Come ogni formazione di un nuovo Governo riemerge la polemica solita sul fatto che ci sono molti ministri “non laureati”. Oltre al caso di Luigi di Maio – promosso agli Esteri – viene citato il caso di Teresa Bellanova, Ministro per l’Agricoltura non laureato e proprio per questo bersaglio delle critiche di una parte della dirigenza politica.
L’ennesimo episodio di “contestazione alla mancata laurea” mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti storici della questione del rapporto che intercorre o quantomeno deve intercorrere tra la laurea e la politica.
Per comprendere e per spiegare esattamente quello che vorrei dire però è necessario partire da una piccola parentesi storica: ovvero, il ruolo che nella “Prima Repubblica” (utilizzo questo termine per identificare il periodo che va dal 1945 al 1991 circa, segnato dalla presenza dei partiti definiti “di massa”) hanno avuto le scuole di formazione politica all’interno dei partiti.
Quando si parla di “scuole di partito” si tende a parlare di un fenomeno culturale ben preciso, che non veniva utilizzato solo per fare propaganda politica ma anche e soprattutto per fornire alle persone meno abbienti gli strumenti per poter essere cittadini indipendenti.
Nelle scuole di partito non veniva insegnata solo la dottrina politica ma spesso si insegnava anche a leggere e scrivere, visto il tasso di analfabeti piuttosto alto (soprattutto al Sud Italia) e visto che non tutti potevano permettersi di andare a scuola regolarmente o permettersi di studiare.
Le scuole di formazione, dunque, non avevano solo una funzione “ideologica” ma anche e soprattutto una funzione “sociale” molto forte.
Ma la “scuola di partito” non aveva solo questa funzione, ne aveva anche un’altra molto più pratica: formare i dirigenti del partito e gli amministratori che avrebbero dovuto amministrare la “Cosa Pubblica”, visto che non tutte le lauree sono adatte alla carriera politica (e del resto sarebbe anti costituzionale limitare la possibilità di lavoro solo ad alcune lauree) da qui la necessità che emergeva di affiancare alla carriera accademica quella più “pragmatica” della scuola di partito.
Inoltre molto spesso chi non era laureato nella Prima Repubblica non lo era perché era iscritto all’università ma era già impegnato nella vita di partito (come avvenne ad esempio a Bettino Craxi – primo Ministro degli Esteri a non essere laureato – oppure a Massimo d’Alema, anche lui prima Presidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nel Governo Prodi II).
Se ci soffermiamo sulla questione della “funzione sociale” della scuola di partito possiamo dire che questa era possibile in un sistema dove i partiti ed i politici avevano ancora a mente la loro funzione sociale prima che politica e quindi avevano interesse ad avere anche un elettorato consapevole che sapesse esattamente che cosa o perché votasse, anche se non si trattava solo di questo (l’aspetto dell’istruzione in Italia spero sarà uno dei prossimi argomenti da affrontare, poiché qui sarebbe un argomento troppo vasto e porterebbe a delle conclusioni completamente sballate rispetto al tema principale).
La questione del rapporto tra laurea e politica è emersa quando la crisi del mondo del lavoro ha creato una condizione per cui ci siamo trovati con una massa di laureati iper specializzati che però non riuscivano a trovare prospettive di lavoro.
Se a questo uniamo la funzione “puramente utilitaristica” assunta dalla politica sin dall’avvento di Berlusconi nel 1994 (politica che quindi ha completamente abbandonato la sua funzione sociale) è facile comprendere come e perché si sia venuta a creare una simile discrasia di idee: la laurea viene visto come sinonimo di preparazione sufficiente per fare politica, come se la politica fosse un posto di lavoro come un altro e non un incarico conferito ai cittadini dallo Stato.
Qui subentra però un altro ordine di problema: quale laurea bisogna prendere per poter fare politica?
A rigor di logica le lauree che sono più vicine a fornire gli strumenti per poter governare un Paese con cognizione sono le lauree di scienze dell’amministrazione (Economia, Scienze Politiche e Giurisprudenza) e quelle più strettamente tecniche per quello che riguarda gli altri incarichi, per cui: Ingegneria, Medicina e via dicendo a seconda dei Ministeri che si devono coprire.
Questa scelta tuttavia rischierebbe di escludere – ad esempio i laureati in Materie Umanistiche (che potrebbero occupare solo la casella del Ministero dei Beni Culturali ad esempio) – perché per assurdo non utili all’aspetto pratico della Pubblica Amministrazione.
Dovremmo pensare ad un corso di laurea in Pubblica Amministrazione per chi vuole occuparsi di politica?
Oppure è sufficiente che i singoli partiti rimettano al centro della propria azione politica anche e soprattutto la formazione delle classi dirigenti e degli amministratori?
La questione rimane aperta e sarebbe un buon modo per “restituire” alla politica il proprio ruolo istituzionale, ripensando alla possibilità di tornare ad un cursus honorum prima di intraprendere la carriera parlamentare.
Un lavoro che si potrebbe anche presentare difficile ma che può essere una strada possibile per restituire – appunto – alla politica la propria dignità.