Articolo Due della Costituzione, uno degli articoli fondamentali e meno conosciuti

Dopo l’articolo 1 della Costituzione passiamo ad analizzare nel dettaglio il secondo articolo, cosa dice l’articolo 2 della Costituzione?

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”

Cosa ci dice dunque l’articolo due della Costituzione?

Possiamo dire che senza ombra di dubbio è uno dei più importanti della Costituzione Italiana. Con questo articolo la Repubblica Italiana riconosce e garantisce i diritti dell’uomo, violati nel corso della storia mondiale ed italiana durante il fascismo (soppressione delle libertà individuali e leggi razziali).

Il secondo articolo della Costituzione può essere considerato una ovvia continuazione del primo.

In discontinuità con la prassi affermatasi durante il fascismo assegna il primato all’individuo rispetto allo Stato: i diritti del cittadino sono prima di tutto riconosciuti, quindi preesistono allo Stato e solo in seguito vengono garantiti.

Si riparte dal fondamento del costituzionalismo liberale,  il quale afferma l’esistenza di diritti innati del cittadino, che lo stato deve limitarsi a riconoscere e regolare (non si tratta quindi di una concessione da parte dello Stato come era ad esempio nello Statuto Albertino).

L’articolo due dunque, riconosce e ribadisce il valore del singolo individuo, in modo che questi possa sviluppare la propria personalità, attraverso l’affermazione delle proprie scelte, facendo valere i propri diritti  ed adempiendo ai propri doveri: questo principio viene definito “personalista” è stato alla base della rinascita della “democrazia” dopo la “dittatura”; è senza dubbio il principio più profondo della nostra costituzione, quello che afferma ed assegna a ciascuno di noi la responsabilità delle nostre scelte.

La Costituzione riconosce e garantisce il valore della persona sia individualmente, sia in gruppo (ove si legge “nelle formazioni dove si volge la sua personalità” quindi la famiglia, le associazioni e gli stessi partiti politici). Rispetto all’individuo ed alle formazioni sociali, lo stato deve limitarsi a creare una cornice dentro cui ognuno potesse fare le proprie scelte.

Bisogna ricordare che il principio personalista ha ben poco a che vedere con il processo di individualizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.

Una società fondata sui diritti individuali non è assolutamente una società invidualista dove ciascuno pensa unicamente a sé stesso.

Al contrario, i diritti individuali costituiscono quella leva necessaria per l’emancipazione di ognuno di noi all’interno di una comune cornice di libertà e di opportunità. Infatti all’individuo non solo vengono garantiti i diritti, ma viene richiesto l’adempimento dei doveri, definiti dalla Costituzione come doveri di “solidarietà politica, economica e sociale”. Dunque, secondo la nostra Costituzione NON ESISTONO DIRITTI SENZA DOVERI né viceversa: la libertà di ognuno è volta al miglioramento della società nel suo complesso.

  Questo articolo ricopre una particolare importanza (anche se spesso viene sottovalutato a scapito del primo) perché rende possibile l’inclusione di diritti considerati “nuovi” che non erano stati previsti od introdotti nella Costituzione. Pensiamo ad esempio al diritto dell’abitazione, alla tutela dell’ambiente, al riconoscimento della vita del nascituro, alle esigenze legate alla procreazione, alla privacy, alla disposizione della propria vita e quindi alla negazione dell’accanimento terapeutico.

  Un articolo dunque “variabile” come variano i diritti individuali. Solo a titolo di esempio potremmo citare il “diritto di accesso alla rete” come diritto emergente con l’evolversi della tecnica inteso come mezzo di emancipazione ed espressione personale di ciascuno di noi.

Avrete notato che l’analisi di questo articolo è meno lunga e molto meno controversa dell’articolo uno, ma comunque ricopre un’importanza fondamentale per la vita del cittadino ed il resto della nostra Costituzione, che vedremo nelle prossime settimane.

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Vediamo l’Articolo 1 della Costituzione

Iniziamo, come promesso, a pubblicare una serie di articoli per spiegare e comprendere la Costituzione Italiana.

Partiamo proprio dall’Articolo uno, tanto citato ma molto poco capito. Quello che cercheremo di fare in questa sede è portare a conoscenza non solo il testo dell’articolo ma anche provare a dare una spiegazione storica, politica e di filosofia del diritto sulle implicazioni che un articolo come l’Articolo 1 della Costituzione può avere sul nostro vivere quotidiano.

L’articolo per intero recita:

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”

Cosa ci dice esattamente il primo articolo della nostra Costituzione?

Il primo articolo della Costituzione tende a fondere le due principali caratteristiche dello Stato italiano, nato dalla guerra di liberazione: l’Italia è una Repubblica ( a norma dell’articolo 139 è la sola parte che non può essere modificata in alcun modo) ed è, grazie al suffragio universale ed alle istituzioni che vengono descritte nella II parte del testo costituzionale, una Democrazia.

Per la precisione è una Democrazia partecipativa, il cui potere appartiene al popolo, formato da tutti i cittadini, che concorrono al governo ed all’amministrazione della cosa pubblica attraverso gli istituti ed i meccanismi previsti dell’ordinamento repubblicano (in seguito vedremo quali sono questi meccanismi e quali gli organi).

Inoltre, un altro punto da mettere in rilievo è come fondamento della democrazia non sia la proprietà, con i conseguenti privilegi dello Stato Liberale, ma il LAVORO, visto come un diritto – dovere di ciascuno per il progresso personale e sociale.

In sintesi, il primo articolo è quello su cui è impostato l’intero impianto della Costituzione italiana, i due principi su cui si fonda l’ordinamento repubblicano: il principio democratico ed il principio lavorista.

Per comprendere meglio questo primo articolo della nostra Costituzione è necessario fare innanzi tutto una premessa storica: la nostra Costituzione nasce dal compromesso di diverse parti politiche – quelle che durante il fascismo guidarono la Resistenza – che volevano dare una propria impronta alla costituzione, imprimendo i suoi principi proprio a partire dall’articolo uno.

Le forze in causa erano tra loro particolarmente differenziate, e trovare un punto di accordo non era tanto facile, del resto che cosa poteva accomunare socialisti, comunisti, cattolici, liberali e populisti (su quest’ultimo termine è doverosa una leggere parentesi: il populismo è un atteggiamento politico e culturale volto all’esaltazione del popolo sopra ogni cosa, sulla base di principi ispirati al socialismo; nel dibattito politico attuale viene spesso usato con accezione negativa confondendolo con il termine demagogia).

La discussione impegnò per mesi e mesi tutti i capi dei maggiori partiti e tutti i maggiori costituzionalisti.

Il compito di trovare la sintesi tra le varie posizioni venne affidata a MEUCCIO RUINI,(Reggio Emilia, 14 dicembre 1887- Roma, 6 marzo 1970) esponente del Partito Radicale Italiano (da non confondere con il Partito Radicale  di Marco Pannella, nato da una scissione del Partito Liberale), Presidente del Comitato dei Settantacinque, il comitato che ebbe il compito di preparare la quasi totalità degli articoli prima che venissero sottoposti all’Assemblea.

Dunque, cosa decisero i nostri Padri Costituenti dopo lunga discussione? Che cosa esprime esattamente il nostro ARTICOLO UNO?

Innanzi tutto dichiara che l’Italia è una Repubblica democratica, e lo dice come prima cosa in assoluto. Quindi la Repubblica, la democrazia e l’Italia sono elementi non scindibili, esistono uno in funzione dell’altra. È bene tenere a mente questo concetto, perché si ricollega all’ultimo articolo della Costituzione,  il 139, che dice:

La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.

Quindi, dimenticatevi che si possa tornare alla monarchia, la dittatura, l’impero, il consolato, o qualsiasi altra forma che non sia pienamente democratica e repubblicana.

Sempre nell’articolo uno (al primo comma) si sostiene che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro.

Un principio altamente nobile, non c’è che dire, il quale però esprime un concetto abbastanza debole, non affermando assolutamente nulla di esplicito se non una speranza, e non obbliga lo Stato a dare lavoro a tutti. Va tenuto a mente questo aspetto, perché proprio questo ha dato vita negli ultimi anni ad una serie di fraintendimenti che si fa molta fatica a superare.

Si tratta di una sintesi ideologica di parte del pensiero comunista, socialista e popolare, osteggiata peraltro nella sua formulazione (e nel suo posizionamento) da quasi tutti gli azionisti (esponenti del Partito d’azione) e che venne ideata da AMINTORE FANFANI, uno dei massimi esponenti della Democrazia Cristiana  che in questo modo concluse un dibattito prolungato che offrì in questo modo un compromesso alla parte comunista e socialista, i quali cedettero su alcuni punti che definivano i rapporti con la Chiesa, gli articoli sulla famiglia e l’istruzione, ed al momento in cui venne votato, sul Concordato.

Molto più interessante è invece il secondo comma, quello che doveva stabilire una volta per tutte a chi appartenesse la sovranità, ovvero: chi detiene il potere decisionale nell’Italia Repubblicana?

La sovranità apparteneva al Governo? No, nemmeno per idea. Era così durante il fascismo (e così sarebbe stato in molte riforme costituzionali proposte negli anni a venire). Al Parlamento, come avviene ad esempio negli Stati Uniti? Nemmeno. Il nostro – a differenza di quello americano – non è un Parlamento federale, il quale – a differenza di quello americano – viene rinnovato ogni cinque anni.  Quindi, il vero detentore del potere, non poteva che essere lui: L’INTERO POPOLO ITALIANO.

A spiegare bene questo punto è l’onorevole GRASSI, uno dei costituenti che così scrive:

Lo Stato, che è depositario del potere di comando, lo esercita attraverso gli organi del suo ordinamento; ma questi organi sono azionati e ricevono autorità e forma dal popolo che, direttamente o indirettamente, dà ad essi tutta la capacità della sua manovra”.

Lo stesso Ruini (che abbiamo già citato in precedenza) commentò in questi termini la decisione, commentando anche le parole che si dovevano utilizzare: “La sovranità risiede nel popolo, appartiene al popolo, emana dal popolo, è nel popolo, sta nel popolo eccettera. Stanco del dibattito, io mi sono rimesso alla Costituente per la scelta del verbo. Non inopportunamente è stato scelto appartiene al popolo; mentre emana dal popolo poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”.

Anche la scelta della parola popolo non è una scelta casuale. Non si parla infatti di elettori, ma di tutti coloro che sono italiani, quindi: uomini, donne, bambini, neonati, e per alcune accezioni anche gli stranieri residenti sul nostro territorio (residenti a tutti gli effetti, è bene sottolinearlo).

Dunque, il fatto che la sovranità appartenga al popolo non deve essere un aspetto che può essere dimenticato o sottovalutato. Non sono i parlamentari o il Presidente del Consiglio a comandare: quelli sono solo i rappresentati del popolo, che hanno il compito di ascoltare e mettere in atto tutte le aspirazioni e desideri del popolo stesso.

Premesso tutto questo l’articolo uno dice anche un’altra cosa: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ovvero?

Innanzi tutto viene detto in maniera esplicita che gli strumenti e gli atti di sovranità popolare devono essere previsti dalla Costituzione e solo dalla Costituzione, e non possono essere altri se non quelli.  Nessuno dunque può aggiungerne arbitrariamente di nuovi (tipo: non potete proporre il plebiscito, cioè una consultazione popolare per far approvare un certo comportamento o decisione) e nessuno può togliere o sminuire quelli esistenti. I quali in sostanza sono:

  1. Le Elezioni: Strumento attraverso le quali tutti i cittadini maggiorenni sono chiamati a scegliere i partiti ed i candidati che formeranno le assemblee legislative e recentemente anche con la scelta diretta di chi ci amministra – quindi sindaci ed organismi regionali – ma non chi ci governa (il che trasformerebbe la nostra repubblica in un organismo direttoriale)
  2. Il referendum abrogativo: Questa forma di referendum permette ai cittadini di eliminare una legge che non piace. Non importa che la legge sia giusta o sbagliata: è solo il “gradimento” del popolo che permette di eliminarla o meno. Comunque non possono essere soggetti a referendum le leggi fiscali ed i trattati internazionali (quindi… no, non si può fare un referendum per uscire dall’euro).
  3. Il sistema giudiziario in senso lato. Le sentenze del tribunale sono emesse in nome del Popolo italiano, ed anche se questa sembra essere solo una forma retorica, è invece un costante riferimento al fatto che la giustizia vada applicata solo nell’interesse e secondo lo spirito dell’intera comunità e non per favorire una parte o l’altra della comunità. Quindi, una sentenza che non rispondesse ai principi democratici della Costituzione non sarebbe valida, perché non potrebbe essere fatta in nome del popolo italiano il quale si RIFLETTE nella Costituzione.

 

Dunque, come abbiamo visto, nell’articolo uno si parla di lavoro solo ed esclusivamente di lavoro in maniera indiretta, sono altri gli articoli che parlano esplicitamente di LAVORO, ma dovrete aspettare, perché per oggi ci fermiamo qua.

Approfitto di queste ultime righe per aver avuto la pazienza di seguirmi fino a qui. quiz-costituzione

 

Lavoro e salario in Italia, prospettive per il 2018

Utilizziamo un vecchio slogan sindacale per parlare di lavoro, nello specifico per parlare di precariato e lavoratori dei call center.

Secondo i dati ISTAT nel mese di dicembre del 2017 la stima degli occupati è calata dello 0,3% (-66 mila posti di lavoro) tornando al livello di ottobre, mentre il tasso di occupazione scende al 58,0% (0,2% punti percentuali).

Rileviamo che il calo dell’occupazione nell’ultimo mese interessa tutte le componenti di genere e di tutte le classi di età eccetto la fascia che riguarda gli ultracinquantenni. Risultano in diminuzione i lavoratori dipendenti, sia permanenti sia a tempo determinato, mentre rimangono stabili gli indipendenti.

Nel trimestre ottobre-dicembre si registra un lieve incremento degli occupati rispetto al periodo precedente (+0,1%, +16 mila).

La stima delle persone in cerca di occupazione a dicembre diminuisce per il quinto mese consecutivo (-1,7, -47 mila).

La diminuzione della disoccupazione interessa donne e uomini e riguarda tutte le classi ad eccezione di quella 25-49 anni. Il tasso di disoccupazione si attesta attorno al 10,8% (-0,1% rispetto a novembre), mentre quello giovanile scende al 32,2% (-0,2%).

Cresce invece la stima degli inattivi tra i 15 ed i 64 anni e cresce dello 0,8% (+112 mila), interessando tutte le età e tutte le componenti di genere. Il tasso di inattività sale al 34,8% (+0,3 punti percentuali).

Eppure a queste notizie positive è strettamente correlata una negativa: secondo i dati del Trades Union Congress (TUC), il quale ha fatto una analisi partendo dai dati OCSE, è prevista in Italia una progressiva decrescita dei salari, ma vediamo nel dettaglio cosa dice l’analisi.

L’analisi riguarda il salario reale, ovvero la quantità di beni e servizi che il lavoratore può acquistare con il suo stipendio, che si traduce con nel suo POTERE DI ACQUISTO.

Il salario reale viene calcolato sulla base del rapporto tra salario nominale (la quantità di moneta ricevuta come stipendio) e l’inflazione.

Questo calo ci sarà nonostante in Italia nel 2018 entrerà in vigore il nuovo contratto del pubblico impiego che prevede un aumento di stipendio di 85 euro lordi per tutti gli statali. L’aumento però rischia di non essere sufficiente per far fronte all’inflazione: i prezzi dei beni di servizio cresceranno ben più dei salari con la conseguente decrescita del valore salariale.

Il motivo di questo calo non è da attribuire all’ingresso nell’Unione Monetaria (anche in virtù del fatto che in altri Paesi dell’UE i salari sono destinati a crescere nel 2018). Secondo Luigi Marattin, consulente economico della Presidenza del Consiglio il problema è lo stretto legame tra i salari medi e la produttività del lavoro (ossia la quantità di cose che vengono prodotte in un Paese in un anno in rapporto al numero ed alle ore) con quest’ultima che dal 1996 è cresciuta solamente del 5,8%. A questo punto è necessario porsi una domanda: perché la produttività del lavoro non cresce in Italia?

Una risposta la fornisce NICOLA BORRI, economista della LUISS di Roma, che nel 2016 ha affrontato la questione in un’intervista rilasciata all’Ansa.

Secondo l’analisi di Borri si possono identificare due motivazioni che rallentano la produttività italiano: l’arretratezza della tecnologia e la totale o quasi mancanza di specializzazione del nostro Paese in settori – come ad esempio la moda ed il turismo – che risultano essere meno trainanti di altri più tradizionali come ad esempio la meccanica.

Dunque una soluzione potrebbe essere proprio questa: incrementare gli investimenti nel settore meccanico, chimico o manifatturiero dove gli effetti della tecnologia sono più evidenti, e fare in modo che facciano da traino per tutti quei settori che devono crescere.

Parallelamente è necessario migliorare la qualità del lavoro.

Perché questo sia possibile è innanzi tutto necessario ripartire dalla formazione universitaria – visto che tra i Paesi OCSE l’Italia risulta essere quello con la percentuale di laureati più bassa nella fascia d’età 25-64 anni.

Un suggerimento per il prossimo governo, che avrà il compito di riportare i salari medi ai livelli pre-crisi del 2008.

(I sull’aumento salariale sono presi dal sito Money.it mentre la prima parte è stata presa dal sito dell’Istat)

Fascisti 2.0 e la crisi dei sistemi liberali

I fatti di Macerata ed il seguito di eventi che questi hanno scatenato rendono necessaria una serie di considerazioni su quanto sta avvenendo in tutta Europa ma soprattutto in Italia.

Riassumiamo i dati per sommi capi: una ragazza tossicodipendente viene barbaramente uccisa ed il primo sospettato è un immigrato senza regolare di permesso di soggiorno (o meglio con permesso di soggiorno scaduto); non appena la storia esce tutto il centrodestra italiano inizia a puntare il dito contro le politiche di immigrazione del centrosinitra considerate troppo blande e permissive nei confronti degli immigrati; qualche tempo dopo LUCA TRAINI, candidato alle elezioni proprio con Lega sale in macchina e decide di sparare a tutti gli immigrati che incontra per strada rivendicando l’attentato come “vendetta per la morte di Pamela” lasciando intendere chiaramente che le sue convinzioni politiche sono fasciste (tanto che a casa gli viene trovato materiale propagandistico fascista).

A quel punto si è scatenata da parte di tutti i politici una rincorsa alla giustificazione, alla negazione dei fatti oggettivi, dicendo che si trattasse solo di uno squilibrato, che non si tratta di fascismo vero e proprio, che bisogna fare dei distinguo, sino ad arrivare a giustificare l’atto terroristico dando la colpa alla crisi ed al contesto sociale.

Partiamo dalla prima domanda, da cui poi cercheremo di sviluppare tutte le nostre analisi.

  1. ESISTE IN ITALIA UN PROBLEMA LEGATO AL FASCISMO DI RITORNO?

Indubbiamente sì.

Il ritorno delle ideologie e delle idee fasciste non può essere negato.

La galassia di forze che ruota attorno al sottobososco delle sigle dell’ultradestra è un universo vasto ed in costante aumento: Forza Nuova, CasaPound, Blocco Studentesco (il movimento studentesco che si definisce “fascista”) sono la conferma che abbiamo un problema con il ritorno delle idee fasciste, idee che sempre più persone immaginano come soluzione alla crisi dei sistemi liberali da cui l’Italia fa sempre più fatica ad uscire.

Il costante aumento della povertà in determinate zone del Paese, la costante e progressiva riduzione della ricchezza del Paese ed il costante impoverimento delle famiglie di quella che un tempo era la classe media, porta a cercare sostegno in quelle realtà di estrema destra che nel corso degli ultimi anni si sono impossessati delle periferie, rispondendo a quelle richieste di sostegno e di assistenzialismo che un tempo erano svolte dalla “sinistra” (almeno questa è la percezione popolare).

Complice una classe politica che ha smesso da tempo di dare risposte alle esigenze del Paese riemergono delle ideologie che nel diverso identificano il nemico da battere,  causa di tutti i mali.

Come avvenne al tempo dei Protocolli dei Savi di Sion, che vedevano negli ebrei la causa di tutti i mali (la famosa teoria del complotto pluto-giudaico-massonico di controllo del mondo) oggi la causa di tutti i mali viene vista negli immigrati, considerati “complici inconsapevoli” del progressivo impoverimento della società e della classe media.

In una campagna elettorale priva di contenuti politici, come rileva anche Marco Damilano nel suo ultimo editoriale sull’Espresso, il cittadino medio si rifugia nella sola ideologia che offre una risposta, quella fascista, che identifica un nemico – non più il capitale ma il diverso – e che offre “rassicurazione” su quelle che possono essere le soluzioni per uscire dalla crisi.

A questo andrebbe aggiunta la difficoltà della classe politica italiana a fare i conti con il passato: l’Italia non è mai uscita dalla Guerra Civile, sempre divisa tra “fascisti” ed “antifascisti” aveva trovato nella Prima Repubblica una sorta di equilibrio saltato con la fine di Democrazia Cristiana e Partito Comunista i due partiti che più di tutti hanno cercato una sorta di “normalizzazione della Guerra Civile”.

Il crollo delle ideologie ha portato quindi a cercare sostegno nella sola realtà ideologica presente sul territorio nazionale, forte anche delle proposte della Lega in materia di immigrazione e di una parte del centrodestra.

A questo bisogna aggiungere almeno un altro elemento: l’incapacità di una classe politica (soprattutto di centrodestra) incapace a prendere le distanze da posizioni fasciste come fece GIANFRANCO FINI quando definì il fascismo “il male assoluto”.

2. CHE FARE?

Utilizzo il titolo di uno dei testi fondamental del leninismo per cercare una soluzione a quelle che potrebbero essere delle proposte su come uscire dalla crisi.

a) Ammettere che esiste un problema “fascismo” in Italia

Negare l’evidenza potrebbe portare a conseguenze nefaste. Consentire l’ingresso in Parlamento di forze politiche che si richiamano esplicitamente al fascismo può essere per noi l’inizio della fine.

Il primo passa da fare è quindi quello di ammettere che esiste un problema correlato al fascismo ed affrontarlo soprattutto nelle scuole.

Utilizzo quello che disse Borsellino a proposito della mafia: “parlatene alla televisione, parlatene alla radio, parlatene nelle scuole, parlatene dove volete purché se ne parli”. Mettete in luce come determinate ideologie sono contrarie ai valori stessi dell’umanità, come non si possa parlare di razza e di supremazia di una razza nei confronti di un’altra, raccontate che cosa è stato il fascismo è stato, cosa ha prodotto e come lo ha prodotto.

La consapevolezza della storia è il primo passo per impedire che vengano ripetuti errori nel futuro: sappiamo cosa ha prodotto il fascismo, perché ripetere quell’esperienza?

Bisogna contrastare il fascismo senza SE e senza MA , indipendentemente dal credo politico, dalle idee in fatto di immigrazione e politiche sociali, mettendo da parte quelle che sono le questioni da campagna elettorale e combattere un fenomeno ancora marginale ma che rischia di ingrandirsi a dismisura.

Iniziamo a chiamare le cose con il loro nome: non sono quattro emarginati ma sono “fascisti” e come tali vanno perseguiti.

Quello di Traini, per tornare ai fatti di Macerata è un attentato di matrice razziale con l’aggravante di propoaganda fascista e come tale andrebbe perseguito e condannato.

3. CONVOCAZIONE DI UNA GRANDE MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA ED IN DIFESA DELLA DEMOCRAZIA

Una volta che tutte le forze hanno ammesso che esiste un problema correlato al fascismo è necessaria la convocazione di una GRANDE MANIFESTAZIONE DI TUTTE LE FORZE DEMOCRATICHE in difesa ai valori della libertà, della Costituzione e della democrazia. Non è una cosa banale, e la manifestazione deve essere aperta a tutte quelle forze politiche si definiscono “antifasciste”.

Fa un certo effetto vedere chi ha votato No al referendum, tutelando la Costituzione, difendere o accettare ideologie che sono nettamente contrarie ai principi della  Costituzione stessa.

Post scriptum

Ovviamente siamo in questo articolo rimasti nel campo puramente teorico, analizzando il rischio di un ritorno del fascismo in Italia (pertanto da scongiurare) ma l’analisi dovrebbe essere in realtà molto più profonda: sarebbe necessario che tutte le forze politiche tornassero ad occuparsi dei bisogni delle persone, tutelando gli interessi della cittadinanza invece che quelli del singolo, tornando a mettere le questioni politiche al centro della propria azione, eliminando quelli che sono personalismi e questioni di interesse privato a scapito di quello collettivo.

Avremo modo di riparlare anche di questo, cercando di elaborare strategie e soluzioni perché l’Italia possa uscire dalla crisi, ma per ora mi limito a chiedere questo: combattiamo con tutte le nostre forze tutte quelle ideologie contrarie alla democrazia, è il primo passo per evitare che ci siano “ritorni di fiamma”. 

Il ritorno alla “Forma Partito” per superare la “personalizzazione della politica”

Nell’ultimo Ventennio abbiamo assistito in maniera più o meno omogenea da parte di tutti i partiti che compongono l’arco costituzionale del Parlamento italiano ad un fenomeno che è stato definito dalla politologia “personalizzazione della politica”.

Un fenomeno che potremmo far risalire al 1994, quando Berlusconi diede vita al primo partito personale della storia d’Italia: Forza Italia. Finita l’era delle grandi ideologia la forma del “partito personale” divenne quasi una necessità per superare la ideologie e le differenze tra i partiti che, finita l’era delle ideologie, avevano necessità di spingere l’elettorato a votare su basi completamente diverse: quello appunto del “leader carismatico” e la “personalizzazione della politica”.

Alla base del voto non vi era più la strategia del partito bensì la figura del Leader carismatico, la guida del popolo che assumeva pieno controllo della campagna elettorale incentrando sempre più il dibattito politico sulla sua figura e non più sui programmi e sul voto ideologico.

Da Berlusconi a Renzi esiste una continuità non programmatica ma ideologica sulla struttura della forma partito, sebbene tra i due vi siano delle sostanziali differenze legate soprattutto alla tradizione dei partiti di cui sono espressione.

Da una parte abbiamo Silvio Berlusconi, incarnazione della logica del partito personale, che potremmo anche definire “partito azienda”, dove il leader non solo esprime la linea di partito ma si circonda anche di personaggi a lui fedeli ed affini per portare avanti una linea di Governo più o meno coerente su quanto proposto su un programma elettorale nato non dalla mediazione delle posizioni ma dalla volontà del leader. Il programma elettorale insomma diventa non più frutto di mediazione tra le varie componenenti di un partito ma espressione del leader che lo sottopone poi alla visione della Segreteria ma solo per “presa visione” se mi passate il termine.

Leggermente diversa la condizione del Partito Democratico e di Matteo Renzi, il quale comunque è stato eletto da una comunità di iscritti alla Segreteria del partito e come tale è più che legittimato a governare e dettare la linea al partito.

Le contestazioni che gli vengono mosse di una eccessiva personalizzazione lasciano il tempo che trovano perché prima di lui anche Bersani aveva creato un partito che potremmo definire ad personam dove i suoi uomini occupavano i posti chiave negli incarichi di partito e così era stato anche con Veltroni (differenti i casi di Franceschini ed Epifani , segretari pro tempore in attesa del Congresso che avrebbe nominato il nuovo Segretario).

Il procedimento che ha portato alla personalizzazione della politica si può facilmente spiegare come il tentativo di superare la fine delle ideologie a partire dal 1992, un fenomeno che potremmo definire deideologizzazione dei percorsi della politica.

Il referendum del 4 dicembre, con la sconfitta della proposta di Riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi di fatto ha riportato indietro la politica italiana riproponendo un modello di democrazia incentrata sui partiti e non più sulla persona.

Alla luce di questo risultato è necessario prendere atto di questo cambio di passo e riformulare un modello che rimetta al centro dell’azione politica non più la figura del leader ma la forma partito , dove il partito assuma una struttura composta da quadri e dirigenti formati ed in grado di portare avanti non le proposte del leader ma quelle del partito che ritorna al centro dell’azione politica.

Perchè questo sia possibile è necessario ricostruire quel tessuto di formazione politica che per anni era stato al centro delle strutture dei partiti della Prima Repubblica.

Pensare ad un partito non più liquido, come era stato concepito dal 1994 in poi da Berlusconi, ma un partito solido formato da militanti che si sono formati sul territorio e che sono in grado di rispondere a quelle che sono le istanze di una politica e di un elettorato che sempre più ha bisogno di risposte immediate alle sue richieste ed ai suoi bisogni.

Perché questo avvenga è necessario ripensare ai metodi di gestione della politica, rimettere al centro competenze, formazione e azione politica.

Torneremo ancora a parlare di proposte sulla formazione partito e sulla struttura delle scuole di formazione di cui a mio avviso dovrebbero dotarsi i partiti, per ora prendiamo atto che il sistema maggioritario non funziona più e quindi bisogna rimettere al centro dell’azione politica i partiti e non più le persone.