A proposito di flat tax

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In una campagna elettorale dove sembra vigere la regola del “chi la spara più grossa” una delle cose chiare è che il centrodestra ha incentrato buona parte della sua campagna sulla possibilità di introdurre la Flat Tax una volta arrivata al Governo, ma di cosa si tratta esattamente?

Presentata come una tassa che eliminerebbe di colpo l’evasione fiscale in realtà nessuno ha ancora spiegato esattamente che cosa sia esattamente questa flat tax e che effetti potrebbe avere sulla nostra economia.

Iniziamo dalla storia: la flat tax (o tassa forfettaria in italiano) è un sistema fiscale proporzionale e non progressivo se non accompagnato da deduzione o detrazione, anche se l’aliquota legale è costante, l’aliquota media è crescente.

Solitamente tale sistema si riferisce ad una imposta sul reddito familiare, talvolta estesa ai profitti delle imprese, tassate con aliquota fissa. La tassa venne ideata per la prima volta nel 1956 dall’economista statunitense Milton Friedman.

Le flat tax non sono particolarmente comuni nelle economie avanzate, le cui tasse nazionali includono quella che viene definita aliquota progressiva sui redditi e sulle famiglie, e sugli utili delle aziende, di modo che l’aliquota aumenti aumenta in percentuale all’aumentare del reddito.

Innanzi tutto per capire le differenza tra l’attuale tassazione in Italia (basato sulla progressività) e la flat tax è necessario prima di tutto fare una panoramica storica sul sistema di tassazione e proprio sulla flat tax.

Iniziamo dicendo che il “principio di progressività” della tassazione ha origini molto antiche ed è stato accettato ormai dalla maggior parte delle Costituzioni dei Paesi democratici occidentali, nonostante sia stato sottoposto ad una serie di revisioni che sempre più lo hanno avvicinato ad un modello di tassazione simile alla Flat Tax.

Il problema del determinare quale possa essere il “principio dell’ottima progressività”, ovvero il criterio logico che decide la progressività dell’aliquota (che percentuale e per quali scaglioni di reddito), è stato argomento di dibattito per gli economisti del 1800-1900.

Il problema si pone per la prima volta – in tutta la sua evidenza – nella Firenze dei Medici, in cui la tassa principale, definita “decima scalata”, sulla proprietà di maggior valore per le classi più abbienti era talmente tanto alta, che era molto più conveniente vendere per non pagare l’imposta. La totale discrezionalità utilizzata dalla famiglia Medici nella determinazione delle aliquote, veniva tradotto in un uso arbitrario della tassazione, soprattutto per indebolire i loro avversari politici.

Durante la presidenza di George W. Bush alcuni economisti americani, tra cui Robert Hall ed Alvin Rabushka, proposero, poco dopo l’approvazione del taglio di tasse approvato dal Presidente, di sostituire il sistema fiscale allora vigente in quell’epoca una flat tax con aliquota al 17,5%: se questa proposta fosse diventata legge il 62% dei contribuenti avrebbe guadagnato denaro rispetto al sistema precedente su base progressiva. Tale percentuale salirebbe di molto se si considera che le due aliquote più basse al tempo dell’amministrazione Clinton erano del 15% e del 28% (quella massima era invece del 27% al tempo del Presidente Reagan).

Tale proposta è basata sull’eliminazione di tutte le esenzioni, detrazioni e deduzioni vigenti per fare in modo di allargare il più possibile la base imponibile, sino ad includere l’intero PIL (Prodotto interno Lordo) nazionale: solo in questo modo è possibile ottenere un gettito uguale (o superiore, se si considera l’emergere di quel fenomeno definito economia sommersa) con una sola aliquota e si potrebbe anche rafforzare la democrazia in quanto – purtroppo va detto – alcune esenzioni sono state create dietro la spinta – non sempre pulita e chiara – delle lobby o associazioni di categoria e non nell’interesse della collettività dei contribuenti.

Inoltre alcuni economisti hanno sostenuto la possibilità di creare la creazione di una “no tax” area per esentare i più poveri e per far scendere di fatto quella che era l’aliquota reale sui poveri per la classe media: in questo modo viene creata progressività per deduzione e non per aliquote o scaglioni che danneggia il risparmio e gli investimenti.

Va ricordato tuttavia che una redistribuzione del reddito può esserci tanto con una flat tax quanto con un sistema di tassazione progressiva: l’efficacia della redistribuzione dipende infatti dall’efficienza della spesa pubblica e non dal sistema di tassazione in vigore. La flat tax offre sicuramente dei vantaggi nel breve periodo si ha una penuria di entrate ed i politici sono costretti a decidere se non è il caso di tagliare le spese utili (ad esempio gli aiuti alle famiglie numerose) o quelle inutili (come ad esempio i contributi a fondo perduto a favore di questa o di quella lobby) per raggiungere il pareggio in bilancio.

Veniamo al caso italiano: il sistema di tassazione in Italia è regolato dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 53:

“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

(ART. 53 COST.)

Sul piano fiscale il 1° gennaio del 2004 (Governo Berlusconi) è entrata in vigore l’imposta sul reddito delle società (IRES) al posto dell’IRPEG; con l’occasione l’aliquota unica preesistente venne ridotta dal 34% al 33%. Ulteriori riduzioni ci sono state nel 2008 (27,5%) e dal 2017 (24%).

Il primo a parlare in Italia di flat tax fu proprio Silvio Berlusconi nel 1994, quando propose una flat tax al 33% con una no tax area per i più poveri al posto dell’IRPEF progressiva.

Il successivo Governo Berlusconi (2001-2006) portò avanti un piano di riduzione delle tasse, abbassando la pressione fiscale al 40,6% nel 2005, il taglio venne però finanziato attraverso un condono fiscale tombale con l’aumento del deficit pubblico, che nel 2005 era salito al 4,4% in violazione dei parametri di Maastricht.

Nel 2005 l’idea di una flat tax venne proposta da Marco Pannella, il quale con i Radicali Italiani propose una flat tax al 20%. Nel 2008 fu la Destra – Fiamma Tricolore che propose ancora una volta di introdurre una flat tax al 20% comune a persone giuridiche e fisiche. Data la situazione dei conti pubblici però si decise di dare precedenza alla riduzione dell’IRES dal 27,5% al 20%, pensando fosse possibile applicare la flat tax nel medio e lungo periodo dell’azione di Governo. Passiamo ora ad analizzare quelli che sono gli aspetti tecnici dell’aliquota.

Quanti sarebbero i contribuenti interessati?

Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze i contribuenti IRPEF dell’anno fiscale 2015 – il dato più recente disponibile – sono 40,8 milioni. Di questi non tutti pagano l’IRPEF, la principale tassa sul reddito, la principale tassa sul reddito: quelli che dichiarano un’imposta netta sull’IRPEF sono 30,9 milioni quindi il 76% dei contribuenti.

Circa 10 milioni di soggetti hanno quindi un’imposta pari a zero, e sono quindi contribuenti con livelli reddituali talmente bassi da venire esonerati o che hanno abbastanza detrazioni da azzerare l’imposta lorda. Essi non sarebbero naturalmente toccati dall’introduzione della flat tax. Per i restanti 31 milioni di italiani? L’introduzione di una aliquota pari al 23%, la più bassa oggi in vigore, avrebbe un impatto solo su coloro che ad oggi hanno un reddito superiore a 15 mila euro (quindi con uno stipendio medio di 1250 euro mensili) visto che chi ha un reddito inferiore a quella cifra paga appunto il 23% di Irpef.

Nel 2015 i contribuenti con un reddito superiore a 15 mila euro erano 22,2 milioni, ovvero il 54% del totale. Per questa categoria le aliquote sono del 27% (per i redditi tra i 15 mila ed i 28 mila euro), del 38% (per i redditi tra i 28 mila ed i 55 mila euro) e del 41% (per i redditi tra i 55 mila ed i 75 mila euro)  e del 43% per quelli superiori ai 75 mila euro (per la cronaca, questa fascia di contribuenti riguarda soprattutto i super manager, dato che parliamo di una fascia con uno stipendio medio di 6250 euro mensili).

Facendo dunque una prima approssimazione possiamo dire che la flat tax al 23% avrebbe un impatto significativo solo sulla metà dei contribuenti (ovvero quella più ricca).

Quanto verrebbe a costare la Flat Tax?

Per quanto Silvio Berlusconi sostenga che si ripaga da sé, le cose non stanno esattamente così.

Con una flat tax al 20% con una no tax area fino ad un reddito di 13 mila euro l’impatto sulle casse dell’erario sarebbe intorno ai 95 miliardi di entrate, molto lontana come cifra dai 30-40 milioni indicate da Berlusconi come mancate entrate.

Le minori entrate sarebbero tuttavia (sempre secondo Berlusconi) compensate da una notevole emersione dell’evasione fiscale.

Secondo LaVoce (cit. in AGI) viene indicata una cifra tra i 200 ed i 230 miliardi di capitali evasi che sfuggono al fisco. La voce si riferisce ai capitali detenuti illecitamente all’estero, a proposito di cui negli ultimi anni ci sono state diverse iniziative per favorirne il rientro.

Insomma, alla fine dei conti QUANTO CI VERREBBE A COSTARE LA FLAT TAX?

A Questo punto possiamo fare una stima di quanto ci verrebbe a costare una flat tax al 23%.

Abbiamo visto come secondo Berlusconi le minore entrate di 30-40 miliardi sarebbero compensate da maggiori entrate per una cifra pari ad un 87-100 miliardi. Anche considerando i numeri peggiori citati da Forza Italia il saldo sarebbe comunque in positivo per una cifra pari a 47 miliardi.

Il Sole 24 Ore stima un costo di 40 miliardi. Anche prendendo per buona l’ipotesi meno dispendiosa, ovvero quella dei 40 miliardi, e l’emersione della metà dei capitali come pronosticato da Forza Italia resterebbero almeno 20 miliardi di coperture da trovare.

Guardandola insomma da ogni punto di vista, non solo le casse dello Stato non guadagnerebbero 47 miliardi, come sostiene Berlusconi, ma si troverebbero al contrario a dover fronteggiare entrate inferiori per una cifra che oscilla tra i 20 ed i 70 miliardi.

Altro problema, la Costituzione

L’ultimo aspetto da prendere in considerazione, al di là dei numeri è quello della Costituzione. Abbiamo già accennato come la Costituzione italiana parli di “progressività dell’imposta”.

Una tassa unica al 23% per tutti i cittadini e le imprese sarebbe in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione perché consentirebbe alla fetta più ricca di popolazione di pagare la stessa percentuale di tassa di chi guadagna molto meno.

Conclusione

La flat tax esiste in diversi paesi del mondo, ed i molti di essi dopo la sua introduzione c’è stata una forte crescita economica. Con poche eccezioni però va ricordato che si tratta di Paesi che erano da poco usciti dall’economia pianificata sovietica che pertanto avevano la necessità di riformare sistemi di riscossione in grave difficoltà.

Per quello che riguarda l’Italia: nonostante le cifre riportate da Berlusconi le cifre non si discostano molto da tutte le altre stime.

Il tutto ovviamente senza dimenticare il problema di come introdurre una norma che rischia di violare in maniera palese il criterio di progressività fiscale previsto dalla Costituzione. (la maggior parte dei dati e delle analisi sono state prese dal sito di ABI)

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Se l’Europa tratta con il Cremlino

Sarà forse per effetto della possibilità di uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, sarà perché ci si è resi conto che la Russia è il partner principale del commercio dell’Unione Europea è che il più naturale fornitore di energia all’Europa (sicuramente più degli Stati Uniti) fatto sta che al forum di San Pietroburgo abbiamo assistito ad un riavvicinamento se non politico almeno economico tra Unione Europea e Federazione Russa.

Il messaggio lanciato da Putin all’Europa è stato chiaro, ed un messaggio di disgelo. Il Presidente russo chiede di guardare oltre la crisi ucraina (di cui non parlerò in questa sede perché ci sarebbero troppe cose da scrivere e si correrebbe il rischio di fare analisi superficiali dettate dall’emozione invece che dalla pura analisi) e non solo: il nocciolo del suo discorso era quello di riprendere il dialogo economico tra i due blocchi, dialogo che sarebbe conveniente per entrambi non fosse altro perché la Russia è il più grande esportatore di energia sul continente europeo ed il primo tra i blocchi commerciali al mondo di cui abbiamo assoluto bisogno.

Sono passati due anni dall’embargo alla Russia, due anni dalla guerra asimmetrica in Ucraina e dell’annessione forzata da parte della Russia della Crimea. Dopo due anni il Forum di San Pietroburgo torna ad essere la Davos europea, dove impresa e politica si incontra per poter stabilire una relazione economica e politica e riprendere un dialogo che con ogni probabilità non è mai nemmeno partito.

La Guerra Fredda è finita con il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’URSS e la finanza pare essersene resa conto prima della politica. Basti considerare che al Forum di San Pietroburgo, anche contro il parere della Segreteria di Stato americana era presente anche il gran capo della Exxon Mobil,  REX TILLERSON e l’amministratore delegato della Eni PAOLO DESCALZO il quale ha parlato di “un’occasione di disgelo”.

Forse però al di là di tutti i contratti e le trattative a dare maggior risalto al Forum (e fare maggior effetto sui mercati e sulla politica) sono state le parole di JEAN CLAUDE JUNCKER (in linea con quanto detto da MATTEO RENZI).

Il Capo dell’Unione Europea sarà accolto oggi come ospite d’onore della manifestazioni con tutti gli onori dalla Presidenza Russa. Juncker ha detto “parlare con la Russia è una questione di buon senso ,io sono qui per costruire ponti”. Nonostante l’UE non abbia nessuna intenzione di ritirare le sanzioni per la questione ucraina, il fatto che si sia riaperto uno spiraglio per il dialogo tra le due potenze è un segnale che non va sottovalutato nel futuro della strategia dell’Unione Europea per uscire dalla crisi in cui ormai versa da almeno dal 2008 e che sembra aggravarsi invece che migliorare la situazione.

Insomma, nessuna illusione sulla difficoltà della ripresa di un dialogo politico ma la ripresa è possibile se tutte e due i blocchi faranno la loro parte in questo dialogo. Gli accordi firmati con la Russia hanno valore di 1,4 miliardi di euro a cui andranno aggiunti quelli del memorandum di intesa (Fonte Il Corriere della Sera di venerdì 17 giugno).

Un passo avanti a cui come detto ne dovranno seguire molti altri ma che aprono uno spiraglio necessario all’Europa per venire fuori dalla crisi.

Cercheremo di seguire passo passo questa ripresa del dialogo, con la speranza che le due parti trovino altri margini di dialogo, perché sono e resto convinto che la Russia sia per l’Europa senza ombra di dubbio un partner privilegiato, tanto per quanto riguarda le questioni economiche quando per quando riguarda la soluzione delle questioni di politica internazionali, soprattutto per quello che riguarda la gestione del difficile rapporto con il Medio Oriente.

Emirati Arabi, il nuovo Medio Oriente

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Esiste un posto in Medio Oriente dove il crollo del prezzo del petrolio si sente meno che in altri Paesi della stessa zona.

Mentre in Arabia Saudita si teme il crollo del prezzo del greggio (l’economia saudita si basa praticamente solo ed interamente sul petrolio), sono gli Emirati Arabi, unico paese del Golfo Persico a non essere impensierito del crollo del prezzo del greggio a barile a 30 dollari.

Gli Emirati sono il quinto produttore di petrolio e gas, terzo al mondo per riserve di idrocarburi.

Attraverso una visione politica ed economica più oculata rispetto agli altri Paesi del Golfo Persico, portata avanti da Zayeb Bin Sultan al Nahyan e del figlio di Khalifa (che è succeduto alla morte del primo nel 2004) basata sul diversificare gli investimenti, gli Emirati sono riusciti a diventare da piccolo paese una vera e propria potenza mondiale, patria del lusso e dell’alta finanza.

Oggi il petrolio pesa sul PIL dello Stato solo per il 22%.

Metà del PIL degli Emirati Arabi Uniti è interamente basato sui servizi, anche grazie ad una legislazione più tollerante e più snella ed una tassazione basata su regimi fiscali che incentivano l’afflusso di investimenti stranieri.

Una vera e propria terra promessa per gli scambi commerciali insomma.

Terra cosmopolita nel quale gli italiani sono arrivati in notevole ritardo rispetto al resto del mondo – come riportato da Capital di aprile nell’intervista al Segretario Generale della Camera di Commercio Mauro Marzocchi che afferma:

Prima della fine degli anni Novanta-Duemila gli imprenditori italiani non sapevano nemmeno dove fosse Dubai. Adesso continuiamo a registrare un tasso di crescita rapidissimo. Il 2015 è stato il periodo di importazione più fertile da sempre per le esportazioni italiane negli Emirati. 

Quasi tre miliardi di euro nel mese dell’anno trascorso.

Oggi come oggi le imprese italiane sono al settimo posto tra i Paesi  fornitori ed al terzo tra quelli europei.

Una tendenza continua a crescere – grazie soprattutto all’esportazione dei beni di lusso come la gioielleria (23,5% delle esportazioni) . Le opportunità comunque si conquistano in loco, e lo dimostra la seconda voce di export, i macchinari (che pesano per il 23%).

Insomma, pare che la tecnologia italiana piace, ed il fatto che gli Emirati abbiano bisogno di una rete di trasporti, aeroporti più efficienti, strutture recettive all’altezza. L’acceleratore di tutto questo ovviamente è la preparazione di Expo 2020. Questo vale tanto per i grossi contractor quanto per le piccole e medie imprese che possono essere interessate ad investire in quelle zone.

Sfruttare il made in Italy classico, che soprattutto negli Emirati Arabi hanno dimostrato di saper apprezzare è un modo per l’Italia di costruire una interessante partnership  con una potenza in continua crescita, cosa che non può che far bene alla crescita economica dell’Italia ed al suo prestigio internazionale