine (con il tempo dovuto per preparare delle sintesi adeguate ed accessibili a tutti) una serie di articoli sul marxismo, cercando insieme di spiegare quali sono le implicazioni del recupero del pensiero marxista oggi e quali possono essere le cose che andrebbero migliorate o quantomeno aggiornate al sistema attuale.

Per questa seconda parte parleremo anche di quei pensatori che dopo Marx hanno cercato di applicare le sue teorie ai mutamenti della società in cui vivevano – da Rosa Luxemburg a Herbert Marcuse – cercando di capire come il pensiero marxista sia evoluto nel corso degli anni e come pensiamo possa evolvere ancora.

 

Vediamo l’Articolo 1 della Costituzione

Iniziamo, come promesso, a pubblicare una serie di articoli per spiegare e comprendere la Costituzione Italiana.

Partiamo proprio dall’Articolo uno, tanto citato ma molto poco capito. Quello che cercheremo di fare in questa sede è portare a conoscenza non solo il testo dell’articolo ma anche provare a dare una spiegazione storica, politica e di filosofia del diritto sulle implicazioni che un articolo come l’Articolo 1 della Costituzione può avere sul nostro vivere quotidiano.

L’articolo per intero recita:

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”

Cosa ci dice esattamente il primo articolo della nostra Costituzione?

Il primo articolo della Costituzione tende a fondere le due principali caratteristiche dello Stato italiano, nato dalla guerra di liberazione: l’Italia è una Repubblica ( a norma dell’articolo 139 è la sola parte che non può essere modificata in alcun modo) ed è, grazie al suffragio universale ed alle istituzioni che vengono descritte nella II parte del testo costituzionale, una Democrazia.

Per la precisione è una Democrazia partecipativa, il cui potere appartiene al popolo, formato da tutti i cittadini, che concorrono al governo ed all’amministrazione della cosa pubblica attraverso gli istituti ed i meccanismi previsti dell’ordinamento repubblicano (in seguito vedremo quali sono questi meccanismi e quali gli organi).

Inoltre, un altro punto da mettere in rilievo è come fondamento della democrazia non sia la proprietà, con i conseguenti privilegi dello Stato Liberale, ma il LAVORO, visto come un diritto – dovere di ciascuno per il progresso personale e sociale.

In sintesi, il primo articolo è quello su cui è impostato l’intero impianto della Costituzione italiana, i due principi su cui si fonda l’ordinamento repubblicano: il principio democratico ed il principio lavorista.

Per comprendere meglio questo primo articolo della nostra Costituzione è necessario fare innanzi tutto una premessa storica: la nostra Costituzione nasce dal compromesso di diverse parti politiche – quelle che durante il fascismo guidarono la Resistenza – che volevano dare una propria impronta alla costituzione, imprimendo i suoi principi proprio a partire dall’articolo uno.

Le forze in causa erano tra loro particolarmente differenziate, e trovare un punto di accordo non era tanto facile, del resto che cosa poteva accomunare socialisti, comunisti, cattolici, liberali e populisti (su quest’ultimo termine è doverosa una leggere parentesi: il populismo è un atteggiamento politico e culturale volto all’esaltazione del popolo sopra ogni cosa, sulla base di principi ispirati al socialismo; nel dibattito politico attuale viene spesso usato con accezione negativa confondendolo con il termine demagogia).

La discussione impegnò per mesi e mesi tutti i capi dei maggiori partiti e tutti i maggiori costituzionalisti.

Il compito di trovare la sintesi tra le varie posizioni venne affidata a MEUCCIO RUINI,(Reggio Emilia, 14 dicembre 1887- Roma, 6 marzo 1970) esponente del Partito Radicale Italiano (da non confondere con il Partito Radicale  di Marco Pannella, nato da una scissione del Partito Liberale), Presidente del Comitato dei Settantacinque, il comitato che ebbe il compito di preparare la quasi totalità degli articoli prima che venissero sottoposti all’Assemblea.

Dunque, cosa decisero i nostri Padri Costituenti dopo lunga discussione? Che cosa esprime esattamente il nostro ARTICOLO UNO?

Innanzi tutto dichiara che l’Italia è una Repubblica democratica, e lo dice come prima cosa in assoluto. Quindi la Repubblica, la democrazia e l’Italia sono elementi non scindibili, esistono uno in funzione dell’altra. È bene tenere a mente questo concetto, perché si ricollega all’ultimo articolo della Costituzione,  il 139, che dice:

La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.

Quindi, dimenticatevi che si possa tornare alla monarchia, la dittatura, l’impero, il consolato, o qualsiasi altra forma che non sia pienamente democratica e repubblicana.

Sempre nell’articolo uno (al primo comma) si sostiene che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro.

Un principio altamente nobile, non c’è che dire, il quale però esprime un concetto abbastanza debole, non affermando assolutamente nulla di esplicito se non una speranza, e non obbliga lo Stato a dare lavoro a tutti. Va tenuto a mente questo aspetto, perché proprio questo ha dato vita negli ultimi anni ad una serie di fraintendimenti che si fa molta fatica a superare.

Si tratta di una sintesi ideologica di parte del pensiero comunista, socialista e popolare, osteggiata peraltro nella sua formulazione (e nel suo posizionamento) da quasi tutti gli azionisti (esponenti del Partito d’azione) e che venne ideata da AMINTORE FANFANI, uno dei massimi esponenti della Democrazia Cristiana  che in questo modo concluse un dibattito prolungato che offrì in questo modo un compromesso alla parte comunista e socialista, i quali cedettero su alcuni punti che definivano i rapporti con la Chiesa, gli articoli sulla famiglia e l’istruzione, ed al momento in cui venne votato, sul Concordato.

Molto più interessante è invece il secondo comma, quello che doveva stabilire una volta per tutte a chi appartenesse la sovranità, ovvero: chi detiene il potere decisionale nell’Italia Repubblicana?

La sovranità apparteneva al Governo? No, nemmeno per idea. Era così durante il fascismo (e così sarebbe stato in molte riforme costituzionali proposte negli anni a venire). Al Parlamento, come avviene ad esempio negli Stati Uniti? Nemmeno. Il nostro – a differenza di quello americano – non è un Parlamento federale, il quale – a differenza di quello americano – viene rinnovato ogni cinque anni.  Quindi, il vero detentore del potere, non poteva che essere lui: L’INTERO POPOLO ITALIANO.

A spiegare bene questo punto è l’onorevole GRASSI, uno dei costituenti che così scrive:

Lo Stato, che è depositario del potere di comando, lo esercita attraverso gli organi del suo ordinamento; ma questi organi sono azionati e ricevono autorità e forma dal popolo che, direttamente o indirettamente, dà ad essi tutta la capacità della sua manovra”.

Lo stesso Ruini (che abbiamo già citato in precedenza) commentò in questi termini la decisione, commentando anche le parole che si dovevano utilizzare: “La sovranità risiede nel popolo, appartiene al popolo, emana dal popolo, è nel popolo, sta nel popolo eccettera. Stanco del dibattito, io mi sono rimesso alla Costituente per la scelta del verbo. Non inopportunamente è stato scelto appartiene al popolo; mentre emana dal popolo poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”.

Anche la scelta della parola popolo non è una scelta casuale. Non si parla infatti di elettori, ma di tutti coloro che sono italiani, quindi: uomini, donne, bambini, neonati, e per alcune accezioni anche gli stranieri residenti sul nostro territorio (residenti a tutti gli effetti, è bene sottolinearlo).

Dunque, il fatto che la sovranità appartenga al popolo non deve essere un aspetto che può essere dimenticato o sottovalutato. Non sono i parlamentari o il Presidente del Consiglio a comandare: quelli sono solo i rappresentati del popolo, che hanno il compito di ascoltare e mettere in atto tutte le aspirazioni e desideri del popolo stesso.

Premesso tutto questo l’articolo uno dice anche un’altra cosa: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ovvero?

Innanzi tutto viene detto in maniera esplicita che gli strumenti e gli atti di sovranità popolare devono essere previsti dalla Costituzione e solo dalla Costituzione, e non possono essere altri se non quelli.  Nessuno dunque può aggiungerne arbitrariamente di nuovi (tipo: non potete proporre il plebiscito, cioè una consultazione popolare per far approvare un certo comportamento o decisione) e nessuno può togliere o sminuire quelli esistenti. I quali in sostanza sono:

  1. Le Elezioni: Strumento attraverso le quali tutti i cittadini maggiorenni sono chiamati a scegliere i partiti ed i candidati che formeranno le assemblee legislative e recentemente anche con la scelta diretta di chi ci amministra – quindi sindaci ed organismi regionali – ma non chi ci governa (il che trasformerebbe la nostra repubblica in un organismo direttoriale)
  2. Il referendum abrogativo: Questa forma di referendum permette ai cittadini di eliminare una legge che non piace. Non importa che la legge sia giusta o sbagliata: è solo il “gradimento” del popolo che permette di eliminarla o meno. Comunque non possono essere soggetti a referendum le leggi fiscali ed i trattati internazionali (quindi… no, non si può fare un referendum per uscire dall’euro).
  3. Il sistema giudiziario in senso lato. Le sentenze del tribunale sono emesse in nome del Popolo italiano, ed anche se questa sembra essere solo una forma retorica, è invece un costante riferimento al fatto che la giustizia vada applicata solo nell’interesse e secondo lo spirito dell’intera comunità e non per favorire una parte o l’altra della comunità. Quindi, una sentenza che non rispondesse ai principi democratici della Costituzione non sarebbe valida, perché non potrebbe essere fatta in nome del popolo italiano il quale si RIFLETTE nella Costituzione.

 

Dunque, come abbiamo visto, nell’articolo uno si parla di lavoro solo ed esclusivamente di lavoro in maniera indiretta, sono altri gli articoli che parlano esplicitamente di LAVORO, ma dovrete aspettare, perché per oggi ci fermiamo qua.

Approfitto di queste ultime righe per aver avuto la pazienza di seguirmi fino a qui. quiz-costituzione