Serve un populismo di sinistra…

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Vorrei iniziare questo articolo descrivendo questo dipinto, un dipinto conosciuto da tutti, che per molti versi ha fatto storia, partendo da qualche dato tecnico per poi cercare di collegarlo con quanto successo il 4 marzo alla sinistra italiana. Il dipinto, famoso con il titolo il Quarto Stato rappresenta un gruppo di braccianti che marciano. Il dipinto è del 1898, poco dopo la strage di Bava Beccaris, il Generale che usò i cannoni in piazza per reprimere una manifestazione a Milano facendo una strada.

Il dipinto, fatto in un periodo particolare della storia italiana, rappresenta la marcia della “classe operaia” per emanciparsi dalla borghesia allora dominante.

Potremmo dire quasi che questo quadro lancia un messaggio “populista”.

Ma cosa vuol dire esattamente POPULISMO? Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una demonizzazione del termine, affiancandolo spesso alle parole di avversari politici come MATTEO SALVINI o allo stesso LUIGI DI MAIO i cui slogan venivano bollati sempre come “populisti” dando alla parola “populista” un significato molto simile alla parola “demogagia”.  Prima di procedere nell’analisi che da il titolo all’articolo è necessario fare una veloce panoramica su quello che è il “populismo” e come è stato percepito negli anni in Italia.

Il populismo, come dottrina politica, nasce in Russia come atteggiamento che esalta il popolo sopra ogni cosa, sulla base di principi ispirati al socialismo. Diciamo subito che il populismo può avere tre accezioni principali: democratico, costituzionale e autoritario (esiste anche una sua variante conservatrice detto populismo di destra).

Il populismo, nella sua accezione originale – così come si era sviluppato in Russia – propone un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa in antitesi alla società industriale occidentale.

Un Partito del Popolo venne fondato anche negli Stati Uniti nel 1891 da gruppi di operai e contadini che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione delle emissioni di azioni e l’introduzione di una tassa di successione adeguata e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto, venne sciolto dopo le elezioni politiche del 1908. Il termine del corso della storia viene poi affiancato alle figure di Peròn in Argentina, al bolivarismo ed al chavismo, poiché spesso si fa riferimento alle consultazioni popolari – veri e propri plebisciti – perché il popolo decide direttamente nei limiti della Costituzione.

il populismo – dunque – per definizione instaura una relazione diretta, non tradizionale, tra le masse ed il politico, che porta quest’ultimo alla fedeltà delle prime, sia per il sostegno attivo nella sua ricerca di potere e la funzione della capacità carismatica del leader di mobilitare la speranza e la fiducia delle masse nella rapida realizzazione delle loro aspettative sociali nel caso in cui egli acquisti potere sufficiente (G. Hermet, Les populismes dans le monde. Une histoire sociologique, XIX-XX siècle, Fayard, Paris, 2001, p. 40).

Proprio questa relazione diretta è quella che negli ultimi anni è mancata alla sinistra in generale, che si è progressivamente allontatata non solo da quelle che erano le priorità del proprio elettorato (oltre gli operai anche gli intellettuali e gli insegnanti che nella sinistra vedevano un faro a tutela della cultura contro l’imperante impoverimento culturale della destra), la conseguenza è stata il tracollo nelle ultime elezioni tanto del Partito Democratico (sceso al 18%) quanto di Liberi e Uguali (che – dopo essersi presentato come forza alternativa al PD – non arriva nemmeno al 5% e non elegge nemmeno i suoi leader in Parlamento).

La sconfitta della sinistra ha messo in luce tutti i difetti di una sinistra ormai imborghesita, spesso e volentieri solidale con le posizioni della Confindustria e delle lobbie di potere, distante – come detto da quelle che sono le necessità di un popolo sempre più affamato e sempre più impoverito (nonostante la sbandierata crescita economica del Paese, vero e proprio mantra dell’ultima campagna elettorale).

Possiamo prendere a modello di “deriva della sinistra” proprio il Partito Democratico di impronta renziana: un partito che ha messo al centro della propria esistenza la sola azione di governo senza una vera e propria analisi ideologica alle spalle, facendo solo le cose necessarie perché richieste dalla contingenza ma senza mai elaborare una propria ideologia.

Perché un elettore medio avrebbe dovuto votare Partito Democratico? Che cosa distingueva il PD dagli altri partiti? Sin dalla sua nascita il PD ha fatto leva su quello che viene chiamato “voto utile”, un voto responsabile per una forza di governo rassicurante che governa per il bene del Paese, senza scossoni eccessivi e senza mai alzare troppo la voce.

La necessità sbandierata più volte del “tornare nelle strade” presuppone che il partito abbia non solo una proposta alternativa di sistema ma che quella posizione la sostenga con forza e con coraggio, fermo restando che sia una proposta comprensibile al popolo che sia un progetto concreto di futuro. Non basta andare nelle piazze e dire “cosa abbiamo fatto” bisogna andare a dire “cosa si vuole  fare” e per farlo è necessario tornare alla politica con una classe dirigente ed una proposta nuova.

Andare nei famosi luoghi del disagio vuol dire essere anche in grado di elaborare una risposta a quel disagio non di essere solo “presenza” ma anche essere “presenza attiva”.

Le stesse cose dette del PD possono essere estese a Liberi e Uguali, un cartello politico nato in funzione antirenziana nelle aule del Parlamento e che è stato bocciato dagli elettori.

La sinistra se vuole rinascere deve tornare ad essere laboratorio politico, ripartendo da zero, aggregando le masse in un progetto nuovo, se vogliamo “populista” che sia in grado di coinvolgere “dal basso” nella costruzione di una nuova identità e di un nuovo progetto politico.

I partiti della Seconda Repubblica hanno ormai perso quasi del tutto la loro funzione aggregatrice ed è necessario pensare a nuove forme di aggregazione, ripartendo dai luoghi dove ancora si produce politica, dove ancora si elaborara e si pensano a soluzioni di sistema alternative. Un sistema di sinistra che nasce dal basso, capace di ripensare lo stare insieme rimanendo sì fedele ai propri principi ma capendo che –  come cantavano i Modena City Ramblers – “oggi Contessa ha cambiato sistema, si muove tra i conti cifrati”.

Lo spazio dei centri sociali, delle associazioni che lavorano su territorio dei Movimenti, sono lo spazio da cui la sinistra deve ripartire, diventando un catalizzatore di quei movimenti, così come era stato ai tempi della Disobbedienza e del Social Forum prima di Genova,  ripartiamo dai percorsi dell’acqua pubblica, dei diritti delle donne, dei diritti LGBT, delle “masse critiche” che si oppongono all’Europa delle banche, dalle lotte dei quartieri, ormai non più definibile come “lotta di classe” ma se mi si passa il termine “lotte di sistema”.

LA sinistra riparta dalle strade, elaborando una visione di mondo alternativa ed altermondialista che ripensi il ruolo dell’essere umano all’interno del capitalismo, in questo modo sarà possibile creare una nuova sinistra, un nuovo “populismo di sinistra” che torni ad intercettare i voti di quelli elettori delusi che si sentono ormai senza una casa e senza un senso si appartenenza.

 

Elezioni, analisi di una sconfitta annunciata (?)

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Ho deciso di iniziare questo articolo con una foto ironica.

Una foto che spiega bene lo sconforto di un elettorato che domenica alle urne non sapeva che cosa votare semplicemente perché non aveva idea di quale fosse la scelta migliore per sè stesso.

Certo, ci sono stati quelli che hanno votato senza pensare, per ideologia o per “amore incondizionato” nei confronti del candidato di turno ma ci sono anche quelli che una volta dentro l’urna hanno iniziato a sudare freddo perché davvero non avevano idea di che cosa barrare sulla scheda elettorale.

Anche l’elettorato normalmente di sinistra questa volta ha avuto difficoltà a capire perché votare anche secondo la logica del voto utile.

Risultato?
La sinistra arriva al minimo storico dai tempi del PCI, scendendo sotto quella che era stata definita la soglia psicologica del 20%  e prende poco più della LEGA che alle scorse elezioni aveva preso il 4% e che con la “cura Salvini” riesce ad arrivare al 17%.

Una sconfitta simile avrebbe dovuto essere analizzato da subito, il partito avrebbe dovuto ammettere le proprie colpe nella gestione della campagna elettorale e comprendere cosa abbia creato uno scollamento tale tra elettorato e classe dirigente da portare ad una simile disfatta.

Mi sono già occupato di quelle che possiamo definire le “colpe” della sinistra, chiedendo praticamente ad ogni tornata elettorale che venisse fatta una approfondita analisi su quanto succedeva nella società civile.

La prima reazione della “sinistra di Governo” – se la vogliamo contrapporre a quella antagonista – è stata quella di dare la colpa agli elettori che hanno votato Cinque Stelle perché ignoranti e Lega perché razzisti. Ma è davvero così o questo rifiuto del voto a sinistra ha radici più profonde?

Cercare di capire che cosa ha portato alla sconfitta del PD è uno dei punti nodali da affrontare per capire cosa fare da domani. Con questo articolo vorrei cercare di dare qualche spunto di riflessione (più a me stesso che ad altri) e cercare di offrire magari qualche spunto di riflessione anche  a sinistra.

Partiamo da un aspetto che potrebbe essere marginale ma che in realtà non lo è: perché l’elettorato vota a sinistra? Quali sono quei valori e quelle idee che un elettore fa sue quando vota a sinistra?

LAVORO Le politiche che la sinistra governista ha portato avanti sul lavoro in questi anni sono state poche e spesso contradditorie. Le riforme della sinistra sul mercato del lavoro partono dal PACCHETTO TREU, quello che di fatto ha dato il via alla precarizzazione del mercato del lavoro per arrivare sino al JOBS ACT, una riforma che funziona, che ha anche creato dei posti dei lavoro, ma lo ha fatto in una concezione di un mercato del lavoro comunque precarizzato. Certo, meglio lavorare tre mesi che stare a casa a non fare niente, ma non sarebbe meglio fare in modo che lavorino tutti, secondo il vecchio slogan lavorare tutti lavorare meno? Inoltre sono anni che i sindacati ed i movimenti vari chiedono una regolarizzazione dei salari attraverso un adegueamento del salario alle condizioni di vita perché sono aumentati i costi e diventa sempre più difficile per una famiglia di quella che un tempo era la media borghesia far quadrare i bilanci.

Analizzare punto per punto quello che è il programma della sinistra sarebbe solo un esercizio di pura accademia per cui mi limito a fare alcune considerazioni generali, cercando di capire che cosa sia successo in sede di elezione.

La sinistra ha perso contatto con la realtà. Lentamente, nel corso degli anni il progetto di una sinistra di Governo si è sempre più trasformato nell’idea di una sinistra al servizio dei potentati economici e delle lobbie elementi che di fatto hanno snaturato il rapporto di fiducia nell’elettorato classico della sinistra.

Non è un caso che molti militanti del Partito Democratico esprimessero disagio sulla questione delle banche e del salvataggio di Banca Etruria. Il disagio non era tanto legato allo scandalo che fosse implicato il padre della Boschi, ma era qualcosa di molto più profondo: il disagio di un popolo che vedeva il proprio partito abbandonare i propri valori in nome di altri che di solito venivano legati alla destra. A questo andrebbe poi aggiunta quella incapacità di comprendere il disagio bollandolo come “veterocomunista” e dando sostanzialmente dei cretini a tutti quelli che non avrebbero votato PD.

Cretinismo, populimo e razzismo

Si può pensare di analizzare il voto di domenica dicendo “hanno vinto i populisti”? Assolutamente no, si tratta di una analisi parziale, fuorviante ed ipocrita.

Quella volontà di scaricare tutta la colpa non sulle classi dirigenti ma su un elettorato che non ha risposto agli stimoli della bellisima campagna elettorale fatta dalla dirigenza di sinistra.

Chi la scelto di votare Lega o Movimento Cinque Stelle non lo ha fatto solamente perchè razzista o perché cretino (nel caso dei Cinque Stelle subentra anche la sottile ironia del fancazzismo: voto Movimento Cinque Stelle perché voglio il reddito di cittadinanza) ma semplicemente perché non aveva altro modo per esprimere il proprio disagio. Certo, avrebbe potuto farlo votando per Potere al Popolo ma il punto ora è un altro.

Le crisi migratorie e la difficoltà a vedere i risultati della tanto decantata ripresa economica hanno di fatto consegnato il Paese a quelle forze che hanno fatto una campagna impostata sulla demagogia, rispondendo però alle richieste di un elettorato smarrito e deluso da quanto avveniva attorno a lui.

Insomma, una sinistra che ha completamente smarrito il senso della propria esistenza e che ha difficoltà a comprendere che cosa sia realmente successo al voto.

Una classe dirigente frastornata, che pensava di avere in mano il Paese e che invece ha avuto un brutale risveglio.

Diventa a questo punto costruire una nuova connessione con il proprio elettorato, ma a questo punto la domanda è: qualcuno è in grado di farlo, almeno all’interno del PD?