Stati Uniti d’Europa contro il terrorismo

Gli attentati di Bruxelles hanno dimostrato come la totale mancanza di una politica comune europea in materia di terrorismo possa essere distruttiva nella gestione della prima vera emergenza terrorismo che si trova ad affrontare l’Europa. Per la prima volta da quando è nata l’Unione Europea si trova a dover affrontare una vera e propria emergenza terrorismo, una guerra che si combatte a colpi di attentati suicidi e di servizi segreti.

La forza del terrorismo islamico sta proprio nel fatto di colpire l’Europa nelle sue divisioni e nella sua fragilità, nelle sue divisioni e nelle sue lotte intestine per uno spicchio di potere.

L’idea portata avanti dal Governo italiano di mettere a disposizione delle Forze dell’Ordine un database comune dove sono schedati i terroristi è di fatto il primo passo per la costruzione di un processo comune europeo che non solo non lasci da solo il Belgio in questo frangente ma dimostri allo Stato Islamico che l’Unione Europea non si divide sotto i colpi del terrorismo.

La creazione del database tuttavia è solo il primo passo in direzione di quel processo di costruzione dell’Unione Europea che sino a questo momento è stato lasciato tronco, facendo emergere un forte sentimento anti europeista rappresentato dalle forze conservatrici della politica che di fronte alla crisi pensano ad un ritorno alla moneta nazionale ed ai dazi abbandonando del tutto il progetto di una moneta comune di un mercato comune europeo.

La globalizzazione, tanto quella economica quanto quella del terrorismo, ci chiede di mettere da parte la nostra sovranità per lavorare ad un progetto più alto che vada in direzione del federalismo europeo, così come l’Unione era stata concepita all’inizio dal Manifesto di Ventotene scritto da Spinelli e Rossi.

Ovviamente perché questo possa avvenire dobbiamo smettere di pensare al Parlamento Europeo un luogo dove ogni Stato pensa a come portare acqua al proprio mulino, ma iniziare a pensare all’Europa come il vero centro della politica europea tanto in materia finanziaria che in politica estera e nel pensare i rapporti con il blocco americano, cinese, indiano ed anche quello russo, partner “naturale” dell’Unione Europea sia per quanto riguarda tanto le strategie per la lotta al terrorismo sia per quanto riguarda gli accordi di politica energetica.

Vorrei provare nel corso del tempo su questo blog di aprire un vero e proprio laboratorio di proposte per arrivare alla costruzione degli Stati Uniti D’Europa condividendo tanto la storia del percorso di unificazione europea quanto le politiche che possono portare alla realizzazione del progetto iniziato a Ventotene e mai terminato.

Monitoraggio, cosa è ed a cosa serve

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Sempre più spesso nelle campagne elettorali soprattutto sui social network sta diventando fondamentale l’elemento del “monitoraggio” sia del proprio candidato che delle mosse dei propri avversari.

Il monitoraggio di norma viene fatto principalmente per due motivi: da una parte (come abbiamo detto) per controllare le mosse del nostro avversario (magari anche trovare qualche argomentazione per attaccarlo) dall’altra per “monitorare” la reputazione del nostro candidato non solo sulla base di quanto dicono gli avversari ma anche di quello che pensa l’opinione pubblica.

Partiamo dalla prima forma di monitoraggio, quella sugli avversari. Molti tendono a fare monitoraggio riportando semplicemente quelle che sono le parole di un candidato facendo il copia incolla di quello che si trova sui social oppure riportando le dichiarazioni che sono state fatte in una trasmissione radiofonica o in televisione.

Mettiamo il caso che mentre noi siamo impegnati a raccogliere le dichiarazioni del nostro competitor riportando fedelmente ogni sua parola ed ogni sua dichiarazione su un giornale esce un piccolo articolo di spalla in cui viene comunicato che un collaboratore è stato inquisito per truffa, noi ci siamo fatti sfuggire una buona occasione per attaccare il nostro avversario insinuando dubbi sulla sua onestà visti i collaboratori di cui si circonda (in questo caso non serve nemmeno commentare più di tanto, basta riportate la notizia sulle nostre pagine e lasciarla agire da sé). Allo stesso modo tramite le rete possiamo fare uno studio sulle abitudini e sulla vita del nostro competitor, con quella tecnica che si chiama negative campaigning, molto usata nelle campagne elettorali americane. Se per esempio abbiamo un candidato che parla di tagli alla pubblica amministrazione; riportando la notizia troviamo la notizia che ha aumentato i costi del personale dei propri collaboratori del 20%, oppure che la moglie ha utilizzato la macchina di servizio per andare ad un evento privato.

Questa tecnica di campagna negativa viene comunque principalmente utilizzata se bisogna recuperare un grande svantaggio oppure se l’avversario ha fatto qualcosa di veramente grave. Non lo è invece per il favorito perché una simile strategia è un’arma a doppio taglio dato che getta discredito sulla politica e di conseguenza anche sul proprio operato. Come tecnica, usata con le dovute precauzioni tuttavia si può rivelare come molto utile, non fosse altro perché ha il merito di motivare i propri sostenitori spingendoli ad impegnarsi perché è così importante sconfiggere l’avversario e motivarli a convincere altri ad andare al voto.

Come secondo effetto si otterrebbe quello di demotivare i sostenitori dell’altro candidato no perché vengono convinti da una campagna negativa a cambiare idea ma perché si aumenta in questo modo la probabilità che quel candidato non ottenga i voti necessari tra i suoi potenziali elettori.

Inutile dire che prima di lanciare un simile attacco è necessario fare tutte le opportune verifiche visto che un abbaglio – rischio sempre dietro l’angolo – e potrebbe pregiudicare l’esito dell’intera campagna.

Un’altra forma di monitoraggio – a mio avviso più importante di quella sugli avversari – è il monitoraggio della reputazione del nostro candidato. 

Per quanto sia importante pianificare e sapere quello che dicono i nostri avversari è ancora più importante e fondamentale sapere quello che i nostri elettori sia reali che potenziali pensano di noi.

Ormai per molti è diventato un gesto automatico: quando si ricerca un’informazione su qualcuno o qualcosa la prima cosa che viene fatta è digitare il nome della persona o della società che stiamo cercando su uno dei principali motori di ricerca (nella maggior parte dei casi si tratta di Google).

Anche in questo caso possiamo distinguere diverse forme di monitoraggio:  il monitoraggio delle conversazioni  che permette di cogliere le opinioni dei cittadini in maniera più spontanea rispetto ad un focus group o ad un sondaggio dove si sa di essere osservati.

Ascoltare l’opinione dei cittadini consente di migliorare la propria strategia comunicativa, chiarire punti oscuri del proprio programma.

L’ascolto della rete ormai è fondamentale, perché ci consente di conoscere meglio il proprio pubblico di riferimento per questo il monitoraggio diventa sempre più un elemento decisivo delle campagne elettorali o delle campagne di marketing e deve essere iniziato sin dall’inizio della pianificazione strategica per poter valutare meglio lo scenario entro cui si svolge il dibattito.

Ultima cosa: è fondamentale che i risultati di questo monitoraggio vengano diffusi tra i principali membri dello staff per dare a tutti una maggior conoscenza dei temi che si sono affrontati nel corso della discussione con i cittadini

Politica e Social Media, qualche errore da evitare

Da anni ormai la discussione politica, oltre che sui canali di comunicazione classica si è spostata sui social network.

Facebook, Twitter, Instagram, WordPress e Tumblr solo per citare alcuni tra i social network più gettonati, sono sempre più al centro del modo di comunicare della politica e sempre più serve affidare la comunicazione a personale specializzato.

Mentre negli Stati Uniti la comunicazione sui social viene presa in seria considerazione come strumento per creare consenso e tramutare quel consenso in volontariato per la politica, in Italia lo strumento dei social media viene ancora sottovalutato dalla maggior parte dei politici.

Non tutti i politici dispongono ad esempio di una pagina Facebook e Twitter e non tutti lo utilizzano nel migliore dei modi, anzi molti tendono a fare degli strumenti mediatici un pessimo uso, spesso fine a sé stesso e senza una strategia precisa di come una pagina ed un account vadano gestiti.

Vorrei dedicare questa parte del blog a tutti coloro che si ritengono “addetti ai lavori” o che sono più o meno interessati alla comunicazione digitale ed alla comunicazione in genere come strumento per creare militanza e consenso.

Prima di tutto una premessa: iniziando adesso ad occuparmi di questo argomento quello che scriverò sarà solo la prima considerazione di una serie di errori che ho riscontrato nella gestione dei social, andando avanti cercheremo di essere sempre più precisi e scendere sempre di più nel dettaglio.

  1. MANCANZA DI PERSONALE QUALIFICATO 

Comunicare sui social network non è una cosa semplice, un semplice post su Twitter può far perdere consensi elettorali, suscitare l’ilarità del web, scatenare un dibattito che porta ad una perdita di consensi su un politico.

Prendiamo un caso eclatante delle elezioni a Milano che hanno visto la vittoria di Pisapia alle amministrative: sulla pagina Twitter della sfidante del sindaco di centrosinistra, Letizia Moratti compare una mattina una domanda “che cosa ne pensa il sindaco del progetto di costruzione della moschea nel quartiere di Sucate?”; lo staff della candidata risponde prontamente che il progetto sarebbe sicuramente stato bloccato, e che quindi i cittadini potranno stare tranquilli che non ci sarà nessuna moschea. Sin qui niente di male, se non fosse che il municipio di “Sucate” non esiste e quindi la risposta scatenò l’ironica reazione del popolo di Twitter anche sulla base del doppio senso del nome del quartiere.

Di per sé questo episodio ci fa capire principalmente due cose: primo, lo staff della Moratti non conoscendo Milano ha risposto sulla base di un post senza documentarsi; secondo, l’episodio è stato deleterio per la Moratti perché la risposta era sulla sua pagina Twitter e quindi era lei ad ignorare che il quartiere  a Milano non esiste.

Una delle tendenze di molti politici è quella di affidare la comunicazione ad amici “smanettoni” che sanno più o meno come si usano i social e passano il loro tempo su Internet. Persone di buona volontà che si spendono per promuovere un candidato che però commettono errori grossolani per l’appunto come quello di Sucate. In  questo caso quello che è mancato è stata la capacità di controllare la veridicità della notizia prima di rispondere (bastava andare su Google per sapere che Sucate non esiste) e rispondere con toni ironici alla notizia pubblicata.

Qui sorge allora un altro problema: la maggior parte dei politici (e spesso anche delle società) affida la comunicazione sui social ad una sola persona che da sola si trova a dover gestire spesso e volentieri tre, quattro a volte anche cinque social network applicando lo stesso criterio di gestione a tutti i social. Per esempio: una persona bravissima a gestire Facebook non è detto che sia altrettanto capace a gestire Twitter o Instagram o Pinterest. Uno staff di comunicazione dovrebbe essere composto da almeno due team che si occupano di cose diverse e che devono tra loro interagire.

2. I COMMENTI 

A chi non è capitato almeno una volta di scrivere qualcosa su Facebook o Twitter e ottenere delle critiche e delle risposte negative al proprio commento? Più o meno a tutti, anche tra i nostri amici non tutti la pensano come noi e non tutti sono disposti ad accettare il proprio punto di vista. Ho notato che molti politici e dirigenti hanno la tendenza a scrivere sui social network e poi lasciare i commenti in balia degli umori della rete con effetti deleteri sulla gestione della pagina.

Prendiamo un politico che sulla sua pagina Facebook per i primi due post riceve una critica da parte di un elettore (o di un ex elettore): magari gli viene fatto notare come nel periodo in cui lui era amministratore o quando lo era il suo partito c’erano stati dei problemi su appalti o casi di tangenti o altre cose simili, come si deve comportare lo staff? Ovviamente deve rispondere, spiegando la posizione e magari cercando di far ragionare quel dato elettore che la situazione non era esattamente quella. Ad esempio prendendo le distanze dall’episodio, facendo notare che il quel periodo il candidato non era in amministrazione. Non rispondere ai commenti negativi potrebbe essere inteso come un “silenzio assenso”, non so cosa rispondere perché è vero. Sarebbe buona norma rispondere ai commenti negativi magari esordendo con un “caro elettore, ti ringrazio per la segnalazione, sarà mia premura una volta eletto risolvere questo problema” indicando anche una breve descrizione di come si intende risolverlo. Lo stesso vale per i commenti positivi, in modo che un elettore “fidelizzato” si senta ancora più legato a quel candidato, perché si sente parte di un progetto.

3. CREAZIONE DEL CONSENSO 

I social, per utilizzare una terminologia ripresa dal sociologo polacco naturalizzato americano Zygmunt Baumann sono l’esempio per eccellenza di “società liquida”: la rete è un immenso contenitore globale dove ognuno nascosto da una tastiera esprime la propria idea e si rende partecipe di una protesta o di un progetto spesso chiedendo proprio attraverso i social di essere partecipe attivo di un cambiamento. Lasciare da solo queste persone vuol dire perdere un potenziale voto ed un potenziale elettore/sostenitore. Sarebbe bello se ad ogni persona che esprime idee costruttive si dicesse: “mi piace la tua idea, perché non ne discutiamo insieme? Noi ci vediamo tutti i giovedì a quest’ora proprio per discutere di queste problematiche….”. In questo modo la persona si sente coinvolta ed in questo modo si costruisce attorno al candidato un consenso che va ben al di là del semplice commento sul social trasformando quel consenso “mediatico” in partecipazione concreta.

A grandi linee questi sono alcuni degli accorgimenti che andrebbero presi nella gestione di una pagina social, nel corso del tempo verranno discusse ed analizzate anche altre problematiche relative alla gestione delle pagine e della creazione del consenso, prendendo anche spunto da quanto già fatto da altri, studiando casi positivi ed analizzando casi negativi, con la speranza che questi consigli possano essere utili e costruttivi sia per chi pensa di volerlo fare come lavoro sia per chi non è addetto ai lavori ma comunque ha un interesse in materia. 5-insanely-simple-affordable-social-media-tactics-for-small-businesses

La lunga lotta alla corruzione

In un’intervista su Repubblica di ieri Saverio Capolupo, comandante generale della Guardia di Finanza afferma “i controlli non bastano, manca il senso della legalità”.

Qualche dato riportano sempre da Repubblica: nel 2015 lo Stato Italiano ha subito per le truffe sulla pubblica amministrazione un danno patrimoniale di 4,35 miliardi (nel 2014 erano stati 2,67 quindi la cifra è più che raddoppiata). Le persone per cui è stata ipotizzata una responsabilità erariale sono 8021, tremila in meno rispetto all’anno precedente (quindi diminuiscono le pensioni ma aumenta il capitale evaso). Sono saliti a 7,4% gli evasori totali: sono quei soggetti che hanno prodotto reddito ma che agli occhi dello stato risultano essere completamente sconosciuti al fisco. Ai responsabili di frodi la Finanza ha sequestrato disponibilità patrimoniale – per il recupero delle imposte evase – per 1,1 miliardi e proposto il sequestro per altri 4,4 miliardi. Ci sono anche accertati 2466 casi di “frodi carosello”, che poi sono quelle frodi che prevedono la creazione di una società fantasma per costituire crediti IVA fittizi ed indebita compensazione.

5184 datori di lavoro hanno pagato in nero (quelli accertati ovviamente) e ci sono 12428 lavoratori in nero che non pagano tasse.  In quest’anno sono state confiscate 93 aziende riconducibili alla mafia. Due miliardi vengono dalle “truffe bancarie a danno dello Stato”. Su 2813 distributori di benzina, 2077 sono risultati irregolari: parliamo del 74%. Tra i trucchi individuati: il prezzo esposto sulle colonnine esterne non corrispondeva a quello sull’erogatore, il quantitativo erogato era inferiore oppure il prodotto era annacquato.

Questi dati ci dicono che non è solo la politica ad essere corrotta e che dire della nostra classe dirigente “rubano tutti” forse non è del tutto corretto.

Una volta Romano Prodi disse “ogni Paese ha la classe dirigente che si merita”.  Quello che voglio dire è l’italiano (di norma) va sempre a cercare il modo per farla franca e non pagare le tasse, vantarsi di “aver fregato lo Stato” è un grande successo.

La corruzione, l’evasione totale, questi sono i problemi che bloccano le crescita dell’Italia non certo i “costi della politica” (che comunque andrebbero ridotti).

Combattere i “Grandi Evasori” sarebbe la grande rivoluzione per poter ancora abbassare le tasse, secondo il principio “pagare meno, pagare tutti” e chi non paga, chi evade grosse somme di capitale, deve essere punito dalla legge.

Combattere l’evasione però potrebbe non bastare, perché serve una vera e propria educazione finanziaria. Fino a che molti italiani ragioneranno secondo lo schema: “ma se evado le tasse non faccio mica male a nessuno, ci sono quelli che evadono più di me” e fino a che l’evasione non viene considerata come un crimine ma come una “furbizia” non riusciremo mai a combattere sino in fondo l’evasione.

Anche la Silicon Valley contro Trump

Anche gli imprenditori della Silicon Valley sono contro Donald Trump.  Di oggi è a notizia che gli imprenditori della maggiori società informatiche che fanno da traino all’economia americana – tutti liberal – hanno deciso di schierarsi apertamente contro Trump ed organizzare una convention con alcuni repubblicani per trovare un nome “moderato” da sostenere contro il magnate di New York che spaventa gli Stati Uniti.

Le motivazioni di questa scelta sono diverse: prima di tutto Donald Trump in più di un’occasione si è schierato contro la Silicon Valley: 1) chiedendo a Bill Gates di chiudere Internet agli islamici; 2) Sostenendo durante un comizio la necessità di boicottare i prodotti Apple perché Tim Cook si era rifiutato di comunicare i dati contenuti nel Cloud del telefonino di uno dei terroristi della strage di San Bernardino; 3) Le accuse a Jeff Bezos di aver acquistato il Washington Post per poter pagare meno tasse attraverso la sua fondazione.

Un altro motivo per contrastare l’ascesa di Trump è legata al fatto che il magnate americano sia contro l’immigrazione, o per meglio dire sembra essere intenzionato a limitare l’immigrazione sul suolo statunitense.

La Silicon Valley ha costruito buona parte della sua fortuna proprio dall’immigrazione attingendo soprattutto a ingegneri indiani e del Sudest asiatico più preparati e con stipendi meno competitivi di quelli di un parigrado americano.

Per questo di certo non possono permettere che vinca un candidato che impedendo l’immigrazione creerebbe un problema non da poco alle lobbie dell’industria del silicio in California.

Sin qui abbiamo parlato delle motivazioni “economiche” ma ci sono anche delle motivazioni politiche: la Silicon Valley è per lo più formata da imprenditori liberal, vicini ai diritti degli omosessuali, per una maggiore circolazione delle persone e soprattutto per una serie di libertà che un candidato come Trump  – sostenuto dall’America più profonda non può che sostenere.

Per un americano della classe media avere come candidato presidente un milionario da mezza tacca (noto bancarottiere e palazzinaro) è una cosa inconcepibile e per questo motivo è nata l’idea della convention.

Alla convention hanno preso parte alcuni dei vertici del Partito Repubblicano, anche loro spaventati dalla possibilità che Trump possa anche solo correre per la presidenza degli Stati Uniti d’America.

 

Presenti alla riunione tra gli altri c’erano alcuni degli esponenti del gruppo dei “neocon” come ad esempio William Kristol e Karl Rove. Tutti uniti contro Donald Trump. Le speranze di far deragliare Trump ormai sono davvero poche e molto probabilmente gli americani ad avere Trump come candidato per la presidenza.

La stessa scelta di Michael Bloomberg di ritirarsi dalla corsa per le presidenziali lascia intendere che i moderati stanno cercando di fermare Trump con ogni mezzo possibile.

Per ora, la sola persone che tifa per la vittoria di Trump alla convention repubblicana è… Hillary.

Trump, il candidato repubblicano che fa paura (ai repubblicani)

Nelle primarie americane sta succedendo quello che nessuno sino a qualche mese fa avrebbe anche solo potuto immaginare nelle analisi più improbabili: Donald Trump rischia di essere (a questo punto possiamo anche dire che è una certezza) il candidato dei Repubblicani alle prossime elezioni.

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Il GOP (Acronimo per Grand Old Party) non è riuscito ad arginare il suo candidato meno probabile e più scomodo optando per qualcuno di più credibile e soprattutto più moderato. I repubblicani avevano puntato sul giovane governatore della California Marco Rubio e su Ted Cruz nella speranza di arginare Trump ma ambedue i candidati sono stati travolti da un vero e proprio terremoto politico che ha  proiettato Trump direttamente dall’essere outsider per eccellenza ad essere il candidato che sfiderà Hillary Clinton alle primarie. Il fenomeno Trump è un fenomeno da analizzare per comprendere come sia cambiato il modo di pensare di una parte del popolo americano: Donald Trump è stato votato da quella parte di popolo americano che non va a votare da anni e che sino a questo momento non si era sentita rappresentata da nessuno. Trump rappresenta un modello di sogno americano di “persona che ce la ha fatta” un poco come era stato Berlusconi nel 1994. Facendo una interessante analisi sulle parole maggiormente usate da Donald Trump quello che emerge dai discorsi di Trump è che con discorsi brevi e frasi non troppo complicate riesce a far leva sul sentimento di paura degli americani delle classi più povere: paura del terrorismo, dell’immigrazione, di perdere il lavoro, di vedere snaturata la propria natura americana. Donald Trump – così come era stato per Bernie Sanders nel fronte democratico – riesce ad intercettare voti in quella Middle Class ormai scomparsa che non si sente più rappresentata da nessuno.

Una vittoria di Donald Trump in questo momento secondo me è ancora altamente improbabile: nonostante le sue vittorie il personaggio resta forse uno dei più controversi personaggi americani: palazzinaro, noto bancarottiere e amico intimo di alcuni esponenti del KKK e di altri movimenti della supremazia bianca pare stia spaventando non poco la parte moderata dei repubblicani che stanno studiando un modo per farlo fuori in modo da non contravvenire alle regole. L’ultima speranza di poter fermare Trump è sul voto della Florida, lo Stato dove venne eletto Marco Rubio, il giovane esule cubano che è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di “uomo dei Tea Party”, un’etichetta che potrebbe essere ancora considerata scomoda per diventare presidente americano.

Hillary Clinton rischia di avere la strada spianata alla Presidenza a patto che non sottovaluti troppo il suo avversari: i democratici hanno un candidato capace di prendere voti in quel bacino elettorale che da Trump non si sente rappresentato, tenendo anche però a mente che la maggior parte degli americani, quelli della classe più povera pare guardare a Trump come il solo in grado di dare risposte alle loro domande, per vincere le elezioni questa volta insomma non si deve guardare solo alle lobbie, ma anche al singolo cittadino, come fece Barack Obama nel 2008.