Le dimissioni di Luigi di Maio ed il futuro (possibile) del M5S

Le dimissioni di Luigi di Maio da capo politico del Movimento Cinque Stelle potrebbe essere una buona occasione per il Movimento di “rivedere sé stesso”.

In vista degli Stati Generali (che si terranno a marzo) il Movimento dovrà compiere ulteriori passi per continuare a crescere.

Luigi di Maio, ex leader del Movimento Cinque Stelle e Ministero degli Affari Esteri

La stagione di Governo di certo non si può definire una stagione particolarmente esaltante per il Movimento 5 Stelle il quale è passato dal 35% delle scorse elezioni al 18% (circa) delle attuali proiezioni.

Come è stato possibile un simile calo di consensi nel Movimento in poco meno di un anno? Rispondere a questa domanda sarà il compito degli Stati Generali che non avranno il compito “solamente” di trovare un nuovo leader politico ma anche e soprattutto di definire una linea politica del Movimento Cinque Stelle sino a questo momento completamente assente.

Uno degli errori di fondo del Movimento Cinque Stelle (a mio avviso) è sempre stato quello di considerare la classe politica in generale come qualcosa di “sporco”, qualcosa con cui non si dovesse collaborare ma qualcosa da contestare a priori.

Il Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio era nato con l’ambizione di cambiare la politica andando (un domani) al Governo, secondo il principio della vocazione maggioritaria che è stato alla base della fase definita “Seconda Repubblica”.

Il fatto è che dal referendum del 4 dicembre in poi la politica italiana è radicalmente cambiata, tornata indietro se vogliamo, ripristinando uno schema di voto che non premiava più le coalizioni ma i singoli partiti.

La necessità di non sprecare l’ottimo risultato ottenuto ha spinto il Movimento Cinque Stelle ad andare a cercare un accordo con la Lega di Matteo Salvini (che al momento della formazione del Governo aveva il 17%) lasciandosi imporre alcune decisioni politiche che non appartenevano alla linea del Movimento (si prenda ad esempio il voto sulle misure di sicurezza e poi si pensi a Grillo che nemmeno due anni fa definiva “gli immigrati una risorsa per il Paese”).

Lo spostamento del Movimento Cinque Stelle verso destra ha portato al crollo di consensi a sinistra (voti che per sono tornati nella vasta area del non- voto) mentre i voti che avevano preso dagli “orfani” della destra (nello specifico delle aree del Nord Est orfane della Lega) sono tornati semplicemente a casa andando ad ingrossare le fila di coloro che votano Salvini.

La caduta del Governo Conte I e la formazione del Conte bis (con i voti del Partito Democratico) poi ha spinto molti elettori a pensare che il Movimento non è poi tanto diverso da tutti gli altri partiti che sono presenti in Parlamento, il che ci porta alla questione più urgente che il Movimento deve affrontare: la propria connotazione politica.

Il ragionamento “non siamo né di destra né di sinistra” alle lunghe rischia di non reggere perché ad un certo punto è necessario dover scegliere un campo.

Il Movimento era nato con una spinta propulsiva senza precedenti nel panorama politico italiano, deciso a portare avanti una serie di politiche innovative che andavano dalla gestione dell’ambiente in maniera più consapevole alla ricerca di una soluzione per “eliminare la povertà”, tutte idee che nel corso delle esperienze di Governo con la Lega sono state completamente abbandonate sino ad essere solo parzialmente riprese con il Governo assieme al Partito Democratico.

Eppure, anche questo potrebbe non bastare.

Il problema dei Cinque Stelle rimane sempre quello relativo alla formazione di una classe dirigente capace di agire in un contesto politico complesso come quello italiano ed europeo. Pensare che “tutti” possano fare politica senza un minimo di conoscenza pregressa dei sistemi politici non è solo utopico ma per molti versi è folle.

Se il Movimento vuole davvero sopravvivere a sé stesso dovrà necessariamente cambiare alcuni aspetti della propria natura:

Vincolo delle due legislature: Uno degli aspetti che meno condivido dello Statuto del Movimento è il vincolo dei due mandati nelle istituzioni, innanzi tutto per un motivo pratico: due mandati sono quelli necessari per comprendere il funzionamento dei meccanismi della politica. L’idea che dopo due mandati si debba uscire (quindi dopo aver capito come funzionano le cose) è piuttosto strana (per non dire completamente folle come idea). Inoltre, una simile politica potrebbe portare ad un livello di corruzione maggiore rispetto ad una permanenza più lunga (per paradosso) questo avverrebbe perché eventuali iscritti al Movimento, sapendo che hanno solo due mandati per “sistemarsi” (molti sono entrati in politica per trovare lavoro e non per passione) andrebbero necessariamente a cercare un modo per crearsi una via d’uscita per rimanere nel mondo della politica. A questo potremmo aggiungere (come ulteriore effetto) che molti decidono di passare al Gruppo Misto per poi candidarsi nelle liste di altri partiti. Da una parte la scelta risulta comprensibile: si vuole in questo modo lasciare spazio ai giovani senza creare un sistema dove ad entrare in Parlamento siano sempre gli stessi. Una soluzione di compromesso potrebbe essere quella di permettere (a chi è al secondo mandato) di restare poi a disposizione del Movimento come “consulente” o come “dirigente” perché solo in questo modo sarebbe possibile “formare una classe dirigente”. Inoltre (e questo è un altro aspetto che andrebbe analizzato) chi ha fatto due mandati nelle amministrazioni comunali deve avere almeno la possibilità di completare almeno un mandato come parlamentare, per mettere a disposizione la propria esperienza in campo locale.

E qui arriviamo al secondo punto: formazione di una classe dirigente. Quello che in questi anni è mancato alla politica è una classe dirigente all’altezza delle aspettative e delle necessità che aveva un Paese che sta attraversando una crisi economica da cui non sembra esserci via d’uscita. Una crisi economica che forse l’Italia sta pagando più di altri e che sinora nessun Governo e nessuna classe politica è riuscita non solo a superare ma anche solo ad arginarla. Troppo spesso le decisioni politiche si sono limitate a mettere delle toppe sulle questioni economiche senza mai entrare nel merito e senza mai pensare ad una seria politica di sviluppo. Perché questo sia possibile è necessario pensare ad una classe dirigente “formata” e in grado di reggere le sorti del Paese. Inoltre, una classe dirigente è fondamentale per seguire quelle che sono le necessità del territorio, perché la pretesa che siano i singoli parlamentari a farlo (togliendo in questo modo tempo al lavoro parlamentare) è pressoché impossibile. Si tratta dunque, attraverso la formazione di una classe dirigente si superare la logica del “partito liquido” (dove gli eletti sono singoli rappresentanti di loro stessi) e tornare ad una struttura di partito solida, fatta di apparati e di strutture in grado di coprire ogni necessità ed ogni aspetto della politica, sia nazionale che territoriale.

Recupero delle proposte politiche delle origini: Nel corso dell’ultime esperienza di Governo (sia con la Lega sia con il Partito Democratico) il Movimento Cinque Stelle è risultato essere più debole proprio in quei punti dove doveva essere più forte. La scelta di abdicare (almeno questa è stata la percezione di una buona parte degli elettori) sulle tematiche più care al Movimento ha portato ad un conseguente calo di consensi tra gli elettori. Aggiungendo a questo la gestione fallimentare di uno dei cavalli di battaglia del Movimento Cinque Stelle come il “reddito di cittadinanza” ha portato un ulteriore crollo di consensi al Movimento. Per ripartire sarebbe necessario ripensare in una chiave più moderna quelle che sono state le proprie decisioni politiche, partendo proprio dal reddito di cittadinanza. Presentato quando è stato approvato come il primo passo dell’abolizione della povertà in realtà non è riuscito ad arginare il fenomeno del costante impoverimento della classe media italiana (sparita definitivamente con la concezione della legalizzazione della condizione di precarietà nel mondo del lavoro), un fenomeno che si poteva arginare facilmente impostando una politica di aumento dei salari che invece non è stata presa minimamente in considerazione. Uno degli aspetti mai affrontati dal reddito di cittadinanza, per assurdo, è stato proprio quello della gestione dei contratti di lavoro. I salari italiani (soprattutto per quei lavori che non sono “statali”) variano tra i cinquecento e gli ottocento euro (raramente possono raggiungere i mille) uno stipendio che non è sufficiente per costruire emancipazione di una persona soprattutto di un giovane (che da anni vengono citati in ogni campagna elettorale senza nessuno faccia niente per loro). Questo crea anche un altro problema non preso in considerazione: che necessità posso avere di lasciare il reddito di cittadinanza se è più alto di un salario medio? Il tentativo di superare questa che sembra essere una banalità ma in realtà è il vero nodo della politica economica del Movimento Cinque Stelle potrebbe essere un punto da cui ripartire per la rinascita del Movimento

Per ripartire dunque il Movimento deve uscire dalla logica del “facciamo le cose bene con chiunque” e deve in qualche modo darsi una precisa connotazione politica sulla base delle proprie idee e delle proprie proposte.

Evitare dunque che gli Stati Generali siano solo una conta (come ne abbiamo viste tante nei partiti di destra e di sinistra nel corso della storia) e fare in modo che il cambio di leadership possa essere anche un viatico per un cambio di linea e di strategia politica.

Perché Matteo Salvini rischia di continuare a vincere se la sinistra non cambia sé stessa

Matteo Salvini, Segretario della Lega per Salvini

Tra poco meno di una settimana sapremo se a governare l’Emilia Romagna per i prossimi anni sarà ancora il Partito Democratico o se quella che viene definita la “Regione Rossa” per eccellenza passerà ad essere amministrata dalla Lega di Matteo Salvini.

Secondo molti analisti e giornalisti una sconfitta della sinistra potrebbe essere un colpo mortale anche al governo PD-Cinque Stelle (non lo chiamerò giallo- rosso perché di rosso ha davvero molto poco) ma potrebbe essere anche un colpo notevole alle ambizioni di rinnovamento della sinistra di governo che il Partito Democratico vorrebbe incarnare.

In questo contesto elettorale qualche mese fa è entrato a gamba tesa il “Movimento delle Sardine” nato per “contestare il linguaggio e la politica di Salvini” un movimento che in qualche modo ha suscitato l’entusiasmo di molti (soprattutto a sinistra) perché vedono nel movimento una sorta di risveglio della coscienza civile.

Eppure, nonostante questo, la vittoria della Lega in Emilia non sarebbe poi una possibilità tanto remota.

Partiamo proprio da quella che potrebbe essere la “spinta propulsiva” del Movimento delle Sardine.

Nato come movimento di contestazione a Salvini (dando perlomeno in Emilia precise indicazioni di voto verso Bonaccini) per molti versi manca di quella che si potrebbe definire una “prospettiva più ampia” proponendo delle reali alternative ad anni di politiche sbagliate nel Paese.

Indubbiamente, il fatto che il Partito Democratico voglia dialogare con loro segna una nota di apertura da parte del PD ad aprirsi alla società civile, apertura che però rischia di non bastare. Abbiamo analizzato più volte (a costo di risultare noiosi) quelli che a nostro avviso sono i difetti della sinistra negli ultimi anni per cui non penso sia il caso di tornarci, quello che però possiamo ribadire è che senza una (necessaria) sterzata nella rotta la sinistra in Italia continuerà ad essere fallimentare rispetto ad una destra che riesce a rispondere a quelle che sono le esigenze momentanee del Paese.

Va ripensato il modo stesso di fare politica, come giustamente ha detto Fabrizio Barca, è necessario che un partito che si definisce di sinistra torni ad essere dalla parte degli ultimi, avendo però in mente una chiara visione di quelle che sono le necessità di una popolazione ormai vessata da anni di politiche di austerity imposte dall’Europa e da scelte economico – politiche che hanno portato all’impoverimento del cittadino medio, creando una sorta di estensione della proletarizzazione nel mondo del lavoro.

La completa mancanza di una regolamentazione in quelle che sono le politiche del lavoro degli ultimi anni hanno portato ad un “superamento in negativo” di quella che un tempo era chiamata proletarizzazione della società, attraverso il processo della precarizzazione dei posti di lavoro, problema che il tanto esaltato Jobs Act non ha eliminato, ma lo ha semplicemente regolamentato (togliendo peraltro quelle poche tutele che ancora erano rimaste ai lavoratori).

A questo possiamo anche aggiungere che nel corso degli anni la sinistra ha pensato di poter regolamentare i processi della globalizzazione, pensando di poter costruire una sorta di “liberalizzazione dal volto umano” pensando di essere in questo modo in grado di regolamentare i processi della globalizzazione. Questa strada ha condotto alla nascita di una sorta di “Terza Via” all’italiana (incarnata da Matteo Renzi) il quale ha imposto al Partito Democratico una serie di politiche che potremmo senza esitazione definire provenienti dalla Scuola di Chicago (dove per la prima volta vennero teorizzate le idee liberiste).

Tornare a contare vuol dire ripensare (da parte della sinistra) il modo di pensare la politica e l’economia, pensando ad un sistema che riporti lo Stato al centro dell’economia costruendo quel sistema ipotizzato molto bene da Mariana Mazzuccato nel suo libro Lo Stato Innovatore dove si ipotizza che lo stato stesso possa assumere un ruolo imprenditoriale nella costruzione di un sistema economico basato su principi più equi. Non si tratta di negare il capitalismo o proporne il superamento, ma di ipotizzare un sistema dove alcuni elementi che potremmo definire “socialisti” sono alla base di una regolamentazione di un mercato che se lasciato solo porta all’acutizzarsi delle differenze sociali.

Se la sinistra vuole tornare a vincere, dunque, deve ripartire innanzi tutto dall’elaborare una nuova forma di pensiero, senza scadere da un lato nel suo superamento a destra e dall’altro nella visione di una società nostalgica di un partito (quello comunista) proponendo soluzioni non applicabili o quanto meno di difficile realizzazione.

La sinistra riparta da quelli che sono i suoi pensatori teorici: riparta da Marx, da Gramsci, dalla scuola di Francoforte, perché solo in questo modo sarà in grado di ricostruire un pensiero egemonico forte a sinistra, capace di contrastare Salvini sul suo stesso campo, quello ideologico.

In caso contrario sarà destinata ad essere sconfitta per molte altre elezioni.

Questo avviene non tanto perché gli elettori sono “cretini” (altro vizio che la sinistra radical chic si deve togliere) ma perché – nonostante ritenga Salvini un pessimo politico – in qualche modo riesce a rispondere (in maniera completamente sbagliata) a quelle che sono le esigenze di un elettorato che appare sempre più insofferente verso le imposizioni di un Parlamento, quello europeo, percepito come distante e come “nemico” da parte del popolo.

Prendiamo le politiche sull’immigrazione: a parte il fatto di considerare “razzisti” e “fascisti” tutti coloro che sollevano un logico problema di disagio sociale (l’immissione di immigrati in zone disagiate porta altro disagio) ha spinto parte della popolazione a votare per chi, in modo sbagliato, risponde alla loro domanda non solo di regolamentazione dei flussi migratori ma anche alla lotta ad una situazione di degrado che ormai sta sfuggendo di mano.

Pensare che si possa risolvere tutto ammassando chi entra in dei centri di accoglienza (che non sono in grado di accogliere più un numero di persone) e lasciare poi che queste persone letteralmente vegetino nelle strade, con il rischio concreto di finire dritte nelle braccia della malavita, significa non comprendere che la soluzione deve essere pensata in modo diverso. Ovviamente questo non presuppone (come invece vorrebbe Salvini) che a chi salva persone venga impedito di entrare nelle nostre coste (quindi no, non si può sparare agli immigrati) ma serve applicare una politica con i porti del Mediterraneo perché i flussi vengano se non fermati perlomeno regolamentati.

Questo ovviamente è solo uno degli aspetti del problema (quello relativo all’arrivo) ce ne sono poi anche altri che cercheremo di analizzare in seguito come ad esempio quello della regolamentazione (e quindi la piena entrata nel sistema italiano) e l’integrazione, due fenomeni strettamente connessi che devono essere analizzati in maniera più approfondita e separatamente.

Post Scriptum: Ovviamente in un solo articolo non possiamo analizzare tutte quelle che sono le politiche sbagliate della sinistra, ma si può iniziare a pensare seriamente alla costruzione di un “laboratorio di idee” capace di mettere insieme una proposta politica concreta e realmente di sinistra.

La “Sinistra” ed il superamento della crisi di identità

In questo inizio di 2020 torno ancora una volta a parlare della crisi della sinistra in Italia.

Una crisi innanzitutto identitaria che pone un problema per chi vuole ricostruire un percorso unitario di tutte le “sinistre”, un percorso molto spesso accidentato e che dal 2008 in poi non è più riuscito a coinvolgere gli elettori (e tanto meno i militanti) in una logica di costruzione di un percorso ideologico prima che politico legato esclusivamente alle varie tornate elettorali.

Per comprendere la crisi di identità che ha colpito la sinistra italiana è necessario partire proprio dal partito che (ancora oggi) si definisce il più “Grande Partito del centrosinistra”, ovvero il Partito Democratico.

Nato del 2008 dalla fusione tra Democratici di Sinistra e Margherita nel tentativo di dare vita ad un partito che fosse in grado di rispondere alle esigenze di una società in continuo mutamento, ha progressivamente abbandonato quello che era il campo delle ideologie della sinistra (dove le parole d’ordine erano lavoro, legalità e stato sociale) nel tentativo di conciliare quelle che erano le esigenze con il processo di globalizzazione in corso.

La scelta di abbandonare completamente il campo dell’ideologia marxista (un processo peraltro già iniziato nel 1991 con la svolta della Bolognina che ha decretato la fine non solo del Partito Comunista Italiano ma anche appunto l’idea che il percorso di costruzione del socialismo fosse definitivamente tramontato con la fine dell’Unione Sovietica), ha condotto il Partito Democratico verso una posizione politica molto lontana da quella della sua base elettorale che sebbene solo in una minima parte, si richiama ancora a quei principi e quei valori che sono alla base della sinistra di impostazione marxista, basata quindi su forti principi ideologici.

Laddove manca la base del pensiero marxista molti militanti vivono la loro militanza come una “nostalgia” del Partito Comunista che fu, della segreteria di Enrico Berlinguer uno dei segretari più citati e forse meno capiti della storia del pensiero comunista italiano (cercherò di tornare in altri post sul pensiero politico di Berlinguer, un pensiero politico che va analizzato nel suo complesso per non correre il rischio di semplificarlo) e del senso di appartenenza che era proprio della comunità del Partito Comunista (sebbene il senso di appartenenza fosse proprio di tutti i partiti).

La tanto sbandierata fusione della parte “moderata” del Partito Comunista (con tutto quello che il termine comporta) e la componente “di sinistra” della Democrazia Cristiana (confluita nella Margherita) alla fine dei conti si è rivelata essere un processo fallimentare poiché ha fatto in modo che quella che era la componente meno forte numericamente (la Margherita – quasi tutta di area democristiana) prevalesse ideologicamente su quella che era la componente post comunista cancellando quelle che erano le istanze e le richieste del pensiero comunista che non andava cancellato ma adattato al mutare dei tempi ed al capitalismo.

Comprendere innanzi tutto che non fosse possibile conciliare le richieste sociali del proprio elettorato con quelle che sono le richieste di un sistema imposto dalla globalizzazione che sempre più tende a schiacciare la società nel tentativo di creare un divario tra ricchi e poveri e che sempre di più tende a mettere in luce le contraddizioni di un sistema (quello capitalista) che crea un costante divario tra classi ricche e classi povere “proletarizzando”, per usare un termine caro al marxismo anche il cosiddetto ceto medio.

Quello stesso ceto medio che non trovando più risposte nel PD si sposta verso destra (Salvini nello specifico) alla ricerca della stabilità perduta.

Il centrosinistra italiano, insomma, nel tentativo di recuperare voti al centro, ha attraversato una fase di mutazione genetica trasformandosi in partito di centrosinistra progressivamente prima in soggetto di centro e poi (nell’ultima fase rappresentata dal renzismo) virando decisamente verso un modello di destra conservatrice.

La “svolta” che oggi si vuole imporre al Partito Democratico dovrebbe necessariamente essere una svolta che guarda verso sinistra e non verso il centro come è stato fatto sino a questo momento.

L’apertura ai movimenti (come ad esempio quello delle Sardine) o alla società civile da un lato può essere una grande opportunità per il partito ma dall’altra rischia (per assurdo) di snaturare ancora di più l’identità del partito stesso che si troverebbe a dover gestire un movimento senza ideologia con un partito altrettanto “debole” e privo di una connotazione ideologica.

Il rapporto tra il movimento ed il partito funziona solo nel caso in cui tutte e due le realtà hanno una forte connotazione ideologica e sono disposte a cercare una sintesi tra le proprie posizioni per andare verso la costruzione di un percorso di lotta comune, un poco quello che è riuscito a Podemos in Spagna, il quale riesce a prendere parte ai Governi spagnoli (anche attraverso una politica di alleanza spesso contestata) mantenendo fede a quella che è la propria idea di costruzione di un percorso che si propone di governare in chiave socialista quelli che sono i percorsi della globalizzazione.

E qua veniamo al secondo nodo della sinistra italiana: quella che viene definita extra-parlamentare (utilizzando tra le altre cose una terminologia che rimanda agli anni del terrorismo visto che la sinistra extra parlamentare era quella che non si identificava nei processi democratici del sistema parlamentare, appunto), uscita dallo schieramento politico da una parte a causa delle varie campagne sul “voto utile” e dall’altra per aver scelto di arroccare sé stessa su posizioni che potremmo definire “nostalgicamente filo-sovietiche” ispirandosi peraltro ad un modello di società (quella sovietica appunto che non appartiene nemmeno alla realtà italiana).

Ambedue queste decisioni hanno portato al progressivo isolamento della sinistra radicale (termine forse più appropriato di extra parlamentare) che si è ritrovata a dover costruire di volta in volta progetti elettorali che si barcamenano tra la ricerca del consenso e la volontà di mantenere intatta la propria identità, ottenendo come effetto che alla fine di ogni tornata elettorale non è riuscita a fare né l’una né l’altra cosa.

La strada da percorrere dovrebbe invece essere quella di scavalcare a sinistra tutti quelli che sono i “simboli” di una sinistra ormai scomparsa e ripartire dal Marx, attualizzando il messaggio del capitale e pensando a nuove strade per realizzare quei passaggi necessari per portare alla costruzione del socialismo, cercando di fare un po’ quello che nel corso degli anni (dal 1945 sino al 1980) circa ha cercato di fare anche il Partito Comunista.

Citando Enrico Berlinguer andrebbe costruita quella Terza Via di cui tanto si è vagheggiato in passato ma che non può essere identificata nel modello blairiano come invece ha pensato parte della sinistra italiana (ed europea) tra la fine degli anni Novanta ed i primi anni del 2000.

Serve invece andare a recuperare quelle che sono le idee di base del marxismo, pensare come possano essere aggiornate e poi tradurle in azion anche attraverso la costruzione di un partito dalla forte struttura centralizzato in contrapposizione al modello di “partito liquido” che ha portato alla disgregazione del ruolo del partito nelle istituzioni.

Questo percorso di analisi si rende necessario anche perché la destra di ispirazione fascista non ha mai smesso di fare analisi ed ha trovato oggi in Matteo Salvini se non un prezioso alleato almeno qualcuno che difende (in nome del sovranismo) alcune delle posizioni più care alla Destra Nazionale (torneremo anche sulla realtà della destra in Italia, altro fenomeno che dovrebbe essere analizzato nella sua complessità).

A questo andrebbe unito la tendenza nostalgica di una parte della “sinistra radicale” che ha pensato sbagliando di poter vivere mantenendo intatte le figure di spicco del proprio pantheon ideologico – a partire da Lenin e Stalin – senza approfondire l’apporto al dibattito nel campo marxista di nessuna di queste figure. Questo errore ha comportato una progressiva cristallizzazione dei processi di elaborazione della realtà circostante che ha fatto in modo che il messaggio con il passare degli anni apparisse come “antiquato” e non adatto alle circostanze dei tempi che corrono.

Per questo sarebbe necessario (come anche sostenuto da Fausto Bertinotti nel 2001 in occasione del suo intervento all’anniversario della nascita del PCI a Livorno – proposito purtroppo mai realizzato) fare in modo che la sinistra riparta innanzi tutto da Marx cercando di attualizzare quelli che sono i processi di produzione del capitale in chiave globalista.

Servirebbe dunque alla sinistra tutta uno scatto che rimetta al centro della propria azione politica quelle che nel corso della sua storia sono state le sue parole d’ordine: lavoro, legalità, welfare state, parole d’ordine che però devono essere riportate al centro del dibattito politico non solo in chiave utilitaristica ma una chiave innanzi tutto ideologica, ritornando ad una politica sempre più ideologica e che riprenda le fila di quello che era un tempo il processo di costruzione del socialismo del PCI, non la sovversione dello stato attraverso un processo rivoluzionario che abbatta il sistema capitalista, ma la costruzione di un percorso ideologico (e politico) che rimetta al centro l’idea che bisogna “immettere elementi socialisti all’interno di una società capitalista”.

Per fare questo è necessario però ripensare anche la logica del partito stesso, superando il concetto di “partito liquido” e tornando ad una forma partito fatta di strutture, apparati (sia politici che di formazione) che sia realmente in grado di rispondere alle esigenze dei territori.

Torneremo ancora su questi argomenti, perché i continui mutamenti della società ci impongono di ripensare il senso stesso della nostra appartenenza al campo ideologico della sinistra, perché resto dell’idea che per sconfiggere le destre non basta solo denunciarla ma sempre costruire un percorso ideologico altrettanto forte e soprattutto altrettanto ideologico.