Laurea o formazione politica?

Come ogni formazione di un nuovo Governo riemerge la polemica solita sul fatto che ci sono molti ministri “non laureati”. Oltre al caso di Luigi di Maio – promosso agli Esteri – viene citato il caso di Teresa Bellanova, Ministro per l’Agricoltura non laureato e proprio per questo bersaglio delle critiche di una parte della dirigenza politica.

L’ennesimo episodio di “contestazione alla mancata laurea” mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti storici della questione del rapporto che intercorre o quantomeno deve intercorrere tra la laurea e la politica.

Per comprendere e per spiegare esattamente quello che vorrei dire però è necessario partire da una piccola parentesi storica: ovvero, il ruolo che nella “Prima Repubblica” (utilizzo questo termine per identificare il periodo che va dal 1945 al 1991 circa, segnato dalla presenza dei partiti definiti “di massa”) hanno avuto le scuole di formazione politica all’interno dei partiti.

Quando si parla di “scuole di partito” si tende a parlare di un fenomeno culturale ben preciso, che non veniva utilizzato solo per fare propaganda politica ma anche e soprattutto per fornire alle persone meno abbienti gli strumenti per poter essere cittadini indipendenti.

Nelle scuole di partito non veniva insegnata solo la dottrina politica ma spesso si insegnava anche a leggere e scrivere, visto il tasso di analfabeti piuttosto alto (soprattutto al Sud Italia) e visto che non tutti potevano permettersi di andare a scuola regolarmente o permettersi di studiare.

Le scuole di formazione, dunque, non avevano solo una funzione “ideologica” ma anche e soprattutto una funzione “sociale” molto forte.

Ma la “scuola di partito” non aveva solo questa funzione, ne aveva anche un’altra molto più pratica: formare i dirigenti del partito e gli amministratori che avrebbero dovuto amministrare la “Cosa Pubblica”, visto che non tutte le lauree sono adatte alla carriera politica (e del resto sarebbe anti costituzionale limitare la possibilità di lavoro solo ad alcune lauree) da qui la necessità che emergeva di affiancare alla carriera accademica quella più “pragmatica” della scuola di partito.

Inoltre molto spesso chi non era laureato nella Prima Repubblica non lo era perché era iscritto all’università ma era già impegnato nella vita di partito (come avvenne ad esempio a Bettino Craxi – primo Ministro degli Esteri a non essere laureato – oppure a Massimo d’Alema, anche lui prima Presidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nel Governo Prodi II).

Se ci soffermiamo sulla questione della “funzione sociale” della scuola di partito possiamo dire che questa era possibile in un sistema dove i partiti ed i politici avevano ancora a mente la loro funzione sociale prima che politica e quindi avevano interesse ad avere anche un elettorato consapevole che sapesse esattamente che cosa o perché votasse, anche se non si trattava solo di questo (l’aspetto dell’istruzione in Italia spero sarà uno dei prossimi argomenti da affrontare, poiché qui sarebbe un argomento troppo vasto e porterebbe a delle conclusioni completamente sballate rispetto al tema principale).

La questione del rapporto tra laurea e politica è emersa quando la crisi del mondo del lavoro ha creato una condizione per cui ci siamo trovati con una massa di laureati iper specializzati che però non riuscivano a trovare prospettive di lavoro.

Se a questo uniamo la funzione “puramente utilitaristica” assunta dalla politica sin dall’avvento di Berlusconi nel 1994 (politica che quindi ha completamente abbandonato la sua funzione sociale) è facile comprendere come e perché si sia venuta a creare una simile discrasia di idee: la laurea viene visto come sinonimo di preparazione sufficiente per fare politica, come se la politica fosse un posto di lavoro come un altro e non un incarico conferito ai cittadini dallo Stato.

Qui subentra però un altro ordine di problema: quale laurea bisogna prendere per poter fare politica?

A rigor di logica le lauree che sono più vicine a fornire gli strumenti per poter governare un Paese con cognizione sono le lauree di scienze dell’amministrazione (Economia, Scienze Politiche e Giurisprudenza) e quelle più strettamente tecniche per quello che riguarda gli altri incarichi, per cui: Ingegneria, Medicina e via dicendo a seconda dei Ministeri che si devono coprire.

Questa scelta tuttavia rischierebbe di escludere – ad esempio i laureati in Materie Umanistiche (che potrebbero occupare solo la casella del Ministero dei Beni Culturali ad esempio) – perché per assurdo non utili all’aspetto pratico della Pubblica Amministrazione.

Dovremmo pensare ad un corso di laurea in Pubblica Amministrazione per chi vuole occuparsi di politica?

Oppure è sufficiente che i singoli partiti rimettano al centro della propria azione politica anche e soprattutto la formazione delle classi dirigenti e degli amministratori?

La questione rimane aperta e sarebbe un buon modo per “restituire” alla politica il proprio ruolo istituzionale, ripensando alla possibilità di tornare ad un cursus honorum prima di intraprendere la carriera parlamentare.

Un lavoro che si potrebbe anche presentare difficile ma che può essere una strada possibile per restituire – appunto – alla politica la propria dignità.

La cultura, da “forma di emancipazione” ad “arma di discriminazione”

La cultura è sempre stata oggetto di particolare attenzione da parte della sinistra, soprattutto quella comunista.

L’idea che la cultura fosse necessaria per l’emancipazione delle masse (e fare quindi in modo che la masse prendessero coscienza dello sfruttamento a cui le sottoponeva il capitalismo) era una delle “armi” usate da comunismo per costruire il processo che avrebbe dovuto portare alla rivoluzione delle masse.

In questo quadro ricoprivano un ruolo fondamentale gli intellettuali, i quali avevano il “compito” di curare l’aspetto formativo delle masse (in particolare quelle operaie) attraverso testi di divulgazione e scuole di partito.

La cultura per la classe dirigente che veniva dalla Prima Repubblica (ed aveva conosciuto la scarsa alfabetizzazione) era una elemento imprescindibile per la formazione dell’individuo e la scuola ricopriva in questo un ruolo fondamentale (vedremo più avanti il ruolo che in questo contesto ha assunto la scuola).

La grande battaglia era dunque quella di rendere il sapere accessibile a tutti o quantomeno al maggior numero di persone senza tenere conto della loro situazione economica, famigliare o politica.

Con la fine delle ideologie e la progressiva accettazione del sistema capitalista che fa della “competizione” e della “supremazia” i suoi cavalli di battaglia (ovviamente ragionando per eccesso) la cultura è diventata da “forma di emancipazione delle masse” come la aveva pensata ad esempio Antonio Gramsci “arma di repressione delle masse”  laddove il diritto di parola spetta non a tutti ma solo a chi può vantare nel suo curriculum almeno una laurea o un dottorato.

Questa tendenza è stata accentuata con l’avvento del Movimento Cinque Stelle, al quale la cosa che viene maggiormente contestata è la “scarsa formazione della sua classe dirigente” (non voglio qui analizzare il Movimento Cinque Stelle o difenderlo ma solo fare una analisi sul ruolo che la cultura ricopre oggi nel dibattito politico ed è impossibile farlo senza tenere conto del Movimento), non nel senso istituzionale ma nel senso scolastico.

Mancando completamente a parte di “critica al sistema” (di cui anzi l’opposizione si fa espressione e garante) i parlamentari del Movimento Cinque Stele vengono contestati non solo per le loro idea (che non sono antisistema) ma sulla base della loro formazione e della loro militanza politica.

Possiamo fare due esempi per spiegare meglio questa tendenza: il primo è il contestare a Di Maio aver fatto lo steward allo Stadio San Paolo, come se aver lavorato potesse essere una grave discriminante per fare politica.

Il secondo caso che mi viene in mente di citare è quello del professor Burioni (sì, proprio quello che difende i vaccini) che in una discussione con un docente precario di filosofia della scienza si è sentito contestare non la sua opinione, ma il fatto stesso di essere precario, come se questa potesse essere una discriminante a discutere con un professore ordinario.

Qui abbiamo un altro passaggio del concetto di “cultura come fonte di potere”.

La cultura diventa un elemento di supremazia sulla massa e come tale viene trattata.

La sinistra se vuole tornare ad essere di sinistra deve innanzi tutto restituire alla cultura il proprio ruolo di emancipazione delle masse e non più di supremazia di una massa su un’altra.

“Chi possiede la cultura possiede il potere” e la cultura è l’unico potere che può e deve essere di tutti.

Buon 2019

“Quali sono i propositi per il nuovo anno”? Come ogni fine anno si riapre il dibattito su quelli che sono i propositi e le speranze per il nuovo anno, con la speranza che per molti possa essere l’anno della svolta. Tempo di bilanci lo è anche per chi governa, e non parlo solo della politica ma anche per chi necessariamente si trova ad amministrare posizioni di potere.

Come ogni anno la rivista #Wired ha pubblicato un numero speciale su quelle che saranno (o che almeno dovrebbero essere) le parole chiave del nuovo anno. Consiglio la lettura della rivista a tutti coloro che in qualche modo pensano che il “progresso” sia alla base dell’evoluzione dell’essere umano e per tutti coloro che in qualche modo hanno interesse a pensare a come migliorare le condizioni di vita dell’essere umano.

In particolare sono rimasto colpito da una parola: Umanesimo.

In un’epoca dove la tecnologia prende sempre più potere ed in momento in cui l’uomo sembra scomparire è necessario andare in controtendenza e riproporre un modello di visione della società in grado di rimettere l’uomo al centro dell’azione anche se attraverso l’interazione con la macchina. Quello che si legge nella spiegazione è: “Da disciplina tecnica a umana: questo è il passaggio necessario affinché la tecnologia sia un elemento positivo per collettività” (Wired, edizione Inverno, nr. 87 p. 87).

La parola “Umanesimo” mi affascina da tempo, sin da quando me la sono trovata davanti nei miei studi di storia, di filosofia, di comprensione dei processi dell’evoluzione umana, ritengo che il termine sia ben più importante di quello molto più conosciuto di “Rinascimento”, perché il secondo non ci sarebbe mai potuto essere senza il primo. La “Rinascita” del pensiero umano – tanto osannata – avvenuta negli anni che vanno dalla fine del Quattrocento sino più o meno alla fase dell’Illuminismo non sarebbe stata possibile se prima non si fosse deciso di rimettere al centro dell’azione umana l’uomo nella sua dimensione naturale, come essere dotato di ragione e come tale capace di comprendere quelle che sono le ragioni del pensiero umano.

Umanesimo quindi, un processo che oggi deve necessariamente assumere una nuova connotazione, deve essere capace di rimettere al centro di tutto l’uomo non in quanto “individuo” ma in quanto “essere umano” quindi non in quanto appartenente ad una razza o ad una religione ma in quanto appartenente al “genere umano”. Come può questo termine essere correlato alla tecnologia? Come può una cosa apparentemente fredda come la “tecnologia” essere di aiuto a rimettere l’essere umano al centro dell’evoluzione?

La tecnologia è ancora una dimensione dell’azione umana che spaventa, spesso si sente dire “tutta questa tecnologia dove ci porterà?” e ci si lamenta di come la tecnologia abbia “spento il nostro cervello” è vero, ma è vero solo in parte.

Se è vero che tecnologia da una parte ha “semplificato” la nostra vita, rendendo il nostro cervello sempre più pigro, è anche vero che i processi tecnologici hanno portato alla creazione di strumenti che migliorano decisamente la nostra mente ed il nostro modo di agire.

L’essere umano ha sempre guardato con timore alla “tecnologia” intesa in senso filosofico, probabilmente perché la tendenza è quella di temere ciò che non siamo in grado di comprendere.

Probabilmente è quanto successo quando sono state messe in discussione le certezze della “Terra come centro dell’universo” e probabilmente i contemporanei di Galileo o di Copernico hanno fatto le stesse obiezioni che oggi i nostri genitori fanno alla costante evoluzione tecnologica.

Eppure, Intelligenze Artificiali, macchine pensanti, telefoni che somigliano sempre più a dei computer capaci di interagire tra loro con altri strumenti tecnologici oggi sono una certezza del nostro mondo e attraverso questa certezza l’uomo deve recuperare il proprio centro nel mondo.

Pensare solo agli aspetti negativi della tecnologia vuol dire non comprendere la portata di quello che sta accadendo nel mondo e qui allora torniamo al nostro punto di partenza “la costruzione di un nuovo Umanesimo”.

Per quanto elaborare concetti troppo elaborati su un semplice articolo di un blog possa essere complicato (le argomentazioni sarebbero troppe) possiamo però provare a tracciare delle linee guida auspicando più che consigliando quello che dovrebbe avvenire.

Innanzi tutto perché l’uomo possa sviluppare una forma di comprensione maggiore della tecnologia ( e delle implicazioni di questa sulla propria vita) è necessario aprire la propria mente ad una forma di “empatia”, che si possa allargare non solo alla comprensione dei bisogni e delle necessità degli altri uomini suoi simili ma anche e soprattutto alla “comprensione” (anche se non è propriamente corretto il termine “comprensione”) delle macchine. Una maggiore empatia tra gli uomini non può che agevolare una maggiore empatia nell’integrazione uomo – macchina e non possiamo che considerare questo aspetto come una forma di “evoluzione della specie post darwiniana”.

In questo sviluppo “empatico” della società deve aiutare anche la classe politica, la quale deve iniziare a mettere al centro della propria azione “l’uomo” non in base al semplice tornaconto elettorale ma anche e soprattutto sulla base dell’evoluzione come essere umano. Pensare a politiche che sempre più vadano in direzione del miglioramento della condizione umana e che sempre più aiutino l’uomo a sviluppare quei processi empatici necessari per una maggiore integrazione e di conseguenza di un maggiore progresso in grado di superare le differenze di razza, religione, colore della pelle, e tutte quelle cose che oggi vengono considerate in qualche modo “discriminatorie”.

Per ora ci fermiamo, però torneremo ancora sui procedimenti e processi che potrebbero in un futuro (si spera nemmeno tanto lontano) essere elementi chiave per la costruzione di una nuova forma di umanesimo.

E vorrei chiudere (se mi è concesso) con un altro termine che in questa fase deve tornare ad essere sulla bocca di tutti, perché strettamente correlato alla parola “Umanesimo”, ed è la parola Ottimismo.

Dobbiamo guardare al futuro con ottimismo, pensare che tutto con il tempo non potrà che migliorare, perché il cambiamento, diceva Buddha

“Il cambiamento non è mai doloroso, solo la resistenza al cambiamento lo è”

Senza Rete

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Sono mancato per un poco su queste pagine, vero?

Non so quanti mi leggessero, o quanti avessero la costanza di seguire le mie elucubrazioni mentali , ma in questi mesi che sono mancato avevo anche pensato di dare una evoluzione al mio blog, fare una pagina che parlasse più di me, di quello che sono, avrei voluto, ma sino a questo momento non ho potuto farlo.

Perché direte?

Perché ad agosto di quest’anno ho cambiato casa, sono andato a vivere al centro storico e prima di farlo avevo chiamato la società telefonica della Tim per sapere se era possibile avere la connessione internet.

Le prime risposte sono state rassicuranti,  era solo questione di giorni e poi avrei avuto la connessione.

Bene, da quel momento inizia un calvario che ancora oggi non ha fine.

La società telefonica della Tim dopo sette mesi di ripetuti contatti, richieste, promesse evase, appuntamenti non rispettati, telefonate  a prese in giro non solo non ha ancora installato la connessione ma non si capisce nemmeno se sono in grado di attaccarla.

Ma andiamo con ordine, partendo dal mese di settembre, quando tutta questa storia ha inizio.

LA RETE LA METTE SOLO TELECOM (?)

Tutto inizia quando inizio a girare per avere una connessione a casa.

Dopo aver contattato la Tim per chiedere se fosse possibile avere la rete e fissare un appuntamento con un tecnico con l’installazione ricevo nel mese di settembre una visita del tecnico che mi spiega in maniera piuttosto chiara che non è possibile mettere la rete perché la Tim non ha spazio nelle cabine in quel momento, quindi la mia unica alternativa sarebbe quella di contattare la Tim e chiedere la possibilità di avere una cabina dove poter collegare la rete oppure aspettare che si liberi la Rete.

Dopo la visita del tecnico inizio a sentire altri operatori telefonici: Fastweb, Libero, Vodafone, e tutti danno la stessa risposta: senza la Tim che mette la Rete non è possibile intervenire, perché la sola compagnia che ha il monopolio della messa in posa degli impianti è proprio la Telecom (o Tim) ed allora da qui il primo problema: se una sola compagnia ha in mano il monopolio dell’intero mercato delle infrastrutture, come può avere interesse a metterti l’impianto sapendo che io posso cambiare operatore? E non solo, chi mi dice che questo loro comportamento non serva per far scadere offerte vantaggiose della concorrenza? Ma questo tralasciamolo, limitiamoci a riportare i fatti.

Siamo a settembre, dunque.

A dicembre scopro che il solo modo per avere la connessione è fare richiesta alla Tim della cabina, lo comunico alla mia amministrazione di condominio che prontamente chiama il reparto tecnico della Tim per posizionare la cabina all’interno del palazzo condominiale.

Nel frattempo vengo contattato di nuovo dalla Tim (Ufficio commerciale) che mi consiglia di accettare l’offerta comunque per bloccarla nonostante non abbia ancora la rete (un pò come comprare il casco prima di comprare la moto in attesa che la moto arrivi), tanto ci vogliono massimo “due mesi” perché tutti i lavori vengano portati avanti, ed in effetti ci sono voluti due mesi, per mettere la cabina.

Nel mese di febbraio effettivamente avevo la cabina posizionata, pronta per essere posizionata e per essere utilizzata con la mia bellissima offerta Telecom: avrei finalmente potuto navigare, tornare a lavorare occupandomi di programmazione e social network , tralasciando quello che era l’aspetto ludico, perché ormai senza connessione non si vive, tanto che “la libertà di accesso alla Rete” viene tutelata da un comma dell’art. 21 della Costituzione come un “diritto dell’individuo”.

Ovviamente alla compagnia telefonica di bandiera di tutto questo non frega niente per cui ce ne freghiamo anche noi ed andiamo avanti con il racconto.

Dunque, dopo aver messo la cabina contatto il 187 (numero del servizio  clienti) e vengo rassicurato: entro il mese di marzo dovrei avere la connessione.

Siamo nel mese di aprile inoltrato (quasi a maggio) e non solo non si vede ancora la connessione ma non si vede all’orizzonte nemmeno la possibilità di averla nonostante le ripetute sollecitazioni da parte mia, rassicurazione da parte loro,  altri appuntamenti con tecnici mancati (addirittura più di una volta o sono stato costretto a chiamare io il Servizio Clienti per sapere che il loro appuntamento era saltato oppure venivo a sapere dell’appuntamento DOPO che questo era stato effettivamente fissato a mia insaputa).

Ovviamente la Tim ha messo a disposizione due numeri di telefono, uno quello della sede legale l’altro della sede amministrativa: due numeri inesistenti che rimandano al 187, ovviamente senza averti detto nulla.

In questi otto mesi non sono riuscito a parlare con  un tecnico, un dirigente, un contatto utile, mi sono trovato spesso a dover parlare con operatori di Call Center che non solo non conoscono la situazione ma in alcuni casi mi hanno anche chiamato per offrirmi di passare a Tim (!).

Perché succede questo?

MA perché la Tim ha subbalpaltato la gestione del servizio clienti a compagnie di call center che non sono in grado di risolvere i problemi ma che hanno il solo compito di “rabbonire” il cliente senza offrire alcuna soluzione.

Quindi io mi trovo costretto a spendere almeno 30/50 euro dal telefono perché sono costretto a lavorare dall’Hotspot del telefono cellulare (quello non Tim però, ed un giorno parleremo anche della telefonia in generale perché anche quello è un mondo tutto da scoprire).

Dunque tornando a noi: siamo al mese di aprile e da almeno due settimane la Tim continua a non fornire risposte alle mie richieste di attivazione della Rete ed ovviamente evitando accuratamente di ammettere le proprie responsabilità di quella che è una vera e propria presa in giro ai danni di chi vorrebbe tanto avere la connessione.

Probabile che alla fine ceda e cambi operatore,  ma non credo che nel momento in cui succeda se mi chiedono una rete buona possa dire “Passa a Telecom, sicuramente ti troverai bene”

 

Crowdfunding, uno strumento per trovare finanziamenti

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Ogni volta che si inizia un progetto, una campagna elettorale o una app la prima cosa che ci si chiede è: come e dove trovo i fondi per la mia campagna?

Uno dei metodi più semplici ed allo stesso tempo più efficaci per trovare finanziamenti è il Crowdfunding parola inglese composta da crowd (letteralmente “folla”)che fornisce somme di denaro da investire in un progetto funding.

Nel crowdfunding il progetto no deve per forza essere imprenditoriale, può anche essere un progetto benefico (per esempio la raccolta funghi di una pagina elettorale). I soldi che vengono versati dalla folla sono “donazioni”; chi conferisce denaro al massimo può ottenere una ricompensa ma niente di più.

Esiste anche una forma diversa di crowdfunding, dove i soldi versati sono considerati come dei veri e propri investimenti. In questo caso il finanziatore acquisisce quote o azioni (equity) diventando in questo modo socio dei fondatori.

Questo comporta che il promotore (cioè colui che richiede i soldi) può essere esclusivamente una società di capitali.

Come la sua versione meno “finanziaria” anche l’equity crowdfunding avviene online sebbene solo su portali regolati dalla Consob. 

Come posso sapere a chi rivolgermi? 

La società interessata a raccogliere fondi deve rivolgersi ad un portale autorizzato e sotto la vigilanza della Consob. Si tratta di piattaforme online che di solito fanno da intermediari tra le startup e gli investitori soprattutto nella raccolta dei capitali di rischio. Viene stipulato un contratto di servizi ed il portale lancia la campagna. Se la campagna va a buon fine la piattaforma riceverà un pagamento ottenuto dalla percentuale del capitale raccolto (di solito il 5%).

Chi frequenta i portali di equity crowdfunding sono di solito investitori con ingenti risorse economiche e l’investimento medio è intorno ai 9500 euro anche se non è difficile trovare anche investimenti di 2000 euro. Gli investitori dell’equity crowdfunding sono dei veri e propri “business angel” disposti a spendere capitali su progetti validi, per cui chi presenta il progetto deve essere il più accurato possibile nella presentazione di un business plan ed un minimo di documentazione societaria. Sarebbe meglio anche presentare una documentazione che dimostri la fattibilità del progetto: non è possibile proporre un progetto che non sia stato sufficientemente analizzato. Tante idee innovative sono ben lontane dall’essere finanziabili. 

Prima di fissare una cifra da richiedere è necessario avere un business plan ed innanzi tutto essere a conoscenza  di una serie di parametri:

  1. Valutazione aziendale 
  2. Bisogno di cassa
  3. Redditività

 

Di solito si fissa un obiettivo massimo ed uno intermedio. Se questo obiettivo non viene raggiunto i soldi vengono  restituiti e la startup non ne entra semplicemente in possesso. Va fissato sempre anche un Obiettivo massimo per  esempio di dare via tra il 35 ed il 45% del Capitale sociale.

Questa forma di finanziamento non è per tutti: è riservata a chi ha un progetto pronto per il mercato o prossimo all’avvio del fatturato.

Va ricordato che una strategia di marketing efficacie ed adeguata va studiata a fondo in termini di promozione, perché non sempre i finanziatori sono competenti in materia e sanno di cosa si sta parlando e vanno “conquistati” e con una buona campagna di marketing si ottengono maggiori risultati in termini di promozione.

UNA CAMPAGNA INADEGUATA può causare un danno di immagine notevole per l’azienda oltre che creare un danno economico. 

In Italia questa forma di finanziamento è ancora in fase di sviluppo e di crescita: al momento sono 12 i progetti capitalizzati, per un totale di 3,4 milioni di euro (fonte Millionaire n. 3 Marzo 2016). 

Nonostante sia un mercato ancora agli inizi il success rate è del 44% mentre nel resto del mondo è fermo al 10. Il che significa che in Italia quasi un progetto su due ottiene i finanziamenti ed il capitale richiesto.

Niente male per un Paese che viene considerato “fermo”.

Politica e Social Media, qualche errore da evitare

Da anni ormai la discussione politica, oltre che sui canali di comunicazione classica si è spostata sui social network.

Facebook, Twitter, Instagram, WordPress e Tumblr solo per citare alcuni tra i social network più gettonati, sono sempre più al centro del modo di comunicare della politica e sempre più serve affidare la comunicazione a personale specializzato.

Mentre negli Stati Uniti la comunicazione sui social viene presa in seria considerazione come strumento per creare consenso e tramutare quel consenso in volontariato per la politica, in Italia lo strumento dei social media viene ancora sottovalutato dalla maggior parte dei politici.

Non tutti i politici dispongono ad esempio di una pagina Facebook e Twitter e non tutti lo utilizzano nel migliore dei modi, anzi molti tendono a fare degli strumenti mediatici un pessimo uso, spesso fine a sé stesso e senza una strategia precisa di come una pagina ed un account vadano gestiti.

Vorrei dedicare questa parte del blog a tutti coloro che si ritengono “addetti ai lavori” o che sono più o meno interessati alla comunicazione digitale ed alla comunicazione in genere come strumento per creare militanza e consenso.

Prima di tutto una premessa: iniziando adesso ad occuparmi di questo argomento quello che scriverò sarà solo la prima considerazione di una serie di errori che ho riscontrato nella gestione dei social, andando avanti cercheremo di essere sempre più precisi e scendere sempre di più nel dettaglio.

  1. MANCANZA DI PERSONALE QUALIFICATO 

Comunicare sui social network non è una cosa semplice, un semplice post su Twitter può far perdere consensi elettorali, suscitare l’ilarità del web, scatenare un dibattito che porta ad una perdita di consensi su un politico.

Prendiamo un caso eclatante delle elezioni a Milano che hanno visto la vittoria di Pisapia alle amministrative: sulla pagina Twitter della sfidante del sindaco di centrosinistra, Letizia Moratti compare una mattina una domanda “che cosa ne pensa il sindaco del progetto di costruzione della moschea nel quartiere di Sucate?”; lo staff della candidata risponde prontamente che il progetto sarebbe sicuramente stato bloccato, e che quindi i cittadini potranno stare tranquilli che non ci sarà nessuna moschea. Sin qui niente di male, se non fosse che il municipio di “Sucate” non esiste e quindi la risposta scatenò l’ironica reazione del popolo di Twitter anche sulla base del doppio senso del nome del quartiere.

Di per sé questo episodio ci fa capire principalmente due cose: primo, lo staff della Moratti non conoscendo Milano ha risposto sulla base di un post senza documentarsi; secondo, l’episodio è stato deleterio per la Moratti perché la risposta era sulla sua pagina Twitter e quindi era lei ad ignorare che il quartiere  a Milano non esiste.

Una delle tendenze di molti politici è quella di affidare la comunicazione ad amici “smanettoni” che sanno più o meno come si usano i social e passano il loro tempo su Internet. Persone di buona volontà che si spendono per promuovere un candidato che però commettono errori grossolani per l’appunto come quello di Sucate. In  questo caso quello che è mancato è stata la capacità di controllare la veridicità della notizia prima di rispondere (bastava andare su Google per sapere che Sucate non esiste) e rispondere con toni ironici alla notizia pubblicata.

Qui sorge allora un altro problema: la maggior parte dei politici (e spesso anche delle società) affida la comunicazione sui social ad una sola persona che da sola si trova a dover gestire spesso e volentieri tre, quattro a volte anche cinque social network applicando lo stesso criterio di gestione a tutti i social. Per esempio: una persona bravissima a gestire Facebook non è detto che sia altrettanto capace a gestire Twitter o Instagram o Pinterest. Uno staff di comunicazione dovrebbe essere composto da almeno due team che si occupano di cose diverse e che devono tra loro interagire.

2. I COMMENTI 

A chi non è capitato almeno una volta di scrivere qualcosa su Facebook o Twitter e ottenere delle critiche e delle risposte negative al proprio commento? Più o meno a tutti, anche tra i nostri amici non tutti la pensano come noi e non tutti sono disposti ad accettare il proprio punto di vista. Ho notato che molti politici e dirigenti hanno la tendenza a scrivere sui social network e poi lasciare i commenti in balia degli umori della rete con effetti deleteri sulla gestione della pagina.

Prendiamo un politico che sulla sua pagina Facebook per i primi due post riceve una critica da parte di un elettore (o di un ex elettore): magari gli viene fatto notare come nel periodo in cui lui era amministratore o quando lo era il suo partito c’erano stati dei problemi su appalti o casi di tangenti o altre cose simili, come si deve comportare lo staff? Ovviamente deve rispondere, spiegando la posizione e magari cercando di far ragionare quel dato elettore che la situazione non era esattamente quella. Ad esempio prendendo le distanze dall’episodio, facendo notare che il quel periodo il candidato non era in amministrazione. Non rispondere ai commenti negativi potrebbe essere inteso come un “silenzio assenso”, non so cosa rispondere perché è vero. Sarebbe buona norma rispondere ai commenti negativi magari esordendo con un “caro elettore, ti ringrazio per la segnalazione, sarà mia premura una volta eletto risolvere questo problema” indicando anche una breve descrizione di come si intende risolverlo. Lo stesso vale per i commenti positivi, in modo che un elettore “fidelizzato” si senta ancora più legato a quel candidato, perché si sente parte di un progetto.

3. CREAZIONE DEL CONSENSO 

I social, per utilizzare una terminologia ripresa dal sociologo polacco naturalizzato americano Zygmunt Baumann sono l’esempio per eccellenza di “società liquida”: la rete è un immenso contenitore globale dove ognuno nascosto da una tastiera esprime la propria idea e si rende partecipe di una protesta o di un progetto spesso chiedendo proprio attraverso i social di essere partecipe attivo di un cambiamento. Lasciare da solo queste persone vuol dire perdere un potenziale voto ed un potenziale elettore/sostenitore. Sarebbe bello se ad ogni persona che esprime idee costruttive si dicesse: “mi piace la tua idea, perché non ne discutiamo insieme? Noi ci vediamo tutti i giovedì a quest’ora proprio per discutere di queste problematiche….”. In questo modo la persona si sente coinvolta ed in questo modo si costruisce attorno al candidato un consenso che va ben al di là del semplice commento sul social trasformando quel consenso “mediatico” in partecipazione concreta.

A grandi linee questi sono alcuni degli accorgimenti che andrebbero presi nella gestione di una pagina social, nel corso del tempo verranno discusse ed analizzate anche altre problematiche relative alla gestione delle pagine e della creazione del consenso, prendendo anche spunto da quanto già fatto da altri, studiando casi positivi ed analizzando casi negativi, con la speranza che questi consigli possano essere utili e costruttivi sia per chi pensa di volerlo fare come lavoro sia per chi non è addetto ai lavori ma comunque ha un interesse in materia. 5-insanely-simple-affordable-social-media-tactics-for-small-businesses