Lavoro e salario in Italia, prospettive per il 2018

Utilizziamo un vecchio slogan sindacale per parlare di lavoro, nello specifico per parlare di precariato e lavoratori dei call center.

Secondo i dati ISTAT nel mese di dicembre del 2017 la stima degli occupati è calata dello 0,3% (-66 mila posti di lavoro) tornando al livello di ottobre, mentre il tasso di occupazione scende al 58,0% (0,2% punti percentuali).

Rileviamo che il calo dell’occupazione nell’ultimo mese interessa tutte le componenti di genere e di tutte le classi di età eccetto la fascia che riguarda gli ultracinquantenni. Risultano in diminuzione i lavoratori dipendenti, sia permanenti sia a tempo determinato, mentre rimangono stabili gli indipendenti.

Nel trimestre ottobre-dicembre si registra un lieve incremento degli occupati rispetto al periodo precedente (+0,1%, +16 mila).

La stima delle persone in cerca di occupazione a dicembre diminuisce per il quinto mese consecutivo (-1,7, -47 mila).

La diminuzione della disoccupazione interessa donne e uomini e riguarda tutte le classi ad eccezione di quella 25-49 anni. Il tasso di disoccupazione si attesta attorno al 10,8% (-0,1% rispetto a novembre), mentre quello giovanile scende al 32,2% (-0,2%).

Cresce invece la stima degli inattivi tra i 15 ed i 64 anni e cresce dello 0,8% (+112 mila), interessando tutte le età e tutte le componenti di genere. Il tasso di inattività sale al 34,8% (+0,3 punti percentuali).

Eppure a queste notizie positive è strettamente correlata una negativa: secondo i dati del Trades Union Congress (TUC), il quale ha fatto una analisi partendo dai dati OCSE, è prevista in Italia una progressiva decrescita dei salari, ma vediamo nel dettaglio cosa dice l’analisi.

L’analisi riguarda il salario reale, ovvero la quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare con il suo stipendio, che si traduce con nel suo POTERE DI ACQUISTO.

Il salario reale viene calcolato sulla base del rapporto tra salario nominale (la quantità di moneta ricevuta come stipendio) e l’inflazione.

Questo calo ci sarà nonostante in Italia nel 2018 entrerà in vigore il nuovo contratto del pubblico impiego che prevede un aumento di stipendio di 85 euro lordi per tutti gli statali. L’aumento però rischia di non essere sufficiente per far fronte all’inflazione: i prezzi dei beni di servizio cresceranno ben più dei salari con la conseguente decrescita del valore salariale.

Il motivo di questo calo non è da attribuire all’ingresso nell’Unione Monetaria (anche in virtù del fatto che in altri Paesi dell’UE i salari sono destinati a crescere nel 2018). Secondo Luigi Marattin, consulente economico della Presidenza del Consiglio il problema è lo stretto legame tra i salari medi e la produttività del lavoro (ossia la quantità di cose che vengono prodotte in un Paese in un anno in rapporto al numero ed alle ore) con quest’ultima che dal 1996 è cresciuta solamente del 5,8%. A questo punto è necessario porsi una domanda: perché la produttività del lavoro non cresce in Italia?

Una risposta la fornisce NICOLA BORRI, economista della LUISS di Roma, che nel 2016 ha affrontato la questione in un’intervista rilasciata all’Ansa.

Secondo l’analisi di Borri si possono identificare due motivazioni che rallentano la produttività italiano: l’arretratezza della tecnologia e la totale o quasi mancanza di specializzazione del nostro Paese in settori – come ad esempio la moda ed il turismo – che risultano essere meno trainanti di altri più tradizionali come ad esempio la meccanica.

Dunque una soluzione potrebbe essere proprio questa: incrementare gli investimenti nel settore meccanico, chimico o manifatturiero dove gli effetti della tecnologia sono più evidenti, e fare in modo che facciano da traino per tutti quei settori che devono crescere.

Parallelamente è necessario migliorare la qualità del lavoro.

Perché questo sia possibile è innanzi tutto necessario ripartire dalla formazione universitaria – visto che tra i Paesi OCSE l’Italia risulta essere quello con la percentuale di laureati più bassa nella fascia d’età 25-64 anni.

Un suggerimento per il prossimo governo, che avrà il compito di riportare i salari medi ai livelli pre-crisi del 2008.

(I sull’aumento salariale sono presi dal sito Money.it mentre la prima parte è stata presa dal sito dell’Istat)

Crowdfunding, uno strumento per trovare finanziamenti

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Ogni volta che si inizia un progetto, una campagna elettorale o una app la prima cosa che ci si chiede è: come e dove trovo i fondi per la mia campagna?

Uno dei metodi più semplici ed allo stesso tempo più efficaci per trovare finanziamenti è il Crowdfunding parola inglese composta da crowd (letteralmente “folla”)che fornisce somme di denaro da investire in un progetto funding.

Nel crowdfunding il progetto no deve per forza essere imprenditoriale, può anche essere un progetto benefico (per esempio la raccolta funghi di una pagina elettorale). I soldi che vengono versati dalla folla sono “donazioni”; chi conferisce denaro al massimo può ottenere una ricompensa ma niente di più.

Esiste anche una forma diversa di crowdfunding, dove i soldi versati sono considerati come dei veri e propri investimenti. In questo caso il finanziatore acquisisce quote o azioni (equity) diventando in questo modo socio dei fondatori.

Questo comporta che il promotore (cioè colui che richiede i soldi) può essere esclusivamente una società di capitali.

Come la sua versione meno “finanziaria” anche l’equity crowdfunding avviene online sebbene solo su portali regolati dalla Consob. 

Come posso sapere a chi rivolgermi? 

La società interessata a raccogliere fondi deve rivolgersi ad un portale autorizzato e sotto la vigilanza della Consob. Si tratta di piattaforme online che di solito fanno da intermediari tra le startup e gli investitori soprattutto nella raccolta dei capitali di rischio. Viene stipulato un contratto di servizi ed il portale lancia la campagna. Se la campagna va a buon fine la piattaforma riceverà un pagamento ottenuto dalla percentuale del capitale raccolto (di solito il 5%).

Chi frequenta i portali di equity crowdfunding sono di solito investitori con ingenti risorse economiche e l’investimento medio è intorno ai 9500 euro anche se non è difficile trovare anche investimenti di 2000 euro. Gli investitori dell’equity crowdfunding sono dei veri e propri “business angel” disposti a spendere capitali su progetti validi, per cui chi presenta il progetto deve essere il più accurato possibile nella presentazione di un business plan ed un minimo di documentazione societaria. Sarebbe meglio anche presentare una documentazione che dimostri la fattibilità del progetto: non è possibile proporre un progetto che non sia stato sufficientemente analizzato. Tante idee innovative sono ben lontane dall’essere finanziabili. 

Prima di fissare una cifra da richiedere è necessario avere un business plan ed innanzi tutto essere a conoscenza  di una serie di parametri:

  1. Valutazione aziendale 
  2. Bisogno di cassa
  3. Redditività

 

Di solito si fissa un obiettivo massimo ed uno intermedio. Se questo obiettivo non viene raggiunto i soldi vengono  restituiti e la startup non ne entra semplicemente in possesso. Va fissato sempre anche un Obiettivo massimo per  esempio di dare via tra il 35 ed il 45% del Capitale sociale.

Questa forma di finanziamento non è per tutti: è riservata a chi ha un progetto pronto per il mercato o prossimo all’avvio del fatturato.

Va ricordato che una strategia di marketing efficacie ed adeguata va studiata a fondo in termini di promozione, perché non sempre i finanziatori sono competenti in materia e sanno di cosa si sta parlando e vanno “conquistati” e con una buona campagna di marketing si ottengono maggiori risultati in termini di promozione.

UNA CAMPAGNA INADEGUATA può causare un danno di immagine notevole per l’azienda oltre che creare un danno economico. 

In Italia questa forma di finanziamento è ancora in fase di sviluppo e di crescita: al momento sono 12 i progetti capitalizzati, per un totale di 3,4 milioni di euro (fonte Millionaire n. 3 Marzo 2016). 

Nonostante sia un mercato ancora agli inizi il success rate è del 44% mentre nel resto del mondo è fermo al 10. Il che significa che in Italia quasi un progetto su due ottiene i finanziamenti ed il capitale richiesto.

Niente male per un Paese che viene considerato “fermo”.