Singapore, la scoperta di un pezzo di Oriente

Vista della baia di Singapore

Avrei dovuto scrivere questo pezzo all’inizio del viaggio, cercando di fare un resoconto giornaliero di quello che aveva visto, ma visto il fuso orario (e vista la mole di cose fatte in due settimane per cercare di concentrare tutto quello che si poteva in così poco tempo) mi sono ridotto a scrivere le mie impressioni agli ultimi due giorni di viaggio, una decisione che nasce innanzi tutto dalla volontà di “consigliare” a coloro che ancora non ci sono mai stati a visitare l’Oriente, perché la visione del mondo orientale è così distante dalla nostra che vale la pena vederla (e scoprirla).

Certo, se si vuole avere un sentore di come sia la vita in Oriente Singapore non è che un assaggio, una sorta di paradiso funzionante dove tutto gira secondo un ordine prestabilito e dove ogni cosa (rispetto all’Italia ad esempio) sembra essere perfettamente funzionante.

La prima cosa che dovete sapere è che la popolazione è composta principalmente da cinesi, ma ci sono consistenti minoranze indiane, giapponesi, pakistane, europee, filippine e qualunque altra minoranza che può venire dall’Est Europa, perché dico questo?

Perché è il modo per introdurre una delle caratteristiche della città di Singapore: ogni minoranza etnica ha il proprio quartiere, ed ogni quartiere porta con sé la tradizione ed il modo di vivere di coloro che ne sono parte, per essere ancora più chiaro: se andate a Chinatown respirerete ovunque aria ed odori della Cina, andando a Little India vi sembrerà di essere stati trasportati da Singapore a Calcutta direttamente, solo con un viaggio in autobus.

Ma andiamo con ordine: a Little India ci arriveremo, intanto cerchiamo di fare un elenco dei posti che devono assolutamente essere visti a Singapore.

Marina Bay

Visuale dell’albergo Marina Bay sulla baia di Singapore

Se andate a Singapore non potete non fare un giro dalle parti della baia, anche se non riuscite a prenotare una notte al Marina Bay – quella cosa là in alto che vedete a forma di nave – un giro per la baia va sicuramente fatto (nel caso foste invece interessati a prenotare una notte in albergo di seguito il link da cui lo potete fare https://reserve.marinabaysands.com/search?locale=en&offerCode=&flow=tf tenete conto che una notte costa in media tra gli 880/900 dollari di Singapore, in euro parliamo di una cifra che si aggira tra i 500 ed 600 euro).

Una cosa che non potete assolutamente perdere è il giro in barca sulla baia

soprattutto di notte, quando i giochi di luce illuminano la baia con colori del tutto spettacolari.

Chinatown

Singapore è una città sostanzialmente moderna, con grattacieli altissimi e centri commerciali all’avanguardia (in seguito parleremo anche dei centri commerciali per consigliare dove mangiare) eppure la sua bellezza sta proprio nel riuscire ad essere una “città nella città”, sensazione che si ha esempio andando nel quartiere di Chinatown.

Quando si entra a Chinatown da queste parti sembra davvero di essere in Cina, niente a che vedere con le varie Chinatown in Italia. Architettura, negozi, cibo, tutto rimanda alla Cina (a questo proposito va detto che la cucina cinese è molto diversa da quella che abbiamo in Italia che di cinese ha molto poco) e sicuramente è un ottimo posto dove comprare qualche souvenir per ricordare il proprio viaggio a Singapore o qualche ricordino da prendere per gli amici.

Da visitare qui c’è il tempio buddhista di Chinatown, da visitare anche per capire come funziona la religione buddhista (di cui molto spesso abbiamo una percezione molto occidentalizzata).

Se entrate nel tempio con lo spirito adatto difficilmente non proverete una sensazione di pace osservando il Buddha (oltre che rimanere colpiti dalla bellezza dei templi buddhisti, così lontani dalla nostra concezione di luogo di culto) .

Se invece volete fare shopping da queste parti non avete che da perdervi nelle mille e più bancarelle che si snodano lungo tutto il quartiere, così come non avrete problemi a mangiare (a condizione che siete amanti della cucina cinese, perché qui raramente troverete qualcosa di diverso dalla cucina cinese).

Little India

Ingresso a Little India

Un altro posto da visitare se siete a Singapore (anche se non so se qualche guida turistica lo consigli) è il quartiere di Little India. Da visitare perché se a Chinatown eravamo in Cina entrare a Little India sembra viaggiare nello spazio e nel tempo e precipitare di colpo a Calcutta. Colori, negozi, caos, tutto rimanda all’India in questa parte di Singapore. E qui, oltre che consigliarvi di mettervi a cercare un ristorante pulito nel caso voleste mangiare (questa parte di Singapore non eccelle per pulizia indubbiamente) non posso che consigliarvi di fare una capatina alla zona commerciale Mustapha, perché?

Ma perché potrete trovare di tutto: dai negozi che vendono oro (e anche cellulari e qualunque altra cosa vi salti in mente) e soprattutto potreste respirare quella che a tutti gli effetti è l’aria di un suk, un clima completamente diverso dalla apparente freddezza dei centri commerciali del resto di Singapore, dove vi troverete a fare la spesa accalcati con altre migliaia di persone che cercano di muoversi con carrelli in un supermercato dai corridoi strettissimi dove tutto è ammassato come se davvero fosse un mercato.

Il motivo per cui consiglio di provare questa esperienza (oltre che per il fatto che vale veramente la pena) è perché da queste parti potreste acquistare facilmente ogni tipo di spezia e di the a costi contenuti (io ho comprato ad esempio un ottimo the al gelsomino e altre varietà di the cinese ed indiano e diverse quantità di ogni genere di spezia difficili da trovare in Italia).

Orchard

Altro posto che non si può non visitare è la zona commerciale di Orchard, non fosse altro per vedere la zona di quello che possiamo definire “shopping di lusso”.

Dimenticatevi di poter comprare qualcosa (a meno che non andate nei negozi non di marca) perché qui i prezzi non sono accessibili a tutti – a conferma che il costo della vita a Singapore non è particolarmente basso ed i singaporeani non guadagnano nemmeno tanto poco – ma indubbiamente è un posto da vedere, anche perché il sabato sera da queste parti ci sono spettacoli dal vivo e concerti di vario genere, quindi di sicuro troverete come “svoltare la serata”.

Qui tra le altre cose troverete eccezionali posti dove mangiare cibo orientale, come ad esempio l’ottimo Din Tai Funv (https://www.dintaifung.com.sg/) dove potrete non solo mangiare i ravioli ma anche ammirare come i ravioli vengono fatti, una vera e propria catena di montaggio dove ognuno lavora in maniera meticolosa per dare vita ad un prodotto perfetto non solo nel gusto ma anche esteticamente. Nel caso veniste da queste parti vi consiglio di accompagnare la cena non con acqua o con vino ma con del the verde, una cosa molto tipica da queste parti.

Fullerton Hotel

Ingresso del Fullerton Hotel

Altro posto che vale la pena visitare, anche perché all’interno si trova una bellissima galleria d’arte è il Fullerton Hotel, anche qui i costi sono piuttosto alti, però vale la pena visitarlo anche solo per vedere un albergo in completo stile liberty e coloniale.

Trasporti

Una volta detto tutto questo la domanda quasi obbligata è: come spostarsi a Singapore? Il modo più rapido e veloce è quello della metropolitana, che collega letteralmente ogni parte della città, mezzo consigliato anche per capire (e vedere) la differenza tra le metropolitana di Singapore e quelle italiane: anche qui, come nel resto del Paese del resto, tutto appare perfettamente in ordine, non una cosa fuori posto e soprattutto ogni metropolitana ha posti a sedere per tutti ed è dotata di aria condizionata.

La metropolitana di Singapore è divisa principalmente in tre linee: la rosso-verde , la gialla e la viola che collegano tutte le zone della città (di seguito vedrete un’immagine con le foto proprio delle linee) e quindi ogni zona che abbiamo menzionato in precedenza è raggiungibile dalla metropolitana o con la linea diretta o facendo un cambio (o due a seconda della zona dove siamo diretti).

Un motivo per prendere la metropolitana da queste parti è che la vita si sviluppa principalmente sottoterra per cui viaggiare in metro vuol dire scoprire che esiste tutto un altro mondo oltre quello di superficie, dove si trovano negozi, punti di ristoro e negozi dove fare shopping.

Un consiglio: la cosa migliore per spostarsi è prendere la carta ricaricabile (con venti dollari dovreste riuscire più o meno a girare tutta Singapore senza ricaricare di nuovo visto che il costo del viaggio è a chilometro e non fisso).

Singapore Linea Rosso-Verde
Singapore Linea Viola
Singapore Linea Gialla

Credo di avervi detto più o meno tutto quello che può esservi utile per un primo approccio alla città di Singapore.

Ovviamente le indicazioni sono più che altro per un viaggio turistico, le considerazioni su tutto il resto (sul modo di vivere, sulla loro filosofia e sul modo in cui vive Singapore) saranno rimandate, semmai ad altra sede.

Spero con questa (imperfetta) descrizione di Singapore di essere riuscito in qualche modo a stimolare la vostra curiosità su quello che è un mondo completamente nuovo, diverso da noi, un mondo in qualche modo tutto da scoprire (nelle prossime settimane vi parlerò anche di Bangkok, altro posto da visitare almeno una volta nella vita, per cui se vi va restate connessi).

Post scriptum: Nel caso voleste chiedere qualcosa o avete qualche curiosità in generale non esitate a scrivere o contattarmi e cercherò di rispondere a tutte le vostre domande.

Riprendere la “Politica”

La scissione di Matteo Renzi che lo ha portato fuori dal Partito Democratico (e che ha fatto seguito a quella di qualche tempo fa di Carlo Calenda che anche lui ha lasciato il Partito Democratico) mi porta a fare qualche considerazione di carattere generale su quanto sta accadendo in Italia.

Per avere un quadro più o meno consapevole della situazione forse sarebbe il caso di partire dalla crisi di Governo di questa estate, quella in cui Matteo Salvini (Segretario della Lega ed al momento della caduta anche Ministro degli Interni) decide di staccare la spina a quel Governo formato da Movimento Cinque Stelle e Lega che ha retto poco meno di un anno.

La giustificazione che è stata addotta da Salvini per giustificare il fatto di aver fatto saltare il banco del Governo è stato “troppi no da parte del Movimento Cinque Stelle”, a questo punto Matteo Renzi apre uno spiraglio per trattare con i Cinque Stelle, formare un nuovo Governo con il Partito Democratico che fino al giorno prima diceva “mai con i Cinque Stelle” (per i quali peraltro il Partito Democratico era il Partito di Bibbiano) mentre Renzi twittava a tutto spiano #senzadime.

Dopo la formazione del Governo (avvenuta secondo molti grazie alla lungimiranza di Renzi) lo stesso Renzi decide (dopo aver incassato nel suo Governo ministri e sottosegretari) di andarsene dal PD portandosi via tutti per dare vita ad u partito che somiglia molto ad una operazione di palazzo che si chiamerà “Italia Viva”.

Non ci avete capito nulla?

Bene, perché è tutto perfettamente normale.

In un contesto politico in cui la politica è stata completamente privata di qualunque forma di ideologia è più che normale non capire che cosa sta succedendo perché tutto appare confuso, difficile da capire e da spiegare perché senza senso e perché correlato solo ad un continuo scambio di posti e di poltrone per mantenere il potere.

Sono appassionato di politica, lo sono da circa vent’anni e per un lungo periodo della mia vita sono stato anche militante (ed in qualche caso ho avuto anche incarichi di dirigenza all’interno di partiti) di diversi partiti, sempre alla costante ricerca di un posto dove poter portare avanti quelle che ritengo essere le mie battaglie per la costruzione di un “posto migliore”, non solo in Italia ma in Europa, nel mondo.

Sono state tante le persone che nel corso della mia azione politica mi hanno accompagnato (molte delle quali sono diventati amici) e molti altri sono quelli che si sono allontanati.

Eppure nella fase attuale, con tutta la passione che mi ha spinto, non vedo possibilità di crescita per il Paese ma solo la costante corsa al posto migliore a scapito di quelli che sono gli interessi del Paese. Non voglio entrare troppo nel dettaglio dei singoli partiti o movimenti ma fare una considerazione che potrebbe essere utile per ripartire: quella che stiamo vivendo non è politica, almeno io non la percepisco come tale.

Lo scopo della politica (e quindi di una classe dirigente) dovrebbe essere quella di perseguire il bene della collettività tutelando quelli che allo stesso tempo sono i diritti del singolo individuo costruendo quindi una società il più efficiente possibile e capace di rispondere alle esigenze dei singoli.

Prima ancora di avere un politico o della scelta di un leader dunque è necessario che la politica rimetta al centro di tutto l’individuo, inteso come essere umano in generale, dando avvio ad un nuovo Rinascimento che possa essere in grado di smuovere le coscienze collettive e lavorare davvero per quelli che sono gli interessi di tutta la nazione.

Idee, proposte, progetti, tutto quello che può essere alla base della crescita economica, sociale ed individuale, deve essere preso in considerazione da quella che dovrebbe essere la “nuova classe politica”, una classe capace di formare coalizioni non per “battere le destre” ma per “costruire nuovamente l’Italia”, ridare al Paese la propria coscienza smarrita, il proprio posto nel mondo.

Perché questo sia possibile è necessario “formare” le classi dirigenti, dando vita ad un progetto di ampio respiro che non guardi solo a destra o a sinistra ma sia capace di intercettare quelle che sono le necessità oggettive del Paese.

Rimettiamo dunque la politica al centro di tutto, fondiamo un nuovo Umanesimo e restituiamo alla politica quel ruolo nobile che le spetta.

Pensare ad un nuovo modo di “stare in campo” è la strada che abbiamo da percorrere per poter tornare a crescere e competere, compito della classe politica deve essere quello di guidare i processi della società in cambiamento senza tralasciare nessuno, senza lasciare nessuno indietro.

Torneremo ancora su questi aspetti (lo ho già fatto in altri post) perché ritengo sia fondamentale che la politica abbia la sua dignità per tornare a fare gli interessi del popolo, cercherò di elaborare tanto un processo ideologico quanto un programma sperando che qualcuno possa cogliere lo spunto alla costruzione di qualcosa di nuovo.

Laurea o formazione politica?

Come ogni formazione di un nuovo Governo riemerge la polemica solita sul fatto che ci sono molti ministri “non laureati”. Oltre al caso di Luigi di Maio – promosso agli Esteri – viene citato il caso di Teresa Bellanova, Ministro per l’Agricoltura non laureato e proprio per questo bersaglio delle critiche di una parte della dirigenza politica.

L’ennesimo episodio di “contestazione alla mancata laurea” mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti storici della questione del rapporto che intercorre o quantomeno deve intercorrere tra la laurea e la politica.

Per comprendere e per spiegare esattamente quello che vorrei dire però è necessario partire da una piccola parentesi storica: ovvero, il ruolo che nella “Prima Repubblica” (utilizzo questo termine per identificare il periodo che va dal 1945 al 1991 circa, segnato dalla presenza dei partiti definiti “di massa”) hanno avuto le scuole di formazione politica all’interno dei partiti.

Quando si parla di “scuole di partito” si tende a parlare di un fenomeno culturale ben preciso, che non veniva utilizzato solo per fare propaganda politica ma anche e soprattutto per fornire alle persone meno abbienti gli strumenti per poter essere cittadini indipendenti.

Nelle scuole di partito non veniva insegnata solo la dottrina politica ma spesso si insegnava anche a leggere e scrivere, visto il tasso di analfabeti piuttosto alto (soprattutto al Sud Italia) e visto che non tutti potevano permettersi di andare a scuola regolarmente o permettersi di studiare.

Le scuole di formazione, dunque, non avevano solo una funzione “ideologica” ma anche e soprattutto una funzione “sociale” molto forte.

Ma la “scuola di partito” non aveva solo questa funzione, ne aveva anche un’altra molto più pratica: formare i dirigenti del partito e gli amministratori che avrebbero dovuto amministrare la “Cosa Pubblica”, visto che non tutte le lauree sono adatte alla carriera politica (e del resto sarebbe anti costituzionale limitare la possibilità di lavoro solo ad alcune lauree) da qui la necessità che emergeva di affiancare alla carriera accademica quella più “pragmatica” della scuola di partito.

Inoltre molto spesso chi non era laureato nella Prima Repubblica non lo era perché era iscritto all’università ma era già impegnato nella vita di partito (come avvenne ad esempio a Bettino Craxi – primo Ministro degli Esteri a non essere laureato – oppure a Massimo d’Alema, anche lui prima Presidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nel Governo Prodi II).

Se ci soffermiamo sulla questione della “funzione sociale” della scuola di partito possiamo dire che questa era possibile in un sistema dove i partiti ed i politici avevano ancora a mente la loro funzione sociale prima che politica e quindi avevano interesse ad avere anche un elettorato consapevole che sapesse esattamente che cosa o perché votasse, anche se non si trattava solo di questo (l’aspetto dell’istruzione in Italia spero sarà uno dei prossimi argomenti da affrontare, poiché qui sarebbe un argomento troppo vasto e porterebbe a delle conclusioni completamente sballate rispetto al tema principale).

La questione del rapporto tra laurea e politica è emersa quando la crisi del mondo del lavoro ha creato una condizione per cui ci siamo trovati con una massa di laureati iper specializzati che però non riuscivano a trovare prospettive di lavoro.

Se a questo uniamo la funzione “puramente utilitaristica” assunta dalla politica sin dall’avvento di Berlusconi nel 1994 (politica che quindi ha completamente abbandonato la sua funzione sociale) è facile comprendere come e perché si sia venuta a creare una simile discrasia di idee: la laurea viene visto come sinonimo di preparazione sufficiente per fare politica, come se la politica fosse un posto di lavoro come un altro e non un incarico conferito ai cittadini dallo Stato.

Qui subentra però un altro ordine di problema: quale laurea bisogna prendere per poter fare politica?

A rigor di logica le lauree che sono più vicine a fornire gli strumenti per poter governare un Paese con cognizione sono le lauree di scienze dell’amministrazione (Economia, Scienze Politiche e Giurisprudenza) e quelle più strettamente tecniche per quello che riguarda gli altri incarichi, per cui: Ingegneria, Medicina e via dicendo a seconda dei Ministeri che si devono coprire.

Questa scelta tuttavia rischierebbe di escludere – ad esempio i laureati in Materie Umanistiche (che potrebbero occupare solo la casella del Ministero dei Beni Culturali ad esempio) – perché per assurdo non utili all’aspetto pratico della Pubblica Amministrazione.

Dovremmo pensare ad un corso di laurea in Pubblica Amministrazione per chi vuole occuparsi di politica?

Oppure è sufficiente che i singoli partiti rimettano al centro della propria azione politica anche e soprattutto la formazione delle classi dirigenti e degli amministratori?

La questione rimane aperta e sarebbe un buon modo per “restituire” alla politica il proprio ruolo istituzionale, ripensando alla possibilità di tornare ad un cursus honorum prima di intraprendere la carriera parlamentare.

Un lavoro che si potrebbe anche presentare difficile ma che può essere una strada possibile per restituire – appunto – alla politica la propria dignità.

Qualche consiglio per fare “davvero” un Governo del cambiamento

La storia di quest’estate è storia recente: la crisi voluta da Salvini, l’accordo tra Partito Democratico e Cinque Stelle e la possibilità di formare un nuovo Governo senza andare al voto anticipato.

Tralasciamo tutti i commenti che riguardano le modalità con cui si è formato il Governo (anche perché la Costituzione è stata applicata più o meno alla lettera, per quanto possa non piacere) e soffermiamoci un attimo su quello che questo Governo deve (o dovrebbe) fare.

Innanzi tutto ci sono le questioni economiche che riguardano l’approvazione della legge in bilancio: evitare che venga aumentata l’IVA (riducendo ancora di più in questo modo i consumi già bassi degli italiani) è la prima cosa.

La seconda è quella di rivedere il reddito di cittadinanza: come misura economica di “contrasto alla povertà” potrebbe anche essere sufficiente (e dico potrebbe visti i problemi che si sono verificati nel reperire tutti i fondi necessari e la complessità delle richieste per ottenerlo) ma non basta. Per fare in modo che l’Italia esca davvero dalla crisi e possa dire di riprendersi tanto al livello economico quanto al livello salariale bisogna intervenire innanzi tutto sul mercato del lavoro.

Andando per punti cerchiamo di capire come potrebbe intervenire il Governo per essere davvero governo del cambiamento, partendo proprio dal mercato del lavoro.

LAVORO

Il mercato del lavoro in questi ultimi anni in Italia è sempre rimasto più o meno fermo.

Nonostante un consistente calo della disoccupazione (che si attesta nel mese di luglio al 9,9% secondo i dati Istat) le condizioni di vita medie tendono a migliorare.

Questo perché i salari sono ancora bassi non solo rispetto al resto d’Europa ma anche rispetto al costo della vita medio in Italia.

Ragionando per numeri, possiamo ipotizzare che il salario medio (tranne qualche eccezione) vari dai 700 ai 1200 euro (ipotizzando il secondo come stipendio massimo). Ragionando sempre per numeri: un affitto in media sta tra i 500 ed i 700 euro mensili (l’acquisto di una casa non lo prendiamo in considerazione dato che si tratta di una condizione ancora più complessa e che alla nostra analisi aggiungerebbe altre variabili), quindi ipotizzare una vita autonoma con salari così bassi diventa una vera e propria impresa.

Inoltre, un compenso adeguato potrebbe essere anche un buon incentivo per lavorare meglio per un lavoratore e di conseguenza un salario più alto consentirebbe di aumentare la produttività.

Ovviamente per aumentare i salari (e di conseguenza andare incontro ai lavoratori) è necessario intervenire anche a favore di chi il lavoro lo dà (quindi gli imprenditori) abbassando i costi proprio sul lavoro, consentendo quindi di investire sul salario, un modo per farlo potrebbe essere una riduzione delle tasse (non sono un economista per cui non mi azzardo in ipotesi improbabili su come fare, le mie restano delle idee) in modo che i soldi possano essere reinvestiti sulla qualità di vita del lavoratore.

Il Governo dovrebbe quindi farsi garante di un dialogo tra le imprese e sindacati nel tentativo di migliorare le condizioni del lavoratore a partire proprio dall’aumento del salario minimo.

Un altro aspetto da tenere in conto nel mercato del lavoro è cercare di contrastare con ogni mezzo possibile il lavoro nero, vera piaga che impedisce la crescita economica del Paese (aspetto che peraltro è strettamente correlato all’immigrazione che affronteremo più avanti) e aumentare i diritti del lavoratore che ormai sembra avere solo obblighi nei confronti del proprio datore di lavoro e nessun diritto.

IMMIGRAZIONE

Uno dei temi più spinosi degli ultimi anni in Italia.

Nel corso degli anni ho cercato di affrontare il fenomeno (anche su questo blog) cercando da un lato di essere il più obiettivo possibile e dall’altro cercando di ipotizzare scenari di una soluzione possibile per un fenomeno che non può essere controllato né tanto meno fermato.

Prima di ipotizzare una soluzione vorrei però fare una breve introduzione su quella che credo sia l’immigrazione: se prendiamo l’immigrazione non come fenomeno sociale ma come fenomeno “naturale” possiamo dire che l’essere umano è per natura un essere soggetto alle migrazioni come qualunque altro animale.

Detto questo, in un sistema di società complesso come quello attuale le migrazioni non avvengono solo per motivi “naturali” (come avveniva in precedenza) ma soprattutto per motivi politici, nella maggior parte dei casi legati alla condizione economica o sociale di quelli che emigrano. Le migrazioni possono quindi essere di vario genere: dovute ai cambiamenti climatici, alle condizioni di impossibilità a professare la propria religione, la propria cultura o il proprio orientamento sessuale, tutti elementi che sono in palese violazione al concetto di “società aperta” su cui si basa invece buona parte del pensiero occidentale.

Regolamentare i flussi migratori non vuol dire affondare i barconi o impedire alle navi delle ONG di attraccare nei nostri porti ma significa cercare una soluzione (nel nostro caso condivisa da tutta Europa) perché l’immigrazione venga percepita come una risorsa e non come una sorta di “male necessario”.

Perché questo si realizzi è necessario lavorare su almeno due fronti, uno “politico” ed uno “culturale”: quello “politico” deve trovare la strada per consentire che i flussi vengano gestiti non da un solo Paese ma da tutti i Paesi appartenenti all’Unione Europea non in base ad una ripartizione fatta a tavolino ma sulla base della necessità delle persone, mettendo al centro quindi l’individuo non le questioni politiche. Il secondo aspetto si collega con un altro punto che dovrebbe essere approfondito, ovvero la costruzione di un’identità europea.

Perché questo aspetto si possa realizzare però è necessario innanzi tutto che l’Europa prenda consapevolezza non solo del proprio ruolo economico ma anche e soprattutto del proprio ruolo “sociale” della formazione dell’individuo.

Dire “siamo europei” non può essere solo una parola priva di significato, deve essere uno stimolo per elaborare e costruire un processo di identificazione sempre più univoco in quelli che sono i valori europei in cui tutti i cittadini si riconoscono (anche qui, per affrontare il discorso servirebbe molto più spazio e conto di poterlo fare quanto prima) quindi tornando al ruolo del Governo nella gestione dei flussi migratori: almeno per quelli che sono intenzioni a restare in Italia (e sono pochi) sarebbe necessario pensare ancora prima che ad un alloggio e ad un lavoro ad un periodo di formazione sui principi e sui valori della Repubblica italiana a cui si devono adeguare prima di diventare cittadini italiani. Ovviamente questo aspetto deve essere accompagnato dalla possibilità di avere un lavoro stabile e retribuito che consenta uno stile di vita dignitoso (come prescritto dalla Costituzione) ma questo dovrebbe già essere stato risolto dal “salario minimo” quindi non ci sono problemi.

AMBIENTE

Un altro aspetto che ritengo debba essere al centro dell’azione di un Governo del cambiamento (se davvero vuole essere tale) è quello che riguarda la “questione ambientale”.

Ormai è sempre più evidente che la Terra non sia più in grado di tollerare il grado di sfruttamento a cui la stiamo sottoponendo: il continuo aumento della vendita di automobili (solo in Italia se ne posseggono almeno due a famiglia), la continua produzione di plastica ed altri materiali inquinanti e la completa mancanza di una strategia “ambientale” sta letteralmente mettendo in ginocchio sia l’Italia che il resto del mondo.

Stiamo distruggendo la Terra e non ce ne stiamo rendendo conto. Vivere in equilibrio con quello che ci circonda sarebbe la vera rivoluzione da compiere. Una rivoluzione ambientale dunque, che sarebbe da portare avanti con una lungimirante strategia di investimento delle energie rinnovabili. L’Italia potrebbe in questo essere un polo di avanguardia se solo ci fosse la volontà di farlo e soprattutto se solo l’Italia decidesse di investire risorse nella ricerca appunto delle rinnovabili.

Investire nell’eolico, nel idroelettrico o nel riciclo consapevole (e quindi attraverso una raccolta differenziata che diventi parte integrante della vita delle città) l’Italia potrebbe davvero essere un polo di attrattiva anche (perché no?) per l’investimento di capitali dall’estero che siano interessati al benessere dell’Italia e non solo a sfruttarne terreno, persone e risorse.

RICERCA

L’ultimo punto che mi preme sottolineare è la ricerca: un Governo del cambiamento dovrebbe pensare seriamente a come reperire fondi per aumentare la ricerca, sia scientifica che umanistica.

Pensare dunque ad una riforma dell’intero sistema universitario (e scolastico), una riforma però che migliori la qualità della didattica e della ricerca anche attraverso la possibilità delle scuole (e delle università) di poter avere fondi da privati in grado di finanziare progetti di ricerca.

In questo modo l’università resterebbe pubblica (con un Stato a fare da garante impedendo che i privati possano aumentare le tasse impedendo di fatto il libero accesso a tutti) ma allo stesso tempo avrebbe modo di avere una disponibilità di fondi da parte dei privati per finanziare progetti di ricerca.

Sulla ricerca vorrei soffermarmi ancora – e sicuramente lo faremo più avanti – per ora credo che come “auspici” per il Governo del cambiamento questi possano bastare.

Ovviamente sono tutti punti che devono essere approfonditi e sviluppati meglio, le mie sono abbozzi di idee di un povero “scemo del villaggio” (per citare il titolo di una canzone dei Ratti della Sabina) ma la speranza che qualcosa si possa realizzare resta, perché l’Italia merita di crescere con Governi capaci, consapevoli interessati non solo alla poltrona ma anche e soprattutto a quello che è il bene dei cittadini.