Elezioni 2022: La strategia “rassicurante” del Partito Democratico

Dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle e del suo tentativo di svolta a sinistra, cerchiamo ora di comprendere meglio quali sono le scelte in campagna elettorale del Partito Democratico.

Prima di iniziare bisogna premettere che la strada del partito di Enrico Letta, segretario del partito, si trova a dover affrontare una strada tutta in salita.

Innanzi tutto il Partito Democratico negli ultimi dieci anni è stato quasi sempre al Governo – se si esclude la parentesi del governo gialloverde – e quasi mai è riuscito ad incidere sulle sorti del Paese se non in peggio.

Bisogna ricordare che alcune delle peggiori riforme del mercato del lavoro (Jobs Act) e riforma della scuola (Buona Scuola) portano la firma proprio del Partito Democratico.

Visti i non facili richiami al passato Letta ha deciso di incentrare la campagna elettorale su due punti in particolare: puntare sul senso di responsabilità del partito negli ultimi anni e soprattutto demonizzazione dell’operato dell’avversario.

Seguendo uno schema ormai collaudato nella sinistra (soprattutto quando la sinistra non ha niente da dire) si attacca l’avversario senza fare alcun accenno al proprio programma elettorale o facendo accenni molto ridotti alla fatidica domanda “Che cosa farete una volta al Governo?”.

Il Partito Democratico è stato al governo per almeno dieci degli ultimi 13 anni, alternando sconfitte elettorali e Governi tecnici dando spesso anche spettacolo portando in Parlamento quelle che erano le guerre interne al partito.

L’ultima esperienza di governo prima del Governo Draghi non può essere di certo definita un successo politico: appoggio incondizionato al Conte II (dopo che questi ha trasferito quasi per intero il governo con Lega in quello con il PD), una gestione della pandemia quantomeno confusa e non sempre irreprensibile e soprattutto – al livello politico – la scissione con Renzi che appena esce dal partito inizia sin da subito a far cadere il governo giallorosso (o giallorosa) che lui stesso aveva contribuito a creare mettendo il partito di fronte al fatto compiuto e costringendolo de facto ad appoggiare il Governo Draghi.

Tutto condito dal solito mantra del PD “non possiamo andare al voto in questo momento altrimenti vincono gli altri”.

Questa scelta di fare “non politica” da parte del PD ha portato nel corso degli anni ad una vera e propria emorragia di consensi, si è passati dal 40% di Renzi a poco più del 21% di oggi da considerare un successo dopo il 18% preso alle ultime elezioni.

Enrico Letta decide di puntare – soprattutto per recuperare voti al centro – sulla prosecuzione dell’esperienza del Governo Draghi: presenta il Partito Democratico come la sola forza in Parlamento fedele sino alla fine a Draghi (anzi, rivendicando di essere stati i soli a cercare di salvare il Governo), cerca un accordo con Azione di Carlo Calenda (considerato forse il più draghiano tra i partiti presenti in Parlamento) escludendo però a priori un accordo con Italia Viva (probabilmente per le antiche ruggini con Matteo Renzi) e con il Movimento Cinque Stelle (considerato al livello morale il vero artefice della caduta del Governo Draghi) decidendo però di chiudere un “accordo elettorale e non di Governo” con Sinistra Italiana e Verdi scatenando le ire di Calenda (il quale però sapeva benissimo dell’accordo prima di sedersi al tavolo).

Da lì in poi è stato tutto un continuo aumentare di dichiarazioni ed errori uno dietro l’altro.

Gli ultimi in ordine di tempo sono le dichiarazioni contro la legge elettorale e contro la riduzione del numero dei parlamentari in Senato, provvedimenti entrambi sostenuti dal Partito Democratico stesso (il secondo presentato anche come una grande vittoria della lotta ai costi della politica) dando l’impressione di chiedere un aiuto per i casini fatti dal partito stesso.

Il Partito Democratico paga ancora (a distanza di anni dalla sua nascita) il suo “non essere” un partito di sinistra ed il suo “non voler essere” un partito di destra.

La campagna elettorale di Enrico Letta, impostata quasi solo sulle colpe degli altri con qualche timido accenno al programma del partito è figlia proprio di questa costante indecisione del Partito Democratico sulla sua collocazione politica e soprattutto sulla sua assenza di ideologia.

Il Partito Democratico paga di essere stato per anni un “partito delle istituzioni” quello che si caricava la responsabilità del Paese di fronte alla necessità dei governi tecnici, quello che assumeva decisioni scomode per salvare l’Italia, ma soprattutto era il partito che non riusciva mai a realizzare il proprio programma di governo.

Dalle elezioni “non vinte” da Bersani il PD ha costantemente perso la sua connotazione di forza di sinistra per assumere il volto rassicurante di una destra liberale snaturando completamente il suo “essere di sinistra”, rinunciando non solo all’ideologia comunista ma anche e soprattutto a quella socialista e socialdemocratica.

Tutto questo ha portato il proprio elettorato ad una sostanziale disaffezione verso quelle che sono le istituzioni ed i vertici del partito dando vita a quell’emorragia di voti di cui abbiamo parlato sopra. Probabile che di fronte alle difficoltà del Governo di centrodestra il PD torni al Governo con un nuovo esecutivo tecnico, proponendo sé stesso nuovamente come architrave di un governo di salvezza nazionale. Il fatto è che, ancora una volta, lo farà a scapito della propria identità politica e sulla pelle dei suoi elettori.

Elezioni 2022: La “virata a sinistra” del Movimento 5 Stelle

Le elezioni che si terranno il prossimo 25 settembre segneranno un mutamento radicale della composizione del prossimo Parlamento.

Se le indicazioni di voto dovessero essere confermate ci troveremmo ad avere un centrodestra con una solida maggioranza ed un centrosinistra all’opposizione frammentato e diviso su politiche e strategie da seguire.

La campagna elettorale che ha preceduto le elezioni è stata segnata da una non discussione politica, ovvero, i partiti che sono scesi in campo si sono preoccupati di spiegare perché non votare per l’avversario piuttosto che convincere gli elettori perché votare per il proprio partito.

Alla luce di questa considerazione è importante cercare di capire (almeno da un punto di vista filosofico politico) quali potranno essere le differenze delle forze che potrebbero entrare in Parlamento.

Partiamo dal Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte, innanzi tutto perché si tratta del partito che alle scorse elezioni era il partito con la maggioranza relativa del 33% e perché rispetto alle scorse elezioni è quello che più di altri ha pagato il sostegno al Governo Draghi.

Partiamo proprio da qui, dalla fine del Governo Draghi, secondo alcuni causata proprio dalle decisioni politiche di Giuseppe Conte.

Senza raccontare i fatti (già ampiamente raccontati da telegiornali e giornali di ogni tipo e orientamento) cerchiamo di capire come (e se) il Movimento 5 Stelle è mutato rispetto al recente passato.

Innanzi tutto la prima cosa che salta agli occhi è che i due pupilli di Beppe Grillo – Luigi di Maio ed Alessandro di Battista – sono entrambi fuori dalle liste e dal Movimento.

Il primo, dopo essere stato presentato da Grillo come “ragazzo straordinario, è napoletano” nella famosa diretta streaming con Matteo Renzi (quella di “esci da questo blog Beppe”) ha subito una vera e propria mutazione genetica.

Passato dall’essere espressione della lotta al sistema è diventato parte integrante di quello stesso sistema che avrebbe dovuto abbattere tanto da uscire dal Movimento 5 Stelle e diventare stampella al Governo Draghi dopo aver iniziato una dura contestazione proprio a Conte (nel frattempo eletto portavoce del Movimento dopo essere stato per ben due volte Presidente del Consiglio sostenuto proprio da Luigi di Maio).

Alessandro di Battista invece ha fatto una scelta diversa: nato come controparte di lotta di Luigi di Maio, per anni ha incarnato la fiamma della contestazione che doveva essere tenuta viva nel Movimento 5 Stelle per non perdere il sostegno della parte movimentista dell’elettorato.

Anche Di Battista (sebbene per motivi diversi da Luigi Di Maio) in qualche modo è stato fatto fuori dal movimento.

In questo modo Conte è riuscito ad assumere il controllo del Movimento, mettendo fuori gioco con un colpo solo quelle che sono le uniche figure ingombranti che potevano oscurarlo e soprattutto (con la decisione di abbandonare la piattaforma Rousseau) si è anche tolto di mezzo la pesante influenza di Davide Casaleggio (il quale a differenza del padre vedeva nella piattaforma solamente un’opportunità di guadagno).

Ora, eliminati tutti gli avversari e ridimensionata la figura ingombrante di Beppe Grillo (il quale dall’inizio delle elezioni non ha ancora rilasciato una dichiarazione), Giuseppe Conte sta lavorando ad una vera e propria mutazione ideologica del Movimento: da partito populista qualunquista a partito ispirato al populismo di sinistra.

In sostanza, la strategia di Conte è quella di rivendicare la scelta di non aver votato la fiducia al Governo Draghi sull’invio delle armi in Ucraina e di scaricare la colpa della caduta sullo stesso Draghi reo di non aver accettato i punti richiesti dal M5S per proseguire l’esperienza di Governo.

Al di là del “giudizio morale” che si può esprimere sull’operato di Conte (giudizio peraltro impossibile perché la scienza politica è per definizione a-morale) bisogna ammettere che la strategia del portavoce del Movimento sta pagando, complice anche il suicidio di tutti quei partiti alla sinistra del Partito Democratico (che come vedremo in seguito sta perseguendo una linea in continuità con l’operato di Mario Draghi) che hanno obtorto collo deciso di schierarsi al fianco del PD in nome di un improbabile “Fronte di Liberazione Nazionale” non è ben chiaro da che cosa.

Giuseppe Conte, insomma ha la grande possibilità di andare ad occupare lo spazio lasciato vuoto dalla sinistra lavorando alla costruzione di un progetto ibrido tra quello che sognava Casaleggio (padre) e quello che invece ha realizzato in Spagna Podemos!

La strategia comunicativa di Conte anche sembra essere particolarmente vincente: la decisione di richiamarsi a principi “progressisti” (parola che richiama epoche antiche di post comunismo e socialismo) senza mai fare accenni ideologici e puntare tutto sulle cose di sinistra fatte dai Cinque Stelle (anche quando erano al Governo con Salvini) rischia seriamente di essere una strategia capace di portare voti al Movimento Cinque Stelle permettendo a Conte di occupare – da solo – gli scranni dell’opposizione.

Staremo a vedere tra dieci giorni quanto alla fine la sua strategia abbia pagato e quanto ci sia di vero nei suoi propositi, ma per ora verrebbe quasi da dirgli: hasta la victoria!