Tutte le strade portano a Roma…

Il famoso detto “Tutte le strade portano a Roma” non era semplicemente un modo di dire ai tempi della Roma Antica.

Generalmente i Romani con il termine Via intendevano le strade extraurbane che partivano da Roma e collegavano tutte le provincie dell’Impero.

Come venivano scelti i nomi delle strade nella Roma Antica?

C’erano diversi modi per scegliere i nomi delle strade: a differenza di quello che avviene oggi (dove i nomi delle strade sono più che altro un omaggio a personaggi famosi siano essi politici o scrittori) i Romani avevano un modo piuttosto pratico per indicare i nomi delle vie.

Principalmente il nome di una via veniva scelto seguendo tre criteri: poteva essere il nome della destinazione finale della strada (come ad esempio la Tiburtina o la Tuscolana); veniva dato alla strada il nome del console che la aveva costruita (come ad ese

pio l’Appia o l’Aurelia); infine, il nome poteva indicare il fine della strada (la Salaria, ad esempio era la “via del Sale”).

Le strade di Roma erano delle vere e proprie autostrade del tempo, il tragitto veniva studiato con la massima cura ed erano costruite in modo da poter raggiungere ogni destinazione nel più veloce tempo possibile.

Il percorso era rettilineo, gli ostacoli della natura era superati utilizzando l’ingenium: se c’era un fiume venivano costruiti dei ponti, se c’era una collina si realizzava un traforo, anche se in alcuni casi gli ingegneri decidevano di eliminare del tutto l’ostacolo, stando sempre attenti a rispettare il paesaggio, deturpandolo il meno possibile (cfr. a questo proposito di GIULIA FIORE COLTELLACCI, I segreti tecnologici dei Romani, pp. 17 e segg.).

Le strade erano abbastanza larghe da consentire il passaggio a due carri nei due sensi di marcia opposti e la pavimentazione veniva costruita in ciottoli per consentire una maggiore stabilità e drenaggio del terreno.

Le arterie principali erano addirittura costruite con pietre poligonali – il basolato – che rendeva il manto stradale “idrorepellente” in modo che i mezzi di trasporto non restassero impantanati in caso di pioggia o neve. Ai lati delle viae erano previsti marciapiedi, alberi che facevano ombra e stazioni di sosta per permettere di riposarsi e fontane dove potersi dissetare.

Le strade erano costruite per durare nel tempo, anche perché nessuno era disposto a pagare troppi sesterzi per ripararle.

Pensate solo al fatto che i lastroni della via Appia sono ancora là, mentre le strade di oggi sono ricoperte di buche.

Chi garantiva l’efficienza delle strade?

L’equivalente della nostra ANAS era il praefectus vehiculorum che aveva il compito di controllare il buon funzionamento del servizio stradale grazie a squadre di curiosi il cui compito era quello di viaggiare e segnalare eventuali disservizi.

Insomma, le strade di Roma erano particolarmente efficienti e la loro gestione era attenta e curata.

Questo ovviamente non toglie il fatto che i viaggi erano comunque lunghi, faticosi e rischiosi.

Per rendere il viaggio più agevole erano previste delle stazioni di sosta e le mutatio, che altro non erano che stazioni di sosta dove poter cambiare cavallo, un servizio utilizzato soprattutto dai cursores, l’equivalente dei nostri postini, un vero e proprio servizio di pony express.

Insomma, a quanto pare le strade a Roma funzionavano, forse meglio di come funzionano oggi, anche se come detto non mancavano i disservizi.

Una nuova rubrica: pillole di storia (e cultura) dell’Antica Roma

Inauguriamo con questo post una nuova rubrica per questo blog.

Ho deciso di avviare questa nuova sezione (sperando di avere il tempo materiale di curarla a dovere tra un impegno scolastico e l’altro) partendo dalla domanda che in questi ultimi giorni sta impazzando sul web: “Quanto spesso pensi all’impero romano?”.

La domanda successiva che mi sono posto è stata “Quanto sappiamo davvero dell’impero romano?” o meglio, “quanto ne sappiamo realmente di come vivevano gli Antichi Romani?”.

Per quanto la cultura romana abbia gettato le basi per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata poi la cultura occidentale il modo di pensare di agire, e di comportarsi dei romani è totalmente diverso dal nostro ma allo stesso tempo ricalca vizi e virtù del mondo di oggi.

Per questo penso possa essere interessante (e curioso) saperne di più del modo di ragionare dei romani. Sfruttando la storia latina, le fonti dirette degli storici ed anche la Letteratura Latina cercheremo di intraprendere questo viaggio all’interno della storia di Roma, raccontato la storia di un impero millenario; non sarà una sorpresa capire che scopriremo di avere molte cose in comune con i Romani, così come scopriremo (forse) che sotto molti aspetti la civiltà romana era molto più avanti della nostra.

Ayutthaya, Thailandia, ovvero “l’altra Thailandia”

La Thailandia è un altro di quei luoghi che almeno una volta nella vita andrebbe visitato.

In questo articolo non parlerò di Bankock ma di un posto nelle vicinanze, meno conosciuto forse della Capitale della Thailandia ma di sicuro non meno suggestivo.

Si tratta del sito archeologico di Ayutthaya, la antica capitale del Regno thailandese, suggestiva tanto per la maestosità dei templi che si sono conservati nel tempo quanto per alcune “particolarità storiche” utili soprattutto a coloro che vogliono scoprire un altro lato della Thailandia, non solo quello del divertimento.

Innanzi tutto un consiglio pratico: se avete intenzione di passare una giornata tranquilla è molto meglio rivolgersi ad un tour operator del posto che vi organizzi gli spostamenti, questo nonostante i collegamenti tra la capitale ed il posto di cui parliamo sono relativamente buoni (autobus e ferrovia) lo dico perché se la vostra intenzione è quella di visitare i templi non sempre questi sono raggiungibili e non sempre è pratico spiegare dove si vuole andare (soprattutto tenendo conto che sono molto pochi i thailandesi che parlano e capiscono bene l’inglese).

Detto questo possiamo iniziare il nostro tour, come abbiamo cercato di fare per Singapore possiamo suddividere l’articolo in due parti: la prima che si occupa dei templi e dei siti archeologici che vale la pena vedere, la seconda (per chi avrà intenzione di fermarsi da queste parti) su che cosa fare la sera (ci sono diversi mercati notturni di particolare interesse da visitare).

Partiamo dunque con i templi, visto che proprio questi sono considerati come una delle maggiori attrattive da visitare.

Il primo tempio che va visitato è senza dubbio il Wat Phanan Choen, il più moderno dei templi che incontreremo sul nostro cammino.

Statua del Buddha al Wat Phanan Choen

Questo tempio, rispetto a quanto potremo vedere in seguito, segue uno stile architettonico molto cinese, quindi sarete accolti da tegole in ceramica e colori particolarmente brillanti.

La particolarità di questo tempio (a differenza degli altri che visiteremo in questa zona della Thailandia) è che è ancora abitato dai monaci, quindi avrete qualche possibilità tanto di incontrare dei monaci buddhisti (a me è capitato di vederli mentre lavoravano la terra) quanto se siete fortunati di assistere a qualche rito, particolarità che da un punto di vista antropologico ha sempre il suo interesse (osservando il buddhismo “sul posto” mi sono reco conto di come spesso la percezione occidentale di quella religione risulti essere sballata e fallace).

La seconda tappa del nostro viaggio sarà uno dei templi più antichi: il Wat Yai Chai Mongkhon

Quello che colpisce subito di questo tempio è la grandissima presenza di statue del Buddha in posizione di meditazione, alla maniera thai, ma soprattutto il maestoso Buddha sdraiato (anche lui coperto da un drappo arancione) – a questo proposito apro una parentesi a titolo di curiosità: in Thailandia esistono diverse versioni del Buddha sdraiato, per quanto possano sembrare tutte uguali vi consiglio di fare attenzione agli occhi: se sono aperti il Buddha sta riposando, se sono chiusi abbiamo di fronte un Buddha morente. La cosa comunque che colpisce in tutte le statue del Buddha è la serenità del volto anche quando lo troviamo in meditazione; si tratta di un Buddha di sette metri, che si incontra passeggiando tra i viali. Sembra quasi una sorpresa trovarselo davanti, tanto per la sua grandezza quanto per il fatto che la sua mole copre buona parte della superficie del tempio.

Immagine del Buddha disteso

Questo tempio, oltre ad essere uno dei più antichi, è anche uno dei più isolati dal centro della città per cui si adatta particolarmente anche a coloro che vogliono dedicarsi alla meditazione oltre che all’aspetto turistico.

La terza tappa del viaggio non può che non essere il Wat Phra Mahatat, non fosse altro perché questo tempio è diventato un vero e proprio simbolo della Thailandia, il perché lo scopriremo subito.

Il tempio risale al XIV secolo, e tutta l’area è disseminata di piccoli chedi in buone condizioni (altro nome per indicare i monumenti funerari meglio conosciuti come Stupa).

La particolarità di questo tempio però non sono tanti gli stupa quanto la testa di una statua del Buddha, caduta a terra a seguito della distruzione del tempio) attorno al quale sono cresciute le radici di un albero, come se quell’albero fosse un “padre amorevole”.

Non so se sia il termine esatto ma non è facile trovare una parola meno adatta di “miracolo” perché si tratta di un vero e proprio miracolo.

Testa del Buddha nell’albero al Wat phra mahathat

Una cosa entusiasmante, quasi miracolosa appunto, che ci porta sino alla prossima tappa del nostro viaggio: il  Wihaan Mongkhon Bophit; rispetto agli altri si tratta di un tempio dall’architettura forse più moderna ma non per questo meno interessante, anche perché al suo interno è conservata una delle più grandi statue del Buddha di tutta la Thailandia e rispetto a tutte le statue in oro che abbiamo visto in giro per la Thailandia sarà quasi una sorpresa sapere che questo Buddha immenso è in bronzo.

Wihaan Mongkon Bophit, esterno

L’ultima tappa del nostro viaggio è il bellissimo e suggestivo Wat Phra Si Sanphet, caratteristico soprattutto per i tre stupa posti in fila al centro del tempio.

Le tre stupa del tempio di Wat Phra Si Sanphet

Anche qui (a costo di essere ripetitivo) vi posso consigliare di non fare assolutamente niente: perdetevi a vagare tra le rovine ed ammirate la bellezza del posto, tornerete sicuramente alle vostre case cambiati, con un ricordo di una bellezza senza tempo nel cuore.

Il nostro viaggio si è concluso in bellezza con una visita alla residenza estiva dell’imperatore: la reggia estiva di Bang Pa-In.

Un posto particolare da visitare, non tanto per la sua bellezza (rispetto ad altri posti è decisamente meno bello), quanto per la sua stravaganza, visto che qui è possibile incontrare diversi stili, da quello orientale classico (soprattutto nelle strutture dedicate al culto degli avi presenti in una buona parte della residenza) ma allo stesso tempo uno stile occidentale di ispirazione britannica, con statue di divinità greche e architettura decisamente occidentale.

Una curiosità: nel percorso troverete un paio di case aperte, per entrare (solo nel patio però) dovrete togliere le scarpe, si tratta delle case delle concubine dell’imperatore, interessante nel caso vi venisse il dubbio di sapere “come vive una concubina”.

Visuale di Bang Pa In

Come muoversi

Come detto all’inizio, la cosa più semplice è quella di rivolgersi ad un tour operator del posto che organizza visite (come ho fatto io), per una serie di motivi: innanzi tutto non tutti i posti sono facilmente raggiungibili. Per quanto in Thailandia si trovino ovunque tuc tuc in alcuni siti descritti dell’articolo non solo non è semplice trovarli ma non è nemmeno detto che voi riusciate a spiegare ai presenti che cosa esattamente cosa state cercando. La seconda questione è relativa ai prezzi: per quanto non costi molto spostarsi in taxi farlo per un aerea vasta come Ayutthaya inizia ad avere dei costi non proibitivi ma di sicuro contenuti, soprattutto se non siamo da soli.

Cosa mangiare

Allora, qui la questione inizia a farsi complessa. Se avete deciso di fare da voi, dovete sapere che ci sono diversi punti di ristoro nei vari siti archeologici, cercate sempre di andare sul sicuro quando ordinate qualcosa, giusto per non incappare nell’inconveniente di dover mangiare uno scorpione, la cosa migliore è quella di ordinare del riso, la cosa più sicura che potete ordinare da queste parti.

Detto questo (e con la speranza di essere almeno riuscito a farvi comprendere un po’ della bellezza dei luoghi visti ed avervi incuriosito) vi saluto, il prossimo viaggio sarà in Spagna, a Siviglia per la precisione, la terra del Flamenco insomma, quindi alla prossima.

Intanto vi saluto dalla Thailandia con la bellissima immagine di un tuc tuc, immaginate che con questo arriverò a Siviglia.

“Maternità surrogata” nell’Antica Roma…

Uno degli argomenti che più di altri tiene banco in questi ultimi anni è quello della “maternità surrogata” ovvero le donne che mettono in affitto il proprio utero per mettere al mondo figli di altri. Una pratica che da molti è considerata una aberrante pratica della modernità che stravolge il “ruolo della donna madre” all’interno della famiglia, ma è davvero così?

Quale sarebbe la vostra reazione se ad esempio vi dicessi che la pratica dell’utero in affitto era già conosciuta e praticata nell’antica Roma senza nessuno scandalo? Un articolo uscito su Focus di questo mese parla proprio di questa pratica dell’Antica Roma. Personaggi noti e meno noti (anche considerati dei veri e propri moralisti per l’epoca) non si facevano scrupolo di “affittare” l’utero della propria moglie per fare un favore ad un amico o per creare delle alleanze con le famiglie più potenti.

Ci sono alcuni esempi eclatanti di romani che hanno “usufruito” di questa possibilità, molti dei quali sono anche saliti agli onori delle cronache per le loro imprese storiche o per le loro gesta.

Prendiamo ad esempio la figura di Marzia, citata anche da Dante nella Divina Commedia tra le “anime magne” dell’Inferno.

Marzia visse in tarda età repubblicana (siamo nel 62 A.C.) e come tutte le ragazze della sua età viene costretta dal padre a sposarsi giovanissima per volontà del padre con il console Lucio Marcio Filippo. Bisogna innanzi tutto ricordare che le spose romane sono spesso delle bambine di 12 o 13 anni, come dice l’articolo “vergini pronte a sottomettersi alla virilità del maschio per garantirgli una discendenza”. La donna romana per essere considerata un esempio di virtù doveva essere casta, restare in casa a filare (raramente era presente sulla scena pubblica). Le donne che parlavano troppo o che bevevano erano considerate delle prostitute, considerate dedite allo scandalo ed al vizio.

Marzia risulta essere in questo un raro esempio di virtù: dà a Catone due figli ed “obbedisce” a tutti i voleri del marito, il quale a sua volta la ama profondamente ed è sempre pronto ad esaudire ogni suo desiderio. Fin qui sembra essere un matrimonio perfetto finché non entra in scena un terzo personaggio: Quinto Ortensio Ortalo.  Per chi si occupa di storia romana e letteratura latina Ortensio Ortalo è un personaggio noto, considerato uno dei più illustri oratori romani. Ortensio Ortalo viene citato spesso anche da Cicerone, il quale gli dedicò un’opera perduta appunto dal titolo Hortensius.

Tornando a noi, Ortensio chiede al suo amico Catone di “affittare” la moglie (ovviamente sposandola) visto che non può avere figli dato che la moglie è sterile. Le parole di Ortensio le conosciamo grazie a Plutarco che le riporta nel suo Vite Parallele: 

Tua moglie ti ha già dato un numero sufficiente di eredi, ed è abbastanza giovane per averne altri: lascia che li faccia, questa volta per me.

A dire il vero Ortensio inizialmente aveva chiesto a Catone di sposare sua figlia Porzia (che avrebbe sposato in seconde nozze Bruto, l’assassino di Cesare), offerta rifiutata da Catone il quale non voleva concedere la figlia, considerata il suo bene più prezioso ad un uomo troppo anziano. Ortensio però aveva insistito: se non la figlia perché non la moglie?

Nessuna fonte riporta se Marzia fosse contenta o meno di andare in prestito ad un altro uomo, però sappiamo che secondo la legge di Roma il marito aveva tutto il diritto di prestare la moglie ad un amico affinché questa generasse dei figli per lui. Nessuna donna aveva il potere di opporsi a questa volontà.

La pratica di concedere l’utero della propria moglie in “affitto ” non ha niente a che vedere comunque con il nostro contemporaneo desiderio di “maternità” o di “paternità”, si tratta più che altro di un vero e proprio “dovere civico della donna”.

A partire dal I secolo A.C. la natalità a Roma era in calo e le autorità erano non poco preoccupate. Oltretutto bisogna considerare che i troppi schiavi liberati avevano acquisito la cittadinanza “romana”, insomma si trattava più che altro di una politica per “dare nuovi figli alla patria”.

I Romani del resto (come sappiamo dalle norme che regolavano il matrimonio nell’Antica Roma) raramente si sposavano per amore.

Questo ovviamente non vuol dire che non provassero sentimenti, ma di certo il matrimonio era più che altro dettato da interessi economici e ambizioni di ascesa sociale (come del resto avveniva anche nel passato recente, dove spesso i matrimoni rispondevano più ad interessi dinastici che ad un amore vero e proprio).

Il caso più celebre resta quello di Livia, andata in sposa al cugino Tiberio Claudio Nerone e ceduta proprio dal marino ad Ottaviano nel 38 A.C. Leggenda vuole che Livia e Ottaviano fossero travolti dalla passione. Secondo un ragionamento molto più pratico pare che ad Ottaviano convenisse non poco prendere in prestito Livia per imparentarsi con la sua famiglia, la Gens Claudia, una delle famiglie più ricche e nobili di Roma.

Questi sono solo alcuni degli esempi (alcuni dei più noti), come al solito nel leggere questo articolo vi chiedo di sospendere ogni “giudizio morale” poiché si tratta di storia.

La società odierna (anche se non ovunque) è cambiata, quindi prendete questo articolo per quello che è: una curiosità storica per conoscere il nostro passato, un pezzo di società e di storia romana per comprendere meglio chi siamo, da dove veniamo ed il prezzo delle nostre conquiste.

I numeri arabi, cosa sono e come sono arrivati a noi

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In questi giorni sui social è possibile che abbiate visto un post con la seguente scritta: ” vogliono introdurre i numeri arabi nelle scuole, voi siete d’accordo?” e ci sono commenti ironici su quanto le persone siano ignoranti, ma la domanda è: sappiamo davvero da dove vengono i numeri arabi? Quelli che chiamiamo numeri arabi sono davvero arabi? Perché si decise che era meglio di quelli romani?

Seguiamo le tracce dei numeri arabi…

Quelli che vengono chiamati comunemente numeri arabi sono i numeri che usiamo nella vita di tutti i giorni: 0, 1,2,4,5,6,7,8,9 e sono dette per l’appunto “cifre arabe”, anche se quello su cui noi oggi basiamo i nostri calcoli è un sistema detto “metrico decimale” che è un miglioramento dei numeri arabi.

nota l evoluzione del 2 da || e del 3 da |||

Le cifre arabe comunque non sono giunte a noi nel modo in cui le scriviamo, ma sono un’evoluzione dei numeri brahmi indiani , i quali dopo innumerevoli trascrizioni per mano di popoli diversi sono arrivati ad essere scritti da noi nel modo in cui li conosciamo.

Ma andiamo con ordine: partiamo dalla storia dei numeri arabi.

Abbiamo visto che né i numeri arabi né il relativo sistema di calcolo che li accompagna è stato inventato dagli arabi, bensì si tratta di un’invenzione indiana che si sviluppa tra il 400 a.C ed il 500 d.C.

Sono chiamati arabi perché la loro diffusione avvenne proprio grazie ad alcuni astronomi arabi. 

Tutto ebbe inizio intorno al 650 a.C: un vescovo siriano accenna in un proprio manoscritto ad alcuni simboli con cui il popolo indiano riesce a scrivere ogni numero e fare di conto molto più velocemente di quanto non succeda con i numeri romani.

Durante il califfato di Al-Mamun, nel 772 d.C giunse nella città di Bagdad una delegazione di matematici indiani che portò al Califfo un’opera dove veniva spiegato per filo e per segno come attraverso dieci segni potesse essere possibile scrivere qualsiasi numero e svolgere facilmente i calcoli (l’opera in questione è il Siddantha).

A tale opera attinse l’astronomo arabo Al Khwarizmi, responsabile della biblioteca del Califfo ed autore di numerose opere di astronomia, aritmetica ed algebra.

 

Sessualità a Roma antica, qualche curiosità

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Perché iniziare questo viaggio nella storia parlando di un argomento come la sessualità nell’Antica Roma?

Avremmo potuto iniziare parlando di qualche personaggio storico (come Cesare o chiunque altro) invece abbiamo deciso di dedicarci ad un argomento particolarmente scomodo come la sessualità.

Innanzi tutto per affrontare un simile argomento dobbiamo innanzi tutto “ripulire” la nostra mente da ogni idea di sessualità che abbiamo oggi, sia essa aperta o chiusa.

Sì, perché i romani (così come per i Greci del resto) i confini di omosessualità eterosessualità erano molto meno netti di quello che possiamo pensare noi oggi.

Basti pensare che la lingua latina non ha una traduzione equivalente per definire l’omosessualità né l’eterosessualità come natura sessuale dell’individuo. Non esisterebbe dunque nessuna distinzione tra gay ed etero.

La sessualità era determinata principalmente da quelli che potremmo definire “manierismi comportamentali”, sia maschili che passivi, in ruoli sia maschili che femminili.

La società romana era una società patriarcale e come tale il maschio era considerato “autorità primaria” enfatizzata dal concetto di mascolinità attiva come premessa di potere e status.

Gli uomini erano liberi di avere rapporti sessuali con altri uomini, ma anche in questo caso bisogna fare particolare attenzione a quello che si dice.

Esisteva un ferreo regolamento che regolamentava i rapporti sessuali tra uomini ed era scritto in quella legge conosciuta con il nome di Lex Scantinia.

Questa legge – secondo gli storici – è stata creata per penalizzare qualsiasi cittadino maschio di alto rango che ha assunto volontariamente un ruolo passivo nel comportamento sessuale.

In campo militare l’omosessualità era considerata una grave violazione alla disciplina militare (come ad esempio riporta lo storico greco Polibio raccontando come l’omosessualità potesse essere punita con il fustuarium – bastonatura a morte).

Contrariamente a quanto si possa pensare (e sono in molti a pensarlo) lo stupro era una pratica condannata dalla legge romana, così come era fortemente condannato lo stupro di minori. Per prevenire tale rischio i ragazzi indossavano un indumento detto toga praetexta, un marchio di stato “inviolabile” ed una bolla per allontanare gli sguardi degli uomini.

Una menzione a parte va fatta per i matrimoni omosessuali, sebbene durante i primi anni imperiali pare fosse una pratica comune.

Marco Valerio Marziale sostiene che il matrimonio tra uomini “è qualcosa che accade di rado, anche se non lo disapprovano”.

Agli inizi del III secolo ad esempio a contrarre matrimonio con un uomo fu l’imperatore Elagabalo (Marco Aurelio Antonino Augusto 218-222 D.C) a contrarre matrimonio con un atleta di nome Zoticus.

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Con il modificarsi dell’identità religiosa dell’impero sono iniziate a cambiare anche le abitudini sessuali dei romani. Gli de pagani politeisti, come Giove o Marte, vennero progressivamente sostituiti dalla religione monoteistica del cristianesimo e la sua influenza si diffuse in tutto il mondo classico.

Entro il quarto secolo dC iniziarono i primi divieti legali contro la pratica del matrimonio omosessuale veniva criminalizzata come parte del Codice Teodosiano. Nell’anno 290 gli imperatori cristiani, Valentiniano II, Teodosio I ed Arcadio dichiararono l’omosessualità illegale in tutto l’Impero e venne istituita la condanna al rogo.

Sotto l’imperatore Giustiniano I fu decretato che qualsiasi forma di comportamento omosessuale fosse contraria alla natura e bandita attraverso l’Impero d’Oriente.

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Quanto scritto in questo articolo non vuole entrare nel dibattito (ancora oggi presente sui giornali e e nelle parole dei ministri) sull’omosessualità e sui matrimoni, ma prendere semplicemente atto di come siano mutate le condizioni antropologiche del rapporto con l’omosessualità con il cambiare anche le abitudini “antropologiche” dei romani.

Le mutate condizioni religiose hanno portato necessariamente ad un cambio di paradigma anche della morale e del modo di pensare della società.

Quello che oggi viene percepito come “problema” nella Roma antica era una pratica normalmente accettata anche se abbiamo visto a determinate condizioni.

 

Curiosità storiche

Lo so, su queste pagine principalmente si è parlato di politica, di economia e di attualità e decidere di punto in bianco di parlare di storia potrebbe “spiazzare”.

Ma prima di essere una persona che si interessa di politica (e nei limiti delle sue possibilità prova anche ad occuparsene) sono uno storico ed un insegnante di latino ed allo stesso tempo sono un appassionato di archeologia quindi ho pensato “perché non usare queste pagine per raccontare ogni tanto qualche cosa che riguarda il mio campo di lavoro?” così eccoci qui.

Doverosa una premessa: nel corso di queste lezioni di storia potrei decidere di affrontare diversi argomenti, dalla fine dei Templari al Fascismo passando per la storia dell’Impero Romano cercando sempre e comunque di mantenere un distacco che potremmo definire storico nel raccontare gli eventi, lasciando a voi lettori di trarre le vostre conclusioni. Dunque iniziamo… seguite ancora questo blog e seguite il tag #curiositàstoriche e #storia potreste entrare in mondo affascinante e scoprire cose che sino a ieri ignoravate… pronti?