Presidenzialismo sì, presidenzialismo no, un tabù che dovrebbe essere superato

La campagna elettorale che ci porta alle elezioni del 25 settembre rischia di essere segnata da un dibattito al ribasso su una delle proposte della coalizione di centrodestra: la possibilità ventilata di una riforma costituzionale che superi il parlamentarismo e istituisca in Italia una repubblica presidenziale.

Sgomberiamo subito il campo da uno dei temi più gettonati da parte della sinistra: il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo non è un attentato alla Costituzione, la quale non vieta assolutamente di cambiare la forma di rappresentanza ma solamente di modificare l’assetto repubblicano del Paese (art. 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”).

L’art. 139 della Costituzione afferma solamente che non può essere messa in discussione non la forma repubblicana della nazione, dunque è un richiamo piuttosto esplicito al fatto che non si può proporre di tornare alla monarchia.

Tuttavia, nulla vieta nella Costituzione italiana di discutere di trasformare la nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale con elezione diretta del Presidente della Repubblica.

Ovviamente il passaggio da una repubblica parlamentare ad una presidenziale non è una di quelle riforme che possono essere pensate in capo a qualche settimana o a qualche mese: ad essere ottimisti serve un’intera legislatura per poter modificare la Costituzione e fare in modo che il Presidente della Repubblica assuma potere tale da poter essere considerato un dittatore.

Per impedire derive totalitarie è necessario, ad esempio, che si svolgano due elezioni separate: una per la presidenza ed una per eleggere i rappresentati di Camera e Senato, prevedendo un sistema dove la maggioranza del Governo (quindi le due camere riunite) non sia la stessa maggioranza che ha espresso il Presidente della Repubblica che avrebbe necessariamente delle prerogative diverse da quelle che ricopre attualmente (ovviamente deve essere il dibattito parlamentare a stabilire quali dovranno essere queste prerogative).

Veniamo ora alla battuta di Silvio Berlusconi, quella che sta scatenando indignazione anche da parte di chi indignato non dovrebbe essere (vedi Di Maio che oggi difende Napolitano e che ieri ne chiese l’impeachment).

Berlusconi ha affermato in una intervista: una volta approvata la legge sul presidenzialismo (e di conseguenza dell’elezione diretta del Presidente) Mattarella si dovrebbe dimettere.

Ora, per quanto io possa non simpatizzare con Berlusconi, non riesco a vedere in queste parole un tentativo di deporre Mattarella (come sostiene Enrico Letta dal PD) o un tentativo di scardinare la democrazia per attuare una pericolosa dittatura.

Le parole in questo caso mi sembrano tanto essere state estrapolate dal contesto di un ragionamento più amplio: ovvero, nel caso in cui dovesse passare la riforma entrerebbe in vigore dalla prossima legislatura, ma questo significa che Mattarella sarebbe un presidente ad interim, ovvero ricoprirebbe il suo incarico sino a che non dovesse lasciare spazio al presidente eletto con voto popolare. Ora, se in questi anni ho imparato a conoscere Sergio Mattarella tutto è disposto a fare tranne ad avere un mandato a tempo per la presidenza della Repubblica.

Del resto lo ha detto chiaro e tondo quando è stato rieletto: la sua idea è quella di restare in carica per tutti e sette gli anni del suo mandato e solo dopo, eventualmente, lasciare il posto ad un altro Presidente.

Invece che discutere su quanto detto da Berlusconi sarebbe stato molto più utile avviare una discussione seria e politica sulla possibilità di realizzare una repubblica presidenziale dove non solo gli elettori scelgono da chi essere rappresentati ma anche che possa dare all’Italia un governo stabile per tutta la durata del mandato presidenziale.

Bisogna ripensare i poteri delle Camere, la suddivisione dei collegi, poteri e pertinenze del Presidente della Repubblica.

Ecco, tutto questo sarebbe un dibattito per rimettere la politica al centro dell’azione politica, tutto il resto è solo uno sterile dibattito estivo senza senso logico.

Articolo 36 della Costituzione

Torniamo ad occuparci, dopo un bel po’ di tempo lo ammetto, di Costituzione e lo faremo occupandoci di quella parte di Costituzione che si occupa del lavoro.

Innanzi tutto una premessa doverosa: gli articoli della Costituzione che tutelano i lavoratori sono gli articoli che vanno dal 35 al 40 e vanno dalle indicazioni sul salario sino al diritto di sciopero. La scelta di partire dall’articolo 36 ha anche una valenza potremmo dire politica perché la questione salariale resta una delle questioni irrisolte del sistema economico italiano. Data questa premessa la domanda è: ma cosa dice esattamente l’articolo 36 della Costituzione?

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. 

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi

Le garanzie che l’articolo 36 stabilisce a favore del lavoratore dipendente sono poste a tutela della dignità e libertà del lavoratore stesso e sanciscono: 

  • Il diritto ad una retribuzione corrispondente al lavoro svolto e sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza dignitosa; 
  • La durata massima della prestazione in primis della giornata lavorativa (che viene quindi stabilita dalla legge) 

Una parte altrettanto importante di questo articolo è quella della giusta retribuzione. 

La retribuzione ha una funzione sociale visto che si tratta della sola fonte di sostentamento del lavoratore subordinato. 

Per questo motivo i costituzionalisti hanno dato grande importanza nell’imporre al datore di lavoro di corrispondere una retribuzione proporzionata al numero di ore lavorative eseguite, al tipo di lavoro svolto, al ruolo ed al grado di responsabilità ricoperto.  La retribuzione deve quindi essere anche sufficiente a garantire non solo al lavoratore ma anche alla sua famiglia una vita libera e decorosa. 

Altro aspetto che viene regolato dall’articolo 36 è quello della Durata legale della giornata lavorativa 

La tendenza a determinare legalmente la durata massima della giornata lavorativa – lasciata inizialmente alla discrezione del datore di lavoro – costituisce la spontanea reazione agli ordinamenti democratici che servono a tutelare lo sfruttamento dei lavoratori subordinati ed in particolare dei minori. 

Nello scrivere i diritti della Costituzione si è pensato anche alla tutela della salute fisica e mentale del lavoratore, per questo la Costituzione prevede il riposo settimanale,  ovvero dei giorni da destinare al tempo libero, durante i quali il lavoratore possa coltivare i propri interessi, partecipare ad attività ricreative e sportive e passare del tempo con la propria famiglia (il concetto di famiglia è molto presente nella Costituzione, considerata come il fondamento stesso alla base della costruzione della società democratica). 

Di regola il riposo settimanale è la domenica, ma può anche svolgersi in un giorno diverso purché venga rispettata la scadenza settimanale. 

Stesso discorso vale per ferie annuali le quali hanno lo scopo di ritemprare le energie psicofisiche del lavoratore e soddisfare esigenze ricreative, culturali, affettive e famigliari. 

Sia il riposo settimanale che le ferie annuali sono considerati diritti irrinunciabili per cui qualsiasi clausola del contratto di lavoro che ne preveda la rinuncia è da considerarsi automaticamente nulla. 

Questo per quanto riguarda il lavoro dipendente, per comprendere come la Costituzione tutela anche le forme di “lavoro autonomo” analizzeremo nelle prossime settimane gli altri articoli della Costituzione, estendendo la nostra analisi anche agli articoli che vanno dal 41 al 47. 

 

 

Articolo 10 della Costituzione

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Torniamo (dopo un po’ di tempo) a parlare di Costituzione. 

In questi mesi è stata chiamata più volte in causa, soprattutto in relazione alla vicenda del sindaco di Riace Mimmo Lucano  (vicenda nota, pertanto eviteremo di parlarne in questo articolo) e ad alcune prese di posizione del Governo Lega-Cinque Stelle. 

L’articolo della Costituzione che regola e parla del diritto d’asilo e di estradizione è l’Articolo 10 Cost., come al solito procederemo nel solito modo (già sperimentato per altri articoli approfonditi su queste pagine): prima metteremo per intero l’articolo e poi cercheremo di approfondirlo sulla base del diritto costituzionale e della dottrina e cercando di approfondire quello di cui parla quell’articolo.

Una nota a coloro che – leggendo questo articolo – penseranno che si tratta di una presa di posizione contro Salvini o contro il Governo: non è così. Ho già avuto modo di spiegare (parlando di Costituzione in altri articoli) come ritenga che La Legge vada considerata al di sopra dell’appartenenza politica e come tale legge vada rispettata “a priori”, giusta o meno che sia (avremo modo di affrontare in seguito il rapporto tra “legge morale” e “legge di Stato” per cercare di stabilire se tra le due esiste una contrapposizione netta).

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite, dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

L’articolo 10 della Costituzione costituisce una norma sulla produzione giuridica, poiché detta le modalità per recepire nel nostro ordinamento le norme del diritto internazionale generale (ovvero le consuetudini) e prevede un adattamento automatico permanente (mentre per l’adozione delle norme pattizie occorre la stipula di un apposito trattato.

Questa disposizione, in linea con il principio del rispetto della dignità umana, è necessaria per tutelare lo straniero da eventuali abusi discriminazioni da parte del potere amministrativo e giurisdizionale nei suoi confronti (comma 2), sia lo mette al riparo da possibili persecuzioni da parte dello Stato di appartenenza qualora si ritenesse quello Stato non democratico da cui il fuoriuscito (commi 3 e 4) ha richiesto asilo diplomatico. 

La Repubblica in questo modo si impegna da un lato a garantire di non porre in essere azioni discriminatorie tendenti a colpire gli stranieri soprattutto in materia di lavoro; dall’altro lato tende a vigilare sul rispetto dei principi umanitari e di solidarietà che rappresentano diritti inalienabili di qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua nazionalità.

Questo principio viene spesso associato a quello di diritto internazionale generale che tutela i diritti dell’individuo in quanto titolare di un diritto universale dei diritti umani. 

Un altro aspetto affrontato dall’articolo 10 Cost. è quello relativo al diritto di asilo (diplomatico) e l’estradizione. 

Nell’ultima parte dell’articolo viene riaffermata l’universalità di valori come libertà, uguaglianza e giustizia, valori che vengono estesi anche agli stranieri ed a tutti coloro che non hanno possibilità di godere di tali diritti nei propri Paesi (ovviamente questi diritti vengono garantiti dalla nostra Costituzione indipendentemente dall’orientamento politico, sessuale e religioso dal richiedente come da Art. 3 Cost.).

Questo spiega il riconoscimento del del citato diritto di asilo, ovvero del diritto dello straniero di soggiornare nel territorio italiano per sfuggire alle persecuzioni politiche del Paese di origine e poter, in tale modo, esercitare liberamente nel nostro Paese i diritti e le libertà che – al contrario – gli sono negati dallo Stato di appartenenza.

Altra forma di solidarietà di carattere umanitario è costituito dal divieto di estradizione per chi si è reso colpevole nel suo Paese di reati politici, ovvero di reati commessi per opporsi ad un regime “non democratico”.

Uno straniero può essere estradato solo quando lo Stato italiano ha certificato la natura dei reati commessi. Anche se per motivi politici – tuttavia – comunque colui che si è macchiato di un grave reato di genocidio ( che costituisce un crimine contro l’umanità)  può essere estradato dal nostro Paese.

Ovviamente (ma sarebbe anche inutile aggiungerlo) questo articolo tende a dare per scontato che un cittadino straniero che “gode dei diritti concessi in quanto cittadino” deve allo stesso tempo anche essere sottoposto agli stessi “doveri ed alle stesse leggi di cui gode un cittadino italiano”.

Articolo 4 della Costituzione italiana, l’articolo del lavoro

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La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le sue proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Erroneamente da quello che si crede l’articolo della Costituzione italiana che parla di lavoro in maniera esplicita non è l’articolo 1 (che abbiamo avuto modo di analizzare su questo blog ) bensì l’articolo 4.

Questo articolo sancisce “il lavoro come diritto e dovere costituzionale”, tanto che potremmo definirlo il primo articolo della nostra Costituzione con un principio lavorista alla base.

Il principio, già espresso in maniera chiara nell’articolo 1, ribadisce l’importanza del lavoro, in quanto fonte di sostentamento dell’individuo, e rappresenta dunque il mezzo indispensabile per consentire a ciascuno di essere libero, autonomo ed indipendente.

Il diritto al lavoro allo stesso tempo però non deve essere inteso come pretesa di ciascun individuo ad ottenere dallo Stato un posto di lavoro ma piuttosto come il divieto per lo Stato di prevedere norme che limitino la libertà di esercitare qualsiasi attività lavorativa libera e lecita, come invece accade negli ordinamenti di “tipo corporativo” (Per una maggiore idea sul termine corporativo si veda il link allegato della voce dell’enciclopedia Treccani del termine corporativismo).

Parallelamente all’impegno assunto dai cittadini, lo Stato si assume la responsabilità e l’impegno di farsi carico di una serie di obiettivi che devono caratterizzare la sua politica per favorire la crescita di tutti i lavoratori (dipendenti, autonomi, sia cittadini che stranieri – un passaggio questo che non deve essere dimenticato: non esiste nella nostra Costituzione il principio di “prima gli italiani”, le condizioni di lavoro devono essere ottimali per tutti e tutti hanno pari diritti davanti alla Costituzione, un aspetto questo che spesso si tende a dimenticare).

Il diritto al lavoro allo stesso tempo però coincide anche con un preciso dovere dei cittadini; va comunque detto che in questo caso non si tratta di un’imposizione da parte dello Stato al cittadino di lavorare bensì di un monito per gli individui di non ricorrere a forme di “parassitismo sociale ed economico”, vivendo ad esempio esclusivamente con le proprie rendite.

Altro elemento fondamentale dell’articolo 4 della Costituzione è il dovere alla solidarietà.

Proprio l’articolo 4 esprime il principio di solidarietà in cui si manifesta per la prima volta il concetto di Stato Sociale, inteso come dovere  di ciascuno a dare un contributo per la crescita della collettività.

In particolare lo Stato ha previsto una serie di misure di assistenza per tutti coloro che non sono in grado di svolgere attività lavorative (per limiti di età, menomazione fisiche), misure di assistenza che sono a carico dello Stato, attraverso gli istituti di previdenza sociale. 

In sintesi questo è l’articolo 4 della Costituzione, con la speranza di essere stato abbastanza chiaro e la speranza che questi brevi articoli vi spingano a leggere la Costituzione, continuate a seguire questa pagina, presto vedremo anche altri articoli, per fare in modo che Costituzione più bella del mondo spesso difesa sia anche letta.

Articolo Due della Costituzione, uno degli articoli fondamentali e meno conosciuti

Dopo l’articolo 1 della Costituzione passiamo ad analizzare nel dettaglio il secondo articolo, cosa dice l’articolo 2 della Costituzione?

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”

Cosa ci dice dunque l’articolo due della Costituzione?

Possiamo dire che senza ombra di dubbio è uno dei più importanti della Costituzione Italiana. Con questo articolo la Repubblica Italiana riconosce e garantisce i diritti dell’uomo, violati nel corso della storia mondiale ed italiana durante il fascismo (soppressione delle libertà individuali e leggi razziali).

Il secondo articolo della Costituzione può essere considerato una ovvia continuazione del primo.

In discontinuità con la prassi affermatasi durante il fascismo assegna il primato all’individuo rispetto allo Stato: i diritti del cittadino sono prima di tutto riconosciuti, quindi preesistono allo Stato e solo in seguito vengono garantiti.

Si riparte dal fondamento del costituzionalismo liberale,  il quale afferma l’esistenza di diritti innati del cittadino, che lo stato deve limitarsi a riconoscere e regolare (non si tratta quindi di una concessione da parte dello Stato come era ad esempio nello Statuto Albertino).

L’articolo due dunque, riconosce e ribadisce il valore del singolo individuo, in modo che questi possa sviluppare la propria personalità, attraverso l’affermazione delle proprie scelte, facendo valere i propri diritti  ed adempiendo ai propri doveri: questo principio viene definito “personalista” è stato alla base della rinascita della “democrazia” dopo la “dittatura”; è senza dubbio il principio più profondo della nostra costituzione, quello che afferma ed assegna a ciascuno di noi la responsabilità delle nostre scelte.

La Costituzione riconosce e garantisce il valore della persona sia individualmente, sia in gruppo (ove si legge “nelle formazioni dove si volge la sua personalità” quindi la famiglia, le associazioni e gli stessi partiti politici). Rispetto all’individuo ed alle formazioni sociali, lo stato deve limitarsi a creare una cornice dentro cui ognuno potesse fare le proprie scelte.

Bisogna ricordare che il principio personalista ha ben poco a che vedere con il processo di individualizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.

Una società fondata sui diritti individuali non è assolutamente una società invidualista dove ciascuno pensa unicamente a sé stesso.

Al contrario, i diritti individuali costituiscono quella leva necessaria per l’emancipazione di ognuno di noi all’interno di una comune cornice di libertà e di opportunità. Infatti all’individuo non solo vengono garantiti i diritti, ma viene richiesto l’adempimento dei doveri, definiti dalla Costituzione come doveri di “solidarietà politica, economica e sociale”. Dunque, secondo la nostra Costituzione NON ESISTONO DIRITTI SENZA DOVERI né viceversa: la libertà di ognuno è volta al miglioramento della società nel suo complesso.

  Questo articolo ricopre una particolare importanza (anche se spesso viene sottovalutato a scapito del primo) perché rende possibile l’inclusione di diritti considerati “nuovi” che non erano stati previsti od introdotti nella Costituzione. Pensiamo ad esempio al diritto dell’abitazione, alla tutela dell’ambiente, al riconoscimento della vita del nascituro, alle esigenze legate alla procreazione, alla privacy, alla disposizione della propria vita e quindi alla negazione dell’accanimento terapeutico.

  Un articolo dunque “variabile” come variano i diritti individuali. Solo a titolo di esempio potremmo citare il “diritto di accesso alla rete” come diritto emergente con l’evolversi della tecnica inteso come mezzo di emancipazione ed espressione personale di ciascuno di noi.

Avrete notato che l’analisi di questo articolo è meno lunga e molto meno controversa dell’articolo uno, ma comunque ricopre un’importanza fondamentale per la vita del cittadino ed il resto della nostra Costituzione, che vedremo nelle prossime settimane.

quiz-costituzione Continua a leggere Articolo Due della Costituzione, uno degli articoli fondamentali e meno conosciuti

Vediamo l’Articolo 1 della Costituzione

Iniziamo, come promesso, a pubblicare una serie di articoli per spiegare e comprendere la Costituzione Italiana.

Partiamo proprio dall’Articolo uno, tanto citato ma molto poco capito. Quello che cercheremo di fare in questa sede è portare a conoscenza non solo il testo dell’articolo ma anche provare a dare una spiegazione storica, politica e di filosofia del diritto sulle implicazioni che un articolo come l’Articolo 1 della Costituzione può avere sul nostro vivere quotidiano.

L’articolo per intero recita:

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”

Cosa ci dice esattamente il primo articolo della nostra Costituzione?

Il primo articolo della Costituzione tende a fondere le due principali caratteristiche dello Stato italiano, nato dalla guerra di liberazione: l’Italia è una Repubblica ( a norma dell’articolo 139 è la sola parte che non può essere modificata in alcun modo) ed è, grazie al suffragio universale ed alle istituzioni che vengono descritte nella II parte del testo costituzionale, una Democrazia.

Per la precisione è una Democrazia partecipativa, il cui potere appartiene al popolo, formato da tutti i cittadini, che concorrono al governo ed all’amministrazione della cosa pubblica attraverso gli istituti ed i meccanismi previsti dell’ordinamento repubblicano (in seguito vedremo quali sono questi meccanismi e quali gli organi).

Inoltre, un altro punto da mettere in rilievo è come fondamento della democrazia non sia la proprietà, con i conseguenti privilegi dello Stato Liberale, ma il LAVORO, visto come un diritto – dovere di ciascuno per il progresso personale e sociale.

In sintesi, il primo articolo è quello su cui è impostato l’intero impianto della Costituzione italiana, i due principi su cui si fonda l’ordinamento repubblicano: il principio democratico ed il principio lavorista.

Per comprendere meglio questo primo articolo della nostra Costituzione è necessario fare innanzi tutto una premessa storica: la nostra Costituzione nasce dal compromesso di diverse parti politiche – quelle che durante il fascismo guidarono la Resistenza – che volevano dare una propria impronta alla costituzione, imprimendo i suoi principi proprio a partire dall’articolo uno.

Le forze in causa erano tra loro particolarmente differenziate, e trovare un punto di accordo non era tanto facile, del resto che cosa poteva accomunare socialisti, comunisti, cattolici, liberali e populisti (su quest’ultimo termine è doverosa una leggere parentesi: il populismo è un atteggiamento politico e culturale volto all’esaltazione del popolo sopra ogni cosa, sulla base di principi ispirati al socialismo; nel dibattito politico attuale viene spesso usato con accezione negativa confondendolo con il termine demagogia).

La discussione impegnò per mesi e mesi tutti i capi dei maggiori partiti e tutti i maggiori costituzionalisti.

Il compito di trovare la sintesi tra le varie posizioni venne affidata a MEUCCIO RUINI,(Reggio Emilia, 14 dicembre 1887- Roma, 6 marzo 1970) esponente del Partito Radicale Italiano (da non confondere con il Partito Radicale  di Marco Pannella, nato da una scissione del Partito Liberale), Presidente del Comitato dei Settantacinque, il comitato che ebbe il compito di preparare la quasi totalità degli articoli prima che venissero sottoposti all’Assemblea.

Dunque, cosa decisero i nostri Padri Costituenti dopo lunga discussione? Che cosa esprime esattamente il nostro ARTICOLO UNO?

Innanzi tutto dichiara che l’Italia è una Repubblica democratica, e lo dice come prima cosa in assoluto. Quindi la Repubblica, la democrazia e l’Italia sono elementi non scindibili, esistono uno in funzione dell’altra. È bene tenere a mente questo concetto, perché si ricollega all’ultimo articolo della Costituzione,  il 139, che dice:

La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.

Quindi, dimenticatevi che si possa tornare alla monarchia, la dittatura, l’impero, il consolato, o qualsiasi altra forma che non sia pienamente democratica e repubblicana.

Sempre nell’articolo uno (al primo comma) si sostiene che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro.

Un principio altamente nobile, non c’è che dire, il quale però esprime un concetto abbastanza debole, non affermando assolutamente nulla di esplicito se non una speranza, e non obbliga lo Stato a dare lavoro a tutti. Va tenuto a mente questo aspetto, perché proprio questo ha dato vita negli ultimi anni ad una serie di fraintendimenti che si fa molta fatica a superare.

Si tratta di una sintesi ideologica di parte del pensiero comunista, socialista e popolare, osteggiata peraltro nella sua formulazione (e nel suo posizionamento) da quasi tutti gli azionisti (esponenti del Partito d’azione) e che venne ideata da AMINTORE FANFANI, uno dei massimi esponenti della Democrazia Cristiana  che in questo modo concluse un dibattito prolungato che offrì in questo modo un compromesso alla parte comunista e socialista, i quali cedettero su alcuni punti che definivano i rapporti con la Chiesa, gli articoli sulla famiglia e l’istruzione, ed al momento in cui venne votato, sul Concordato.

Molto più interessante è invece il secondo comma, quello che doveva stabilire una volta per tutte a chi appartenesse la sovranità, ovvero: chi detiene il potere decisionale nell’Italia Repubblicana?

La sovranità apparteneva al Governo? No, nemmeno per idea. Era così durante il fascismo (e così sarebbe stato in molte riforme costituzionali proposte negli anni a venire). Al Parlamento, come avviene ad esempio negli Stati Uniti? Nemmeno. Il nostro – a differenza di quello americano – non è un Parlamento federale, il quale – a differenza di quello americano – viene rinnovato ogni cinque anni.  Quindi, il vero detentore del potere, non poteva che essere lui: L’INTERO POPOLO ITALIANO.

A spiegare bene questo punto è l’onorevole GRASSI, uno dei costituenti che così scrive:

Lo Stato, che è depositario del potere di comando, lo esercita attraverso gli organi del suo ordinamento; ma questi organi sono azionati e ricevono autorità e forma dal popolo che, direttamente o indirettamente, dà ad essi tutta la capacità della sua manovra”.

Lo stesso Ruini (che abbiamo già citato in precedenza) commentò in questi termini la decisione, commentando anche le parole che si dovevano utilizzare: “La sovranità risiede nel popolo, appartiene al popolo, emana dal popolo, è nel popolo, sta nel popolo eccettera. Stanco del dibattito, io mi sono rimesso alla Costituente per la scelta del verbo. Non inopportunamente è stato scelto appartiene al popolo; mentre emana dal popolo poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”.

Anche la scelta della parola popolo non è una scelta casuale. Non si parla infatti di elettori, ma di tutti coloro che sono italiani, quindi: uomini, donne, bambini, neonati, e per alcune accezioni anche gli stranieri residenti sul nostro territorio (residenti a tutti gli effetti, è bene sottolinearlo).

Dunque, il fatto che la sovranità appartenga al popolo non deve essere un aspetto che può essere dimenticato o sottovalutato. Non sono i parlamentari o il Presidente del Consiglio a comandare: quelli sono solo i rappresentati del popolo, che hanno il compito di ascoltare e mettere in atto tutte le aspirazioni e desideri del popolo stesso.

Premesso tutto questo l’articolo uno dice anche un’altra cosa: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ovvero?

Innanzi tutto viene detto in maniera esplicita che gli strumenti e gli atti di sovranità popolare devono essere previsti dalla Costituzione e solo dalla Costituzione, e non possono essere altri se non quelli.  Nessuno dunque può aggiungerne arbitrariamente di nuovi (tipo: non potete proporre il plebiscito, cioè una consultazione popolare per far approvare un certo comportamento o decisione) e nessuno può togliere o sminuire quelli esistenti. I quali in sostanza sono:

  1. Le Elezioni: Strumento attraverso le quali tutti i cittadini maggiorenni sono chiamati a scegliere i partiti ed i candidati che formeranno le assemblee legislative e recentemente anche con la scelta diretta di chi ci amministra – quindi sindaci ed organismi regionali – ma non chi ci governa (il che trasformerebbe la nostra repubblica in un organismo direttoriale)
  2. Il referendum abrogativo: Questa forma di referendum permette ai cittadini di eliminare una legge che non piace. Non importa che la legge sia giusta o sbagliata: è solo il “gradimento” del popolo che permette di eliminarla o meno. Comunque non possono essere soggetti a referendum le leggi fiscali ed i trattati internazionali (quindi… no, non si può fare un referendum per uscire dall’euro).
  3. Il sistema giudiziario in senso lato. Le sentenze del tribunale sono emesse in nome del Popolo italiano, ed anche se questa sembra essere solo una forma retorica, è invece un costante riferimento al fatto che la giustizia vada applicata solo nell’interesse e secondo lo spirito dell’intera comunità e non per favorire una parte o l’altra della comunità. Quindi, una sentenza che non rispondesse ai principi democratici della Costituzione non sarebbe valida, perché non potrebbe essere fatta in nome del popolo italiano il quale si RIFLETTE nella Costituzione.

 

Dunque, come abbiamo visto, nell’articolo uno si parla di lavoro solo ed esclusivamente di lavoro in maniera indiretta, sono altri gli articoli che parlano esplicitamente di LAVORO, ma dovrete aspettare, perché per oggi ci fermiamo qua.

Approfitto di queste ultime righe per aver avuto la pazienza di seguirmi fino a qui. quiz-costituzione

 

A proposito di flat tax

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In una campagna elettorale dove sembra vigere la regola del “chi la spara più grossa” una delle cose chiare è che il centrodestra ha incentrato buona parte della sua campagna sulla possibilità di introdurre la Flat Tax una volta arrivata al Governo, ma di cosa si tratta esattamente?

Presentata come una tassa che eliminerebbe di colpo l’evasione fiscale in realtà nessuno ha ancora spiegato esattamente che cosa sia esattamente questa flat tax e che effetti potrebbe avere sulla nostra economia.

Iniziamo dalla storia: la flat tax (o tassa forfettaria in italiano) è un sistema fiscale proporzionale e non progressivo se non accompagnato da deduzione o detrazione, anche se l’aliquota legale è costante, l’aliquota media è crescente.

Solitamente tale sistema si riferisce ad una imposta sul reddito familiare, talvolta estesa ai profitti delle imprese, tassate con aliquota fissa. La tassa venne ideata per la prima volta nel 1956 dall’economista statunitense Milton Friedman.

Le flat tax non sono particolarmente comuni nelle economie avanzate, le cui tasse nazionali includono quella che viene definita aliquota progressiva sui redditi e sulle famiglie, e sugli utili delle aziende, di modo che l’aliquota aumenti aumenta in percentuale all’aumentare del reddito.

Innanzi tutto per capire le differenza tra l’attuale tassazione in Italia (basato sulla progressività) e la flat tax è necessario prima di tutto fare una panoramica storica sul sistema di tassazione e proprio sulla flat tax.

Iniziamo dicendo che il “principio di progressività” della tassazione ha origini molto antiche ed è stato accettato ormai dalla maggior parte delle Costituzioni dei Paesi democratici occidentali, nonostante sia stato sottoposto ad una serie di revisioni che sempre più lo hanno avvicinato ad un modello di tassazione simile alla Flat Tax.

Il problema del determinare quale possa essere il “principio dell’ottima progressività”, ovvero il criterio logico che decide la progressività dell’aliquota (che percentuale e per quali scaglioni di reddito), è stato argomento di dibattito per gli economisti del 1800-1900.

Il problema si pone per la prima volta – in tutta la sua evidenza – nella Firenze dei Medici, in cui la tassa principale, definita “decima scalata”, sulla proprietà di maggior valore per le classi più abbienti era talmente tanto alta, che era molto più conveniente vendere per non pagare l’imposta. La totale discrezionalità utilizzata dalla famiglia Medici nella determinazione delle aliquote, veniva tradotto in un uso arbitrario della tassazione, soprattutto per indebolire i loro avversari politici.

Durante la presidenza di George W. Bush alcuni economisti americani, tra cui Robert Hall ed Alvin Rabushka, proposero, poco dopo l’approvazione del taglio di tasse approvato dal Presidente, di sostituire il sistema fiscale allora vigente in quell’epoca una flat tax con aliquota al 17,5%: se questa proposta fosse diventata legge il 62% dei contribuenti avrebbe guadagnato denaro rispetto al sistema precedente su base progressiva. Tale percentuale salirebbe di molto se si considera che le due aliquote più basse al tempo dell’amministrazione Clinton erano del 15% e del 28% (quella massima era invece del 27% al tempo del Presidente Reagan).

Tale proposta è basata sull’eliminazione di tutte le esenzioni, detrazioni e deduzioni vigenti per fare in modo di allargare il più possibile la base imponibile, sino ad includere l’intero PIL (Prodotto interno Lordo) nazionale: solo in questo modo è possibile ottenere un gettito uguale (o superiore, se si considera l’emergere di quel fenomeno definito economia sommersa) con una sola aliquota e si potrebbe anche rafforzare la democrazia in quanto – purtroppo va detto – alcune esenzioni sono state create dietro la spinta – non sempre pulita e chiara – delle lobby o associazioni di categoria e non nell’interesse della collettività dei contribuenti.

Inoltre alcuni economisti hanno sostenuto la possibilità di creare la creazione di una “no tax” area per esentare i più poveri e per far scendere di fatto quella che era l’aliquota reale sui poveri per la classe media: in questo modo viene creata progressività per deduzione e non per aliquote o scaglioni che danneggia il risparmio e gli investimenti.

Va ricordato tuttavia che una redistribuzione del reddito può esserci tanto con una flat tax quanto con un sistema di tassazione progressiva: l’efficacia della redistribuzione dipende infatti dall’efficienza della spesa pubblica e non dal sistema di tassazione in vigore. La flat tax offre sicuramente dei vantaggi nel breve periodo si ha una penuria di entrate ed i politici sono costretti a decidere se non è il caso di tagliare le spese utili (ad esempio gli aiuti alle famiglie numerose) o quelle inutili (come ad esempio i contributi a fondo perduto a favore di questa o di quella lobby) per raggiungere il pareggio in bilancio.

Veniamo al caso italiano: il sistema di tassazione in Italia è regolato dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 53:

“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

(ART. 53 COST.)

Sul piano fiscale il 1° gennaio del 2004 (Governo Berlusconi) è entrata in vigore l’imposta sul reddito delle società (IRES) al posto dell’IRPEG; con l’occasione l’aliquota unica preesistente venne ridotta dal 34% al 33%. Ulteriori riduzioni ci sono state nel 2008 (27,5%) e dal 2017 (24%).

Il primo a parlare in Italia di flat tax fu proprio Silvio Berlusconi nel 1994, quando propose una flat tax al 33% con una no tax area per i più poveri al posto dell’IRPEF progressiva.

Il successivo Governo Berlusconi (2001-2006) portò avanti un piano di riduzione delle tasse, abbassando la pressione fiscale al 40,6% nel 2005, il taglio venne però finanziato attraverso un condono fiscale tombale con l’aumento del deficit pubblico, che nel 2005 era salito al 4,4% in violazione dei parametri di Maastricht.

Nel 2005 l’idea di una flat tax venne proposta da Marco Pannella, il quale con i Radicali Italiani propose una flat tax al 20%. Nel 2008 fu la Destra – Fiamma Tricolore che propose ancora una volta di introdurre una flat tax al 20% comune a persone giuridiche e fisiche. Data la situazione dei conti pubblici però si decise di dare precedenza alla riduzione dell’IRES dal 27,5% al 20%, pensando fosse possibile applicare la flat tax nel medio e lungo periodo dell’azione di Governo. Passiamo ora ad analizzare quelli che sono gli aspetti tecnici dell’aliquota.

Quanti sarebbero i contribuenti interessati?

Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze i contribuenti IRPEF dell’anno fiscale 2015 – il dato più recente disponibile – sono 40,8 milioni. Di questi non tutti pagano l’IRPEF, la principale tassa sul reddito, la principale tassa sul reddito: quelli che dichiarano un’imposta netta sull’IRPEF sono 30,9 milioni quindi il 76% dei contribuenti.

Circa 10 milioni di soggetti hanno quindi un’imposta pari a zero, e sono quindi contribuenti con livelli reddituali talmente bassi da venire esonerati o che hanno abbastanza detrazioni da azzerare l’imposta lorda. Essi non sarebbero naturalmente toccati dall’introduzione della flat tax. Per i restanti 31 milioni di italiani? L’introduzione di una aliquota pari al 23%, la più bassa oggi in vigore, avrebbe un impatto solo su coloro che ad oggi hanno un reddito superiore a 15 mila euro (quindi con uno stipendio medio di 1250 euro mensili) visto che chi ha un reddito inferiore a quella cifra paga appunto il 23% di Irpef.

Nel 2015 i contribuenti con un reddito superiore a 15 mila euro erano 22,2 milioni, ovvero il 54% del totale. Per questa categoria le aliquote sono del 27% (per i redditi tra i 15 mila ed i 28 mila euro), del 38% (per i redditi tra i 28 mila ed i 55 mila euro) e del 41% (per i redditi tra i 55 mila ed i 75 mila euro)  e del 43% per quelli superiori ai 75 mila euro (per la cronaca, questa fascia di contribuenti riguarda soprattutto i super manager, dato che parliamo di una fascia con uno stipendio medio di 6250 euro mensili).

Facendo dunque una prima approssimazione possiamo dire che la flat tax al 23% avrebbe un impatto significativo solo sulla metà dei contribuenti (ovvero quella più ricca).

Quanto verrebbe a costare la Flat Tax?

Per quanto Silvio Berlusconi sostenga che si ripaga da sé, le cose non stanno esattamente così.

Con una flat tax al 20% con una no tax area fino ad un reddito di 13 mila euro l’impatto sulle casse dell’erario sarebbe intorno ai 95 miliardi di entrate, molto lontana come cifra dai 30-40 milioni indicate da Berlusconi come mancate entrate.

Le minori entrate sarebbero tuttavia (sempre secondo Berlusconi) compensate da una notevole emersione dell’evasione fiscale.

Secondo LaVoce (cit. in AGI) viene indicata una cifra tra i 200 ed i 230 miliardi di capitali evasi che sfuggono al fisco. La voce si riferisce ai capitali detenuti illecitamente all’estero, a proposito di cui negli ultimi anni ci sono state diverse iniziative per favorirne il rientro.

Insomma, alla fine dei conti QUANTO CI VERREBBE A COSTARE LA FLAT TAX?

A Questo punto possiamo fare una stima di quanto ci verrebbe a costare una flat tax al 23%.

Abbiamo visto come secondo Berlusconi le minore entrate di 30-40 miliardi sarebbero compensate da maggiori entrate per una cifra pari ad un 87-100 miliardi. Anche considerando i numeri peggiori citati da Forza Italia il saldo sarebbe comunque in positivo per una cifra pari a 47 miliardi.

Il Sole 24 Ore stima un costo di 40 miliardi. Anche prendendo per buona l’ipotesi meno dispendiosa, ovvero quella dei 40 miliardi, e l’emersione della metà dei capitali come pronosticato da Forza Italia resterebbero almeno 20 miliardi di coperture da trovare.

Guardandola insomma da ogni punto di vista, non solo le casse dello Stato non guadagnerebbero 47 miliardi, come sostiene Berlusconi, ma si troverebbero al contrario a dover fronteggiare entrate inferiori per una cifra che oscilla tra i 20 ed i 70 miliardi.

Altro problema, la Costituzione

L’ultimo aspetto da prendere in considerazione, al di là dei numeri è quello della Costituzione. Abbiamo già accennato come la Costituzione italiana parli di “progressività dell’imposta”.

Una tassa unica al 23% per tutti i cittadini e le imprese sarebbe in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione perché consentirebbe alla fetta più ricca di popolazione di pagare la stessa percentuale di tassa di chi guadagna molto meno.

Conclusione

La flat tax esiste in diversi paesi del mondo, ed i molti di essi dopo la sua introduzione c’è stata una forte crescita economica. Con poche eccezioni però va ricordato che si tratta di Paesi che erano da poco usciti dall’economia pianificata sovietica che pertanto avevano la necessità di riformare sistemi di riscossione in grave difficoltà.

Per quello che riguarda l’Italia: nonostante le cifre riportate da Berlusconi le cifre non si discostano molto da tutte le altre stime.

Il tutto ovviamente senza dimenticare il problema di come introdurre una norma che rischia di violare in maniera palese il criterio di progressività fiscale previsto dalla Costituzione. (la maggior parte dei dati e delle analisi sono state prese dal sito di ABI)

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La polemica sul “vincolo di mandato” e l’articolo 67 della Costituzione

Le vacanze di Natale sono state quasi per intero dominate dalla polemica sulla proposta del Movimento Cinque Stelle di multare i parlamentari eletti nelle loro liste che abbandoneranno il Movimento nel corso della prossima legislatura (Per dettagli confrontare il link in allegato http://www.lastampa.it/2017/12/30/italia/politica/multe-da-mila-euro-e-nomi-civici-nei-collegi-le-nuove-regole-ms-dwiOn6lJ7IWWeyVpcCcVDN/pagina.html).

La proposta pone una serie di problemi correlati soprattutto correlati alla Costituzione: pare infatti che la loro proposta sia anticostituzionale in base all’Articolo 67 della Costituzione, cerchiamo di capire nel dettaglio che cosa dice questo articolo per poi cercare di comprendere chi abbia ragione nella polemica.

L’articolo 67 della Costituzione riguarda proprio il vincolo di mandato: l’articolo recita:

” Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

L’articolo in questione tratta del divieto imperativo secondo il quale ogni singolo parlamentare, una volta eletto, non rappresenta gli elettori e non agisce quindi come loro mandatario, perché libero di compiere le scelte (nello specifico di appoggiare o meno l’azione del Governo) che ritiene più opportune.

Questo significa che il parlamentare non può essere chiamato a rispondere civilmente delle proprie decisioni, ma allo stesso tempo non significa che queste non possono avere riflessi nei suoi confronti.

Innanzi tutto esiste una responsabilità politica: ogni parlamentare risponde delle proprie scelte quando, in occasione delle nuove elezioni, il corpo elettorale ha la facoltà di eleggerlo nuovamente o meno.

In secondo luogo, molto spesso ogni membro della Camera è tenuto ad attenersi a quella che è la linea del partito in cui è stato eletto, per cui non è comunque dotato della piena libertà di azione.

Per questo i partiti adottano alcuni provvedimenti che potremmo definire “morali” il cui mancano rispetto può portare anche all’espulsione.

In passato, soprattutto nel corso della Prima Repubblica per garantire il rispetto veniva spesso utilizzata la pratica delle dimissioni con data in bianco e la deposizione anticipata del mandato. Il primo provvedimento veniva firmato all’atto dell’adesione al partito, mentre la seconda pratica avveniva a seguito di una semplice richiesta di abbandono su richiesta del partito stesso.

La ratio legis del provvedimento è facilmente spiegabile: i parlamentari, una volta eletti non rappresentano singoli gruppi o soggetti ma l’intera nazione.

Questa è la parte legislativa, ora cerchiamo di capire come questo, che appare come un elementare principio di libertà di espressione si correla al fenomeno del trasformismo.

La legislatura attuale ha visto parlamentari che potremmo definire particolarmente mobili: 500 cambi di gruppi, una media di 10 al mese. Il che vuol dire che almeno un eletto su tre ha cambiato gruppo parlamentare almeno una volta nel corso della legislatura (alcuni sono arrivati a nove cambi). I due temi sono strettamente correlati: se da una parte un parlamentare può agire liberamente, decidendo di cambiare gruppo è altrettanto vero che i parlamentari non possono essere completamente deresponsabilizzati di fronte al proprio elettorato e serve quindi una regolamentazione del fenomeno.

La Costituzione portoghese ( ad esempio) prevede che l’iscrizione ad un partito diverso da quello in cui si è stati eletti comporta la perdita immediata del proprio mandato elettorale (articolo 160 Cost. Portogallo).

Il trasformismo, correlato proprio all’assenza di regole sul vincolo di mandato, è una delle cause del costante incrinarsi dei rapporti tra elettori ed eletti.

Per ovviare al problema ci possono essere due modi: uno più semplice, uno che richiederebbe più tempo:

  • Rivedere i regolamenti parlamentari
  • Riforma dell’articolo 67 della Costituzione;

Dei due metodi sarebbe decisamente preferibile il primo per una serie di motivi: innanzi tutto perché richiederebbe un iter più semplice, e secondo perché sarebbe un provvedimento a “basso rischio di incostituzionalità” perché avrebbe meno ripercussioni su quelli che sono i diritti e le libertà dei deputati e dei senatori (la proposta è stata presa da un articolo di open polis) questo senza arrivare a multe e liste di proscrizione da parte di questo o quel partito.